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Opinione inserita da Virgilio    09 Febbraio, 2021
Ultimo aggiornamento: 10 Febbraio, 2021
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I Perduratum si formano in Messico nel 2019 con musicisti che hanno una notevole esperienza in ambito underground, ma qualcuno anche in band con una discografia alle spalle di tutto rispetto (in particolare, il batterista Aruh milita anche nei thrashers Tulkas). Questo primo EP, intitolato "Exile's Anthology", è composto da quattro tracce, per una durata complessiva di circa venti minuti. A parte l'opener "Anachrony", una breve intro strumentale, la parte più interessante del disco è composta dai successivi tre brani, con i quali la band mette in mostra un prog metal molto tecnico, ispirato ai principali act del genere. "Assumption" è tendenzialmente più diretta e lineare rispetto alle altre due, nelle quali invece la band sfodera una struttura un po' più articolata, con cambi tematici e ampie digressioni strumentali. La sezione ritmica è molto solida e tecnica, mentre il chitarrista James Ponce e il tastierista Edgar Butanda danno dimostrazione di virtuosismo con fraseggi complessi e intricati e splendidi assoli. Buona anche la prova del cantante Diego Cholula, dotato di una voce molto alta, influenzato da singer prog metal come Michael Eriksen dei Circus Maximus e Nils K.Rue dei Pagan's Mind, ma anche da cantanti di generi differenti quali Einar Solberg dei Leprous o Matt Bellamy dei Muse. Davvero un buon biglietto da visita per questa band, che dopo questo assaggio ci aspettiamo di ascoltare presto anche con un vero e proprio album.

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Opinione inserita da Virgilio    04 Febbraio, 2021
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Proprio un anno fa gli Elegy Of Madness avevano pubblicato l'album "Invisible World", un disco con cui hanno riscosso buoni consensi e con il quale hanno partecipato ad un contest e ricevuto un premio nella loro città di origine, Taranto. Ne è conseguita la possibilità di riprendere il video di uno show speciale registrato con l'accompagnamento della Giovane Orchestra Jonica, diretta dal Maestro Fabio Orlando. Per un concerto speciale, serviva anche una location speciale, per la quale è stato scelto il Teatro Fusco di Taranto. Lo show ha avuto luogo lo scorso 7 ottobre e ne è stato ricavato un DVD, con il quale gli Elegy Of Madness si confermano ancora una volta una band davvero di talento e di valore, che propone un metal sinfonico che certamente strizza l'occhio ad act come Nightwish o Epica, ma che allo stesso tempo ha saputo trovare la propria dimensione espressiva, riuscendo a proporre canzoni affascinanti ed in grado di emozionare, arricchite da squisiti arrangiamenti, come dimostra più che mai con questo video. Il gruppo pugliese presenta una bella scaletta, concentrata quasi esclusivamente sugli ultimi due album, "New Era" del 2017 e, appunto, il nuovo "Invisible World", eseguito nel corso della serata praticamente per intero. Uniche eccezioni rispetto a brani estratti da questi due dischi sono due strumentali, una che funge da intro e un'altra traccia intitolata "To Esperia", nella quale viene data maggiore evidenza all'orchestra: in particolare, peraltro, la prima consente alla cantante un ingresso solenne percorrendo tutto il teatro con un abito dotato di un lunghissimo strascico e persino due valletti, che la accompagnano fino al palco, aiutandola poi, al termine della prima canzone, ad assestarsi con un abbigliamento almeno un po' più agevole da indossare. Proprio la singer Stefania "Anja" Irullo è una grande protagonista con la sua bellissima voce, davvero in gran forma e, in qualche occasione, come di consueto, affiancata anche dal growl del chitarrista e fondatore del gruppo, Tony Tomasicchio. In generale, però, la performance della band è davvero eccellente e i brani acquistano maggiore profondità e ricchezza espressiva con l'apporto di una vera orchestra, tanto che anche qualche traccia che non ci aveva entusiasmato particolarmente nella versione in studio dell'album, qui appare decisamente più convincente. Con riguardo al dvd, evidenziamo come il palco magari non fosse particolarmente grande rispetto al numero dei musicisti, ma il gruppo pugliese ha saputo offrire un bello show anche per quanto riguarda la presenza scenica, le luci, nonchè per una considerevole presenza di telecamere, che ha consentito di ottenere diverse inquadrature da tante angolazioni, conferendo anche maggiore vivacità alla parte video; a ciò si aggiunge tutto il calore del pubblico tarantino, che con grande partecipazione ha presenziato all'evento, tanto che il Teatro Fusco era davvero gremito. Insomma, un prodotto realizzato davvero come si deve, da parte di una band che magari non dispone normalmente di un budget paragonabile a quello di tanti altri gruppi di punta europei, ma che in quest'occasione ha dimostrato di saper fare le cose per bene, valorizzando ulteriormente la propria già bella musica.

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Opinione inserita da Virgilio    23 Gennaio, 2021
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TDW altro non è che l'acronimo di Tom de Wit, cantante, polistrumentista e produttore, che alterna la propria produzione discografica con questo moniker e con quello dei Dreamwalkers Inc. Questo nuovo lavoro, intitolato "The Days The Clock Stopped" è un concept album ispirato a reali esperienze vissute da de Wit: infatti, all'età di diciannove anni, il musicista olandese ha avuto diagnosticata una grave malattia all'intestino, che lo ha portato a subire una serie di vicissitudini e persino a rischiare la vita in più di un'occasione. Già questo può fare intuire come si tratti di un lavoro dunque molto sentito dall'autore a livello personale, perchè finora si era servito nel corso della sua carriera magari di personaggi inventati per descrivere anche propri stati d'animo, ma che qui ha deciso di mettersi in gioco proprio di prima persona. La musica appare dunque sin da subito incentrata molto sull'aspetto emotivo, nello sforzo di trasmettere realmente delle sensazioni e delle situazioni vissute in maniera diretta. L'album, per la verità, stenta un po' a partire nella fase iniziale, tra passaggi lenti e voci soffuse, ma soprattutto dalla terza traccia in poi comincia a svelarsi in tutta la propria forza espressiva, con brani davvero molto articolati, con trame intricate, arrangiamenti meravigliosi e un utilizzo imponente sia di strumenti, con tanto di archi e orchestrazioni, sia di voci, che si trovano a duettare, concertare o ad intrecciarsi, grazie ad un autentico coro che riesce ad arricchire non poco le composizioni. Un prog metal di pregevole fattura, che a tratti tradisce influenze dei Pain Of Salvation dell'epoca d'oro e che tocca il culmine nella suite "No Can Do", una traccia di oltre diciotto minuti. Peraltro, va anche detto che de Wit si avvale dell'apporto di una line-up di tutto rispetto, nella quale spiccano Rich Gray (Aeon Zen, Annihilator) al basso e Fabio Alessandrini (Annihilator) alla batteria, oltre ad una serie di chitarristi solisti di notevole spessore: non li citiamo tutti perchè sono tanti ma, giusto per rendere l'idea, ci limitiamo a menzionare Marco Sfogli, Daniel Magdič (Prehistoric Animals, Ex-Pain of Salvation), Koen Romeijn (Detonation, Heidevolk), Chris Zoupa (Teramaze) e Luca Di Gennaro (Soul Secret). Insomma, pur conoscendo Tom de Wit, siamo rimasti sinceramente stupiti da questo lavoro, davvero ricco per contenuti e per qualità musicale, che va apprezzato con calma e senza fretta.

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Opinione inserita da Virgilio    15 Gennaio, 2021
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Vedendo questa nuova uscita degli Edenbridge, ci viene da pensare davvero quanto il tempo passi in fretta! Sono trascorsi infatti ben quattordici anni da quando la band austriaca pubblicava "The Chronicles Of Eden", una raccolta antologica che comprendeva il meglio dei propri primi cinque album. Peraltro, a ben riflettere, si sono mediamente allungati i tempi di pubblicazione della band, se consideriamo che la prima compilation uscì ad appena sette anni dal debutto "Sunrise In Eden", mentre ne sono passati un po' di più perchè si giungesse ad altri cinque album. Ad ogni modo, questa seconda parte raccoglie canzoni tratte da "MyEarthDream" del 2008, fino a "Dynamind" del 2019: per l'occasione, sono stati coinvolti i fan, in modo da scegliere quattro tracce per ogni album. Per completare la tracklist, sono stati inseriti anche alcuni brani strumentali, inizialmente pubblicati solo come bonus track: in particolare, si tratta di "MyEarthDream Suite (For Guitar and Orchestra)" e di due tracce tratte dalle sessioni di "Solitaire", ovvero "Inward Passage" e "Eternity" (due brevi strumentali non particolarmente degne di nota). Di propriamente inedito non c'è molto, a parte qualche versione alternativa: in particolare, vengono riproposte in doppia versione (cioè sia l'originale sia una nuova inedita acustica) le hits "Higher" e "Paramount"; inoltre, c'è una nuova versione solo per voce e piano di "Dynamind" (della quale, invece, non è stata inclusa l'originale). Insomma, non c'è tantissimo per ingolosire i fan che conoscano già la discografia della band, però bisogna riconoscere come in questo doppio album, contenente ben ventisei tracce, la scelta sia stata davvero molto varia e assortita, cosicchè, accanto ovviamente a brani magari più catchy e diretti, ritroviamo anche tracce monumentali e di lunga durata come "The Greatest Gift of All", "The Bonding" e "MyEarthDream". Un buon campionario, dunque, di quello che la band austriaca ha saputo realizzare, con il suo metal melodico dalle tinte sinfoniche, che l'autore e polistrumentista Lanvall ha costruito attorno alla voce di Sabine Edelsbacher: una discografia di tutto rispetto, che ha permesso alla band austriaca di conseguire un buon successo e una solida base di fan in tutto il mondo; a tal proposito, anzi, non escludiamo che, magari, proprio questa compilation, potrà essere utile anche a conquistarne di nuovi.

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Opinione inserita da Virgilio    12 Gennaio, 2021
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Dei Return To Void avevamo davvero apprezzato particolarmente il secondo album, "Memory Shift The Day After", nel quale segnavano una decisa svolta verso il progressive metal. Con questo nuovo lavoro, intitolato "Infinite Silence", la band finlandese mischia nuovamente le carte in tavola, tornando ad un sound meno complesso, con un certo flavour settantiano (già presente nel loro omonimo debut album) che ogni tanto fa capolino, enfatizzato dall'utilizzo dell'hammond. Non vengono tuttavia totalmente eliminati gli elementi prog, per quanto comunque i pezzi siano certamente meno complessi e puntino maggiormente su una struttura più tipica della forma canzone, con strofe e bridge, un refrain melodico e qualche divagazione strumentale, con assoli a cura del chitarrista Saku Hakuli e del tastierista Antti Huopainen. Dobbiamo dire che comunque tutti i musicisti dimostrano buona personalità e riescono a dare il proprio significativo contributo: una menzione a parte merita però il cantante Markku Pihlaja, che ogni tanto tradisce i proprio trascorsi da "coverista" di Bruce Dickinson, ma che in generale riesce ad emanciparsi dalle proprie influenze per offrire delle performance che si coniugano alla perfezione con lo stile della band. In generale, in tutta sincerità, preferivamo i Return To Void ascoltati nell'album precedente: va anche riconosciuto, tuttavia, come il combo finlandese si sia impegnato per ottenere un sound corposo e rotondo, che riesce ad essere convincente. Per contro, qualche traccia in quest'ottica risulta forse eccessivamente dilatata, come anche in qualche brano non ci hanno convinto i suoni delle chitarre, quando invece i riff sono un elemento fondamentale nella loro musica. Ad ogni modo, nell'insieme, "Infinite Silence" riesce ad essere alquanto coerente ed omogeneo, con alcune tracce davvero niente male, quali ad esempio l'opener "Aliveness", "Full Circle", "Mosaic Of Light And Shadow" o "Departed And Arrived". Un disco, dunque, con il quale va dato atto di come i Return To Void stiano conducendo, album dopo album, un autentico percorso artistico, che vale la pena senz'altro di seguire e di conoscere, ascoltando anche questo nuovo tassello della loro discografia.

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Opinione inserita da Virgilio    28 Dicembre, 2020
Ultimo aggiornamento: 28 Dicembre, 2020
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"Leap Of Faith" è il titolo del primo full-length dei greci Peculiar Three, che segue il loro debutto con l'EP "P3culiar" del 2014. Al di là di una qualità del suono non particolarmente soddisfacente, benché siano trascorsi un po' di anni dalla loro prima fatica discografica, si riscontrano ancora alcune acerbità: ad esempio, la voce manifesta in alcuni casi evidenti limiti, come anche a livello stilistico c'è una certa disomogeneità tra un brano e l'altro. Diciamo che, a nostro avviso, la band presenta le intuizioni migliori quando si cimenta in un sound grezzo e costruito su riff decisi, dal forte sapore ottantiano, come avviene ad esempio nel caso della title track o di "Knaves o' Knives". In un paio di brani (in particolare in quelli iniziali), sono stati inseriti anche assoli alquanto particolari, magari però non bene amalgamati nel contesto delle tracce, ma va anche detto che ci convincono decisamente meno alcuni episodi dove la band cerca di puntare su un lato atmosferico del proprio sound, come nel caso di "Innermost" o "Marginal". Dalle influenze maideniane di "Inkblot", si passa poi a incursioni nel metal sinfonico con "Caliban's End": insomma, c'è tanta carne al fuoco, ma la sensazione è che la band debba ancora trovare la chiave e i giusti equilibri per sfruttare al meglio tutte le proprie potenzialità. "Leap Of Faith" è un importante passo avanti in tal senso, ma c'è ancora da lavorare.

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Opinione inserita da Virgilio    16 Dicembre, 2020
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I Ritual sono una prog band svedese formatasi nei primi anni '90, con quattro studio album e un live all'attivo, l'ultimo dei quali pubblicato ben tredici anni fa. A detta del gruppo scandinavo, le cause di una così lunga pausa sarebbero diverse: già la band non è di per sè particolarmente veloce (mediamente sono passati quattro anni tra un album e l'altro) e a ciò si è aggiunto, tra le altre cose, il fatto che il cantante/leader Patrik Lundström, oltre a essersi dovuto trasferire (per cui non abita più vicino agli altri tre membri), si è interessato anche ad altri progetti. Tuttavia, l'amore per questa band non è stato dimenticato e così questi ha continuato a scrivere, realizzando dapprima un concept e lavorando poi alla relativa musica. La situazione è diventata tuttavia così complessa che ne verrà fuori un doppio album, il quale richiederà tempistiche piuttosto lunghe. Per non far passare troppo tempo, ecco il motivo della pubblicazione di quest'ep, che anticipa tre brani che saranno inclusi nella prima parte, più un quarto che farà parte invece del secondo disco. La band privilegia perlopiù sonorità acustiche, utilizzando strumenti particolari come mandolino, bouzouki, flauti, armonica e così via. I brani si muovono dunque proprio in questa direzione, con arrangiamenti raffinati e un approccio vocale molto teatrale e talvolta volutamente retrò. Particolare l'ultima traccia, "The Mice", lunga oltre nove minuti e caratterizzata da un lungo intermezzo strumentale. Diciamo che quest'ep rappresenta un piccolissimo assaggio di quello che sarà l'opera completa e probabilmente sarà anche insufficiente per farsi un'idea precisa: in realtà, peraltro, ci saremmo aspettati una vena leggermente più tendente al folk, che comunque è presente. La funzione di quest'ep è dunque quella fondamentalmente di riscaldare l'audience in attesa di un ritorno in grande stile. In tutta sincerità, queste prime anticipazioni non ci hanno particolarmente entusiasmati, ma da una band come i Ritual è lecito aspettarsi di tutto, quindi attendiamo con curiosità quanto arriverà prossimamente da parte loro.

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Opinione inserita da Virgilio    09 Dicembre, 2020
Ultimo aggiornamento: 10 Dicembre, 2020
Top 10 opinionisti  -  

Gli Alter Bridge avevano pubblicato l'anno scorso l'album "Walk The Sky", al quale era seguito un tour negli Stati Uniti d'America. In realtà erano programmate altre date, poi cancellate a causa della pandemia da Covid-19, per cui ecco che arriva questo EP, intitolato semplicemente "Walk The Sky 2.0": un titolo, per la verità, che certo non brilla per fantasia, ma che allude al fatto che in pratica si tratta di brani tratti dall'ultimo album ed eseguiti dal vivo, ai quali è stato aggiunto un inedito, intitolato "Last Rites". Ci si potrebbe chiedere, in effetti, quale sia il motivo di un'uscita di questo genere: avrebbe potuto essere pubblicato a questo punto un cd live completo, ma probabilmente la band non ha voluto tornare su questo formato, avendo già rilasciato di recente il "Live at the Royal Albert Hall" nel 2018 e il "Live at the O2 Arena" l'anno prima. Nel nuovo EP ritroviamo invece dal vivo alcuni tra i brani più rappresentativi tra quelli inclusi nell'album, come "Wouldn't Rather", "Pay No Mind" e la coinvolgente "Godspeed", accanto ad altri che, per la verità, non sembrano rendere particolarmente come "Native Son" e "Dying Light". Insomma, nulla di imprescindibile, semplicemente una testimonianza di queste canzoni dal vivo e un assaggio di questo tour per chi ha potuto partecipare e per chi, per contro, non ha potuto presenziare per l'annullamento delle date. Per rendere un minimo più appetibile la release, è stata inclusa, come dicevamo, anche una nuova canzone, "Last Rites", scritta proprio durante il lockdown, caratterizzata da riff potenti, con un bridge e un ritornello che in effetti funzionano molto bene. Ad ogni modo, possiamo considerare questo "Walk The Sky 2.0" un'uscita rivolta essenzialmente agli autentici die-hard fans, mentre gli altri possono tranquillamente astenersi.

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Opinione inserita da Virgilio    08 Dicembre, 2020
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Nati nel 2016 come progetto solista di Viljami Jupiter Wenttola, gli Joviac si evolvono in un vero e proprio gruppo, dapprima con l'apporto del bassista Antti Varjanne e poi anche del batterista Rudy Fabritius. "Here And Now" è il titolo del loro secondo full-length, composto da sette tracce, alle quali sono state aggiunte una bonus track, "Misplaced", più una seconda versione (single edit) di "Straws". La band suona fondamentalmente un metal melodico con venature progressive, che trova espressione in suoni molto puliti e atmosfere ariose, che puntano a colpire il cuore e la mente dell'ascoltatore. La durata media dei brani comunque è abbastanza lunga: a parte un'intro strumentale, non si scende mai al di sotto dei cinque minuti, con la title-track che sfiora i nove. Questo perchè, pur presentando le canzoni di per sè una struttura abbastanza semplice, si lanciano spesso e volentieri in lunghe divagazioni strumentali, che cercano appunto di esaltare l'approccio più emotivo (che non tecnico) delle loro composizioni. Scorrendo la tracklist notiamo la melodica "Straws", seguita da "Black Mirror", carica di groove, ma soprattutto la title-track, che con il suo mix di potenza, melodia, intermezzi atmosferici e dirompenti assoli, sintetizza effettivamente tutti gli elementi e i punti di forza della band. Particolare per la sua ritmica e le sue melodie "Decay", con giri armonici che un po' ci hanno fatto pensare ai Muse, mentre "Crossfire" è una sorta di mid-tempo, con un ritornello molto breve e semplice. Le sonorità si ammorbidiscono ancora con "Fade Into Light", praticamente una ballata che, a dire il vero, non ci ha colpiti particolarmente, ma che ad un certo punto va in crescendo e si vivacizza. In conclusione, non possiamo dire che "Here And Now" sia un disco imprescindibile o che brilli per originalità, però le canzoni sono certamente gradevoli e funzionano bene sia come piacevole sottofondo, sia con un ascolto più attento, grazie alla cura dei dettagli e degli arrangiamenti, per cui merita di avere la sua chance.

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Opinione inserita da Virgilio    19 Novembre, 2020
Ultimo aggiornamento: 20 Novembre, 2020
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I Sense of Creation si formano a Londra nel 2009 dall'incontro tra Lukasz Lowkis ed Elisa Tomaselli e, se non andiamo errati, il concept di "Forsaken Era" dovrebbe già essere stato pubblicato nel 2013. Nel frattempo, la cantante Elisa è ritornata in Italia, dove ha formato una band con nuovi elementi, ri-registrando e modificando il concept, che giunge così quest'anno ad una nuova pubblicazione in una versione rivisitata. Fondamentalmente, i Sense Of Creation propongono un metal sinfonico, incentrato appunto su orchestrazioni e sulla bella voce della cantante, ben supportati da una band in grado di creare le giuste atmosfere, talvolta più solari ed eteree, altre volte più dark e misteriose. Tra le tracce, si segnala un brano cantato principalmente in italiano, "Voci", ma anche in "Alethea" c'è un inserto parlato in italiano; c'è pure una bella canzone interamente in latino, intitolata "Iustitia" e ispirata alla beatitudini (dal Vangelo secondo Matteo), per la quale è stato realizzato peraltro un video, attualizzato, con le immagini, su varie questioni di discriminazione sociale. In latino è in parte anche l'intro orchestrale "Memoriae", così come decisamente orchestrale (e, in questo caso, interamente strumentale) è la conclusiva "Deliverance", una sorta di outro. Si segnala, poi, la presenza nella tracklist di un'autentica ballata pianistica, intitolata "Sorrow", nella quale spicca ancora una volta la performance della cantante. In generale, l'impressione è comunque quella di un disco che è stato concepito qualche anno fa: in tal senso, se effettivamente è stata fatta quest'opera di rivisitazione, probabilmente si poteva tentare di puntare su arrangiamenti diversi, magari un po' più contestualizzati. Insomma, c'è il rischio che oggi "Forsaken Era" passi come uno dei tanti dischi di metal sinfonico concepito una decina d'anni fa e possibilmente uscito troppo tardi, mentre con una bella rinfrescata avrebbe avuto le carte in regola per suonare in maniera decisamente più accattivante, rischiando invece così di non godere della visibilità che meriterebbe. Ad ogni modo, vale senz'altro la pena di approfondire l'ascolto dell'album ma c'è anche da dire che, considerato che la band ci ha ispirato sensazioni positive circa il proprio potenziale, auspichiamo che non si fermi a questo ma che, al contrario, questa nuova line-up possa proseguire in maniera più stabile, magari anche per proporre qualcosa di nuovo.

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