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Opinione scritta da ENZO PRENOTTO

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    13 Marzo, 2023
Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 2023
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Gli Aura sono una band nostrana nata nel lontano 1996, ma solo dopo parecchi anni hanno fatto uscire il debutto ("A Different View From The Same Side" del 2008) e nel giro di circa un decennio fece uscire altri due dischi. Il quartetto, nonostante le poche uscite discografiche, ha sempre privilegiato la qualità alla quantità ed anche questo nuovo album, "Underwater", riflette quest’ottica. Le coordinate sonore vanno ricercate sia nel Prog degli anni ‘80 – ‘90 sia nel Progressive Metal circa della stessa decade, dove a prevalere è la venatura melodica piuttosto che quella tecnica. Gli Aura sono musicisti raffinati ed il loro modo di fare Prog rispecchia colleghi come i Riverside per lo stile vocale decisamente carezzevole (“Lost Over Time”) e le atmosfere soffuse, però vengono richiamati all’ordine anche i Pink Floyd più pop grazie ad impianti corali intensi che si sposano perfettamente alla ruvidità delle chitarre in episodi come “Keep It Safe”. Addentrandosi nel disco il gruppo decide di sbizzarrirsi spingendo sull’aggressività delle ritmiche (“On Time”) impostando dei sorprendenti muri di suono (il groove acceso di “Eternal Bliss”), però l’influenza principale arriva direttamente dal Prog Metal americano di scuola Fates Warning. La pesantezza viene dosata con il contagocce privilegiando la sensibilità (“Time To Live” e “My Last Words To You”), ma soprattutto si sfrutta la tecnica per creare, per stupire ed appagare come nelle evoluzioni chitarristiche e strumentali della stupenda “Promises”. L’ascoltatore non viene mai abbandonato ed è sempre stimolato a percepire ogni dettaglio. Se si vuole proprio trovare un difetto è l’eccessiva somiglianza di molti passaggi che creano una sorta di deja vù continuo che possono creare fastidi. Un buon lavoro in bilico fra il mestiere e la voglia di stupire, però non sorprende come ci si aspettava.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    13 Marzo, 2023
Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 2023
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Agli appassionati di un certo tipo di Metal moderno con voce femminile (sulla scia degli ucraini Jinjer per intendersi) non sarà sfuggita la presenza nella scena musicale della cantante finlandese Darcy Rioghan. Darcy inizia già nel 2010 a comporre sia poesie che testi e circa dieci anni dopo decide finalmente di dare corpo alle parole creando i Rioghan ed aggiungendoci la musica avvalendosi dell’aiuto di compositori più abili. Esce poi nel 2021 il primo EP "Blackened Sky", che ottiene un’accoglienza decisamente positiva. Non molto tempo dopo si decide di arrivare alla composizione del debutto vero e proprio ovvero questo "Different Kinds Of Losses", che vede un nuovo team al lavoro e collaborazioni decisamente importanti come Jonas Renkse (Katatonia), Einar Solberg (Leprous), Teemu Liekkala (ex-Manufacturer’s Pride, Red Eleven) e Teemu Koskela (ex-Celesty). Ad accompagnare Darcy ci saranno due musicisti fissi ovvero Teemu Liekkala (chitarra, basso e tastiere) e Valtteri Revonkorpi (batteria). Andando al nocciolo della questione, ascoltando l’album si sentono molteplici elementi tipici del nuovo corso che ha intrapreso il Progressive Metal che si è fatto sempre più tecnicamente elaborato (si pensi ad un mix fra Opeth, Dream Theater e tutta la corrente Djent/Metalcore). Ne derivano delle sonorità moderne e compresse, però nel caso dei Rioghan c’è una sensibilità più marcata ed un occhio di riguardo alla melodia e meno all’irruenza. C’è una propensione alla delicatezza vocale che ben si sposa sia alle parti più aggressive sia in quelle atmosferiche, in quanto Darcy ha un controllo vocale notevole. La dilatata “Sight”, con le sue impennate chitarristiche compresse, dà il via alle danze, però anziché fermarsi lì cerca più strade possibili. Difatti con la successiva “Promises” le ritmiche e i riff si fanno decisamente intricati, la voce segue la scia e le stratificazioni come pure l’elettronica completano il mosaico. Successivamente si fanno strada episodi pregni di elementi (“Breath” e “Reflection”), sax e violoncello (la delicata “Time”), armonica (“Innocence”) ed in generale un riuscito mix fra complessità e melodie/ritornelli diretti e pop (“Home”). I brani più riusciti sono “Bruises”, con le sue alternanze vocali scream/pulito davvero fluide, la meravigliosa e futurista “Lights” e la finale “Summer”, con le sue detonazioni elettriche. Un debutto solido e multiforme che piacerà agli amanti delle sonorità Prog più moderne.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    13 Marzo, 2023
Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 2023
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Torna sulle scene il misterioso progetto italiano capitanato dal mastermind Shaman e dalla singer Nicoletta Rossellini (qualcuno se la ricorderà nei Kalidia) che agisce sotto il nome di Walk In Darkness, di cui poco si sa riguardo all’identità della maggior parte dei componenti coinvolti. Attivi dal 2015, questi musicisti hanno pubblicato diversi album in maniera indipendente nel corso degli anni (ristampati nel 2021) e pubblicano ora questo nuovo disco intitolato "Leaves Rolling in Time" che non si discosta molto dal Gothic Metal a cui la band ha abituato gli ascoltatori se non per un approccio più moderno e meno oppressivo. Stavolta la band opta per una scrittura più focalizzata sulla componente vocale che non sugli strumenti o comunque sulle parti più aggressive, prediligendo la cura per l’aspetto emozionale, decisamente maggiore che in passato. Le tracce sono molto asciutte e dirette, quasi Rock nel loro incedere, ma offrono delle leggere dinamiche per non annoiare l’ascoltatore come la pomposa e variegata opening track “Ships to Atlantis”, che vive spesso su orchestrazioni ed un solismo melodico, per poi lasciare spazio ad episodi pregni di sfumature elettroniche (“Bent By Storms and Dreams” e “No Oxygen in the West”), oppure brani dal sapore acustico (il magnifico crescendo emozionale di “Leaves Rolling in Time”). Tornando alle vocals, ci si imbatte in un notevole lavoro ad opera della bravissima Nicoletta, che ha ampiamente superato i timidi esordi con i Kalidia per mostrare al pubblico che sa il fatto suo. La sua voce è dinamica e variopinta, mai sopra le righe, arrivando a livelli celestiali ben supportata anche dai growl maschili. Ciò che preoccupa, come accade di solito in generi come questi, è il fatto che la sezione strumentale non sempre regge come dovrebbe. Sia i riff che le ritmiche sono i medesimi di molti colleghi, seppure agli esordi fossero meglio integrati e più riusciti. Ciò dispiace perché c’è sempre un ottimo equilibrio fra aggressività e melodia (“Get Away” o l’ottima “The Last Glow of Day”) ed anche quando le situazioni si fanno più morbide si percepisce comunque una notevole qualità, come le atmosfere fiabesche di “Elizabeth” o nelle schitarrate imponenti dell’intensa “Walk Close to Me”. Chiude il cerchio la versione alternativa di “No Oxygen in the West” (bonus track) che non aggiunge nulla che possa modificare il risultato finale. I Walk In Darkness sfornano un lavoro nuovamente piacevole e di qualità però non è abbastanza a causa di una concorrenza sempre più feroce.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    13 Marzo, 2023
Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 2023
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I giovani Ravenlight sono una band irlandese relativamente nuova. Attivi dal 2018 esordiscono poco tempo dopo con "Project Genesis", che garantisce loro dei buoni riscontri di pubblico e critica consentendo anche dei tour non indifferenti. Se gli inizi erano caratterizzati da un Metal melodico dalle tinte Power/Symphonic con voce femminile (nulla di particolarmente innovativo e purtroppo trascurabile), con questo "Immemorial" si cerca di correggere il tiro mantenendo la componente sinfonica e più elaborata del debutto aspirando a qualcosa di maturo. La prima cosa che salta all’orecchio è il miglioramento dei suoni, decisamente più cristallini e curati ed anche la scrittura e la composizione appaiono di altra fattura. L’approccio vocale modello Tarja dei Nightwish viene nuovamente mantenuto dalla singer Rebecca, che si lancia in un cantato teatrale nella veloce e power metal song “Masque Of Red Death”, che ha al suo interno delle interessanti influenze di musica tradizionale irlandese. Non sempre però le cose funzionano e spesso le vocals perdono energia e dinamicità, per non dire convinzione, specie quando le sonorità si fanno troppo rocciose o si clonano le idee altrui (la banale “Rain”, le fiacche accelerate alla Epica della Prog-oriented “Left Behind” o nell’anonima e moderna “Spirit Of Life”, ma anche nella tiepida semi-ballad “Spiral”). Dal lato strumentale si finisce nel solito limbo della mediocrità: la sezione ritmica fa il proprio lavoro senza sorprendere minimamente, mentre le tastiere creano dei tappeti sonori molto simili fra loro. Menzione a parte va fatta per il guitarwork che appare cresciuto e lo si percepisce nel lavoro solista, molto ispirato ed evocativo, ma anche negli episodi elaborati come la riuscita e travolgente “Reflections”. Nel complesso è oggettivo che questo "Immemorial" superi qualitativamente quanto fatto in passato, ma risente ancora di un forte legame con migliaia di altri gruppi faticando a distinguersi dalla massa nonostante brani piacevoli come il folkeggiante Symphonic/Power di “Painters Dream”, l’epicità marziale di “Paper Ships”, l’avvolgente e notturna “The Maze” o il deciso colpo di coda della lunga e visionaria “Springtime Lament”, dove finalmente si respira qualcosa di originale. C’è molto da fare però se la band continua a crescere ancora ci potrebbero essere delle sorprese.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    13 Marzo, 2023
Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 2023
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I palermitani Silver Nightmares, nati non molti anni fa, si erano già distinti per un interessante EP intitolato "The Wandering Angel". Dopo due anni arriva finalmente il vero e proprio debutto a nome "Apocalypsis", una sorta di concept album che dimostra delle capacità non indifferenti che potrebbero portare a risultati concreti. La band basa la propria musica principalmente sul Progressive Rock/Metal però lo infarcisce con parecchi elementi sia del passato che dal periodo più moderno. Il disco ha due anime. La prima è quella più legata alla scena Progressive Rock settantiana (sia italiana che generalmente europea) grazie al massiccio utilizzo sia di strumenti etnici (il flauto alla Jethro Tull nella fiabesca “Wizards, Witches and Sorcerers”), che per l’eleganza degli arrangiamenti (la dinamica “The Awakening”). La seconda è a sua volta suddivisa fra l’Hard Rock e l’Heavy/Power Metal e merita degli approfondimenti più specifici. Le bordate metalliche elaborate nell’opener “SapHiens” richiamano molto gli Angra grazie ad un uso mirato di arrangiamenti Folk, assolo degni di nota e funambolismi tecnici (mai comunque fini a sé stessi). “Sea of Sikelia” spara un furente riff Hard Rock “spacca montagne” infarcendolo con melodie dai toni eroici. Entrano poi in campo molte atmosfere e dettagli come il mood esotico/cinematografico di “Etemenanki”, che sfrutta molto bene i cori e le vocals femminili, il Jazz/Funky di “8”, atmosfere battagliere nell’aggressiva “The Weird Black Cross”, ma soprattutto i richiami ai maestri Diamond Head per il mix di squarci acustici ed elettrici ed i Pink Floyd per le melodie chitarristiche soliste (“Scorns of Time”). Non tutto però funziona a dovere a partire da una produzione un po’ altalenante che diverse volte stordisce l’ascoltatore per sbalzi di volumi oppure per una resa plasticosa nei suoni (“Nefertiti”). La voce del vocalist Michele appare anonima, per quanto intonata, faticando ad imporsi come dovrebbe ed anche la pronuncia inglese appare forzata e necessita di miglioramenti. Nel complesso il disco lascia comunque una più che buona impressione nonostante qualche caduta di tono (la fin troppo ingarbugliata semi-ballad “The Blue Light of a Star” ed il pasticciato finale “Intangible”) e mostra un gruppo dalle molte qualità che con le dovute accortezze potrebbe davvero impressionare un pubblico più vasto. Un bellissimo esordio, magari grezzo e dai mezzi limitati, ma che piacerà sicuramente agli appassionati di Prog sia Rock che Metal di derivazione europea.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    13 Marzo, 2023
Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 2023
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Puntualissimi come un orologio, ritornano con il nuovo disco i danesi Royal Hunt, una delle bands più rappresentative del Rock/Metal sinfonico fin dalla fine degli anni ‘80. Il qui presente "Dystopia - Part 2" è l’ovvio seguito e conclusione della saga iniziata con "Dystopia - Part 1", uscito circa un paio di anni fa. Come per il precedente, anche in quest’opera c’è una massiccia presenza di ospiti: Mats Leven (TSO, Skyblood, Vandenberg), Mark Boals (YJ Malmsteen, Ring of Fire, Royal Hunt), Henrik Brockman (Royal Hunt, Evil Masquerade, N’Tribe ), Kenny Lubcke (Narita, Zoser Mez) e Alexandra Andersen (Royal Hunt, JSP). Lo stile dei Royal Hunt punta nuovamente alla qualità piuttosto che all’innovazione accrescendo l’intensità delle composizioni, ed anzi, migliorando il già ottimo prequel limando le imperfezioni. Viene confermato lo stile classico, ovvero l’unione di orchestrazioni e Progressive Rock/Metal, ma senza che ci sia mai una vera prevalenza creando un perfetto equilibrio (la lunga ed elaborata “Thorn In My Heart” dispersa fra suggestioni fiabesche e profumi arabeggianti) che stimola sempre l’ascoltatore cercando sempre di stupire. Se la contorta “The Key Of Insanity” e l’intermezzo neoclassico “The Purge” sono, forse, gli episodi meno riusciti, nelle rimanenti tracce c’è di che godere. “Live Another Day” è un piccolo gioiellino in cui ogni musicista riesce a dare il suo piccolo contributo grazie ad un crescendo ad incastro notevole: prima si mette in mostra la sezione ritmica (Andreas "Habo" Johansson e Andreas Passmark hanno un’ottima intesa) in una sorta di danza drammatica, lasciando poi spazio al guitarwork di un sempre più ispirato Jonas Larsen, che si diletta in riff infuocati concedendosi delle finezze e dei picchi melodico/epici impressionanti, per non parlare dei bellissimi assolo. DC Cooper alla voce è sempre magnifico ed il lavoro del mastermind André Andersen alle orchestrazioni è imponente ma mai sopra le righe. I cinque musicisti danno prova di un sempre più crescente affiatamento e lo dimostrano il roccioso Hard Rock sinfonico a nome “One More Shot”, la stupenda semi-ballad “Left In The Wind” (raffinata e con un lavoro solista invidiabile) e la perla sonora di quasi quindici minuti “Scream Of Anger”, dai toni teatrali che parte con una cavalcata Metal per poi prendere tante strade differenti in un crescendo maestoso. Seppure con qualche piccolo difetto ed un paio di brani sottotono, i Royal Hunt non deludono ed offrono un eccellente prova di classe che pochi possono permettersi dopo tanti anni di attività.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    24 Gennaio, 2023
Ultimo aggiornamento: 24 Gennaio, 2023
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Da non molto gli svedesi Katatonia hanno sorpassato la soglia dei trent’anni di carriera. Non sono molti i gruppi attuali che possono permettersi una storia altrettanto lunga eppure la band, nonostante i numerosi cambi di line up, continua sulla sua strada oramai sempre più lontana dal Doom/Death Metal degli esordi e più vicina ad un Progressive Metal dalle tinte dark intrecciato con un certo Post-Rock (sulla scia di colleghi come Evergrey, Swallow The Sun o Moonspell), ma sempre mantenendo una forte impronta Heavy. "Sky Void of Stars" è la nuovissima fatica del combo nordico e cerca di proseguire sulle orme del precedente ed ottimo "City Burials" con dei risultati un po’ controversi e poco chiari.
"Night Is The New Day" è probabilmente da considerarsi come il punto zero del nuovo corso del gruppo. Quel disco segnò un forte distacco dal passato e portò ad evoluzioni continue e cambiamenti di rotta. Questa recente opera è una sorta di tentativo di mettere furbamente d’accordo tutti ed in parte la missione può dirsi compiuta, ma ci sono diverse perplessità che emergono. Se si parlasse di una nuova band si griderebbe al capolavoro, ma in questo caso, recensioni entusiastiche a parte in non poche testate, si parla di un collettivo attivo da molto tempo e durante l’ascolto si sentono diversi cali di ispirazione (cosa in effetti non comune se si prendono in esame i dischi precedenti). Non è facile rinnovarsi e da molti anni i Katatonia non sempre sono riusciti nel compito di risultare efficaci ed i numerosi episodi sottotono qui presenti ne sono prova tangibile. Non si parla, chiaramente, di brani brutti o mal suonati, ma di canzoni piatte e prive di quella magia che solo questo gruppo riesce a creare. L’anonima “Birds” appare come un riempitivo, idem per l’insipida “Drab Moon” o le fiacche tentazioni classiche di “Author”, per non parlare di “Atrium” o dell’inutile traccia bonus “Absconder”, troppo in linea con le altre canzoni. Se ci si basasse su questo corposo lotto di brani l’entusiasmo si spegnerebbe subito. Fortunatamente, forse grazie anche al mestiere ed a spiragli di genio, ci si risolleva grazie a piccole perle: l’eleganza elettronica di "Opaline" (con i suoi notevoli picchi melodici), il pathos melodico dell’emozionale “Impermanence”, la notturna e futurista “Sclera” (le tastiere fanno un gran lavoro nell’intero album) o i tocchi raffinati della quadrata “Colossal Shade”, sono tutti tasselli che ricordano all’ascoltatore che si sta ascoltando i Katatonia e che, quando vogliono, sanno come incantare l’ascoltatore, sia che si tratti delle magnifiche vocals di Jonas Renkse, sia dell’operato di tutti gli altri musicisti (uno su tutti lo storico chitarrista Anders Nyström). Due episodi meritano attenzione particolare, ovvero l’opener “Austerity”, che racchiude in sé tutta la storia della band grazie ad un eccellente miscuglio di sonorità glaciali e robotiche, synth freddissimi, Prog che si ispira agli Opeth e diversi richiami ai bei tempi come al bellissimo disco che risponde al nome di "The Great Cold Distance". L’altra gemma è il gran finale di “No Beacon To Illuminate Our Fall”, che finalmente rende la musica dinamica, ambiziosa ed intrigante con quell’intreccio di imponenti bordate Metal e sfumature Prog/Jazz che finalmente mostrano qualcosa di diverso dal solito.
Un buon album che richiede molti ascolti per essere compreso, però non sorprende come dovrebbe perdendo la sfida con i dischi precedenti. Un buon lavoro nel suo complesso, ma non ci si aspetti troppo.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    24 Ottobre, 2022
Ultimo aggiornamento: 24 Ottobre, 2022
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I Graveshadows sono una di quelle bands che ha voluto cambiare pelle in maniera parecchio massiccia nonostante abbia cercato di mantenere le idee originali. Nati nel 2012 i nostri hanno cominciato con un interessante Symphonic Metal che, seppure non particolarmente innovativo, aveva delle buone potenzialità (il debutto "Nocturnal Resurrection" del 2015) sia per un cantato variegato femminile sia per delle soluzioni in bilico fra Rock moderno e Metal. Con il secondo album il sound si è fatto più asciutto diminuendo le orchestrazioni e prediligendo un approccio votato all’immediatezza. Questo terzo e nuovo "The Uncertain Hour" segna parecchi cambiamenti in primis per la formazione che vede il cambio di ben tre quinti della formazione inserendo una nuova vocalist, nuovi bassista e batterista. Anche lo stile sonoro ha subito un cambiamento anche se sarebbe opportuno parlare di evoluzione in quanto si è deciso di pigiare ancora di più il pedale dell’immediatezza relegando le parti sinfoniche a blando accompagnamento ed alzando il tiro di voce e chitarre.
La furia dell’opener “Soldier of 34” mette le cose in chiaro sul nuovo corso della band. Il sound si tinge di Death Metal melodico di scuola nordica (Insomnium) incrociato con i primi Amaranthe (quelli meno tamarro/elettronici) puntando molto sui giri melodici delle chitarre. I ritornelli e le strofe si fanno energici e cantabili grazie anche all’innesto della nuova cantante Rachl Raxx Quinn che marchia a fuoco le tracce con il suo stile aggressivo e Rock oriented. Nella successivo assalto sonoro a nome “Gwynnbleidd” le idee cominciano tristemente a mostrare già la corda. Le melodie, per quanto di facile presa, si fanno sempre meno prevedibili ed il cantato tende ad esagerare fino ad irritare. Proseguendo nell’ascolto la tensione cala clamorosamente ed i pezzi finiscono in un pericoloso anonimato: la martellante “Sea of Apparitions”, “Vengeance of Envy”, “The Betrayer” o anche “Shadow Battles” esplodono fragorosamente ma difficilmente sorge la voglia di un’ulteriore ascolto per una certa ripetitività nelle scelte sonore per non parlare della fiacca “Beautiful End” che avrebbe un buon connubio passato/presente ma perde colpi nel giro di poco. Ci sono però degli efficaci colpi di coda (la cavalcata sinfonica “The Swordsman” è ottima) e delle sfiziose ed inaspettate novità che potrebbero portare a nuove strade in futuro. La prima è “The Two Lived”, che mischia interessanti atmosfere oniriche ad un bel crescendo apocalittico mostrando una scrittura più elaborata. La seconda è una piccola perla a nome “Damsel’s Finesse”, nuovamente lunga per gli attuali standard dei Graveshadows, c’è una ricerca dell’epico sfruttando orchestrazioni imponenti e sfruttando anche una componente prog metal variegando anche il cantato e rendendolo meno monotono.
Un album di transizione? Disco che segna un definitivo cambio di rotta? Con i Graveshadows non si sa mai e ciò può essere un pregio o un difetto. Al futuro la sentenza.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    24 Ottobre, 2022
Ultimo aggiornamento: 24 Ottobre, 2022
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Nati nel 2010, gli ungheresi Meteora (nati inizialmente come cover band suonando nel circuito dei locali di Budapest) arrivano all’importante tappa del terzo disco chiamato "...of Shades and Colours", che si pone la dura sfida di imporsi nella boccheggiante scena Symphonic Metal. Composto interamente nel periodo della pandemia, questo disco si conferma quello più curato fino ad ora dal combo e potrebbe anche essere definito il più maturo, seppur si ispiri a colleghi commercialmente più forti come gli Epica. Viene confermata nuovamente la line up originale che vede ancora la presenza di ben tre vocalist.
Andando diritti al punto. Si percepisce la qualità sin dalla prima traccia post intro ovvero “Wings of Rebellion”, il fulcro che può tranquillamente rappresentare l’intero album. Le tre voci, per quanto non siano originali sono ben incastonate fra di loro. Le eteree vocals femminili (necessiterebbero di un po’ di potenza in più) di Noémi Holló, il growl del bassista Máté Fülöp ed il cantato tenebroso del tastierista Atilla Király formano un solido assetto vocale che può ricordare un mix fra gli immensi Tristania e gli ottimi Stormlord. L’uso dei cori imponenti, di una certa aggressività, epicità e complessità denotano una crescita sempre più marcata e lo dimostra una scrittura raffinata e non banale seppure non inventi nulla di clamoroso. Fra le tracce si staglia un guitarwork finalmente diverso dalla massa ad’opera del bravissimo Csaba Solymosi (supportato da Ádám Kurucz che si occupa degli assolo come nell’arabeggiante e dinamica “Voices Within”) che spazia moltissimo non facendo mai annoiare l’ascoltatore. Il songwriting stesso cambia molte volte pelle attraversando il Death Metal tinto di gotico (la teatrale e vampiresca “Danse Macabre”, una nuova versione del 2022 con ospite il vocalist Chris Harms dei Lord of the Lost), la mitragliata Prog/Death Metal di “Newborn Violence” o il tiro moderno in “Slave of Creation”. Queste sono comunque delle piccole parti in quanto il disco complessivamente è molto lungo e complesso in particolare nelle rimanenti tracce come gli impianti corali pregni di pathos (“Pests - Tragedy of Delusion part II”), il groove trascinante di “Immortal”, la ballad dai toni drammatici chiamata “Home” (con quegli aromi cortigiani e romantici) per poi concedersi episodi più cerebrali (la title-track “...of Shades and Colors” e la stupenda e stimolante “Waking Nightmare”). Sicuramente se ci fosse stata una produzione migliore i brani avrebbero risaltato meglio ma nel complesso ci si trova al cospetto di un meraviglioso album di metal sinfonico. Un lavoro intelligente, piacevole e che non annoia. Ottimo!!!

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    27 Settembre, 2022
Ultimo aggiornamento: 27 Settembre, 2022
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Cambiare pelle dà spesso risultati imprevedibili. Nel caso dei tedeschi Lacrimas Profundere, storica band Gothic/Dark metal, ciò ha significato un concreto aumento di notorietà che negli anni ha regalato molti successi e riconoscimenti. Forti di un precedente album ("Bleeding The Stars") che ha guadagnato eccellenti recensioni, a volte troppo esagerate nonostante la buona qualità (album del mese per Metal Hammer), i nostri tornano con un nuovo disco chiamato "How To Shroud Yourself With Night", che in qualche maniera continua la nuova via intrapresa in primis con il nuovo cantante Julian Larre, ma soprattutto cerca di portare il sound ad un livello superiore.
Bisogna mettere un po’ di ordine in quanto non tutti conoscono questa band e potrebbero cadere nel così detto “trappolone”. La band, guidata dal chitarrista e mastermind Oliver Nikolas Schmid (unico membro originale rimasto), partì in origine verso lidi molto Gothic/Doom per poi abbracciare con il tempo sonorità più Rock. "Bleeding The Stars" fu un disco molto furbo, riuscendo a coniugare un appeal moderno ed “easy” ad un livello di pregio non indifferente, ma era lampante la voglia di abbracciare sonorità mainstream. In questo disco si è deciso di accontentare un po’ tutti rendendolo leggermente meno tamarro e migliorando gli arrangiamenti, richiamando il glorioso passato. Il muro Doom di chitarre sfibrate in “Wall Of Gloom” è un manifesto gotico d’altri tempi eppure dannatamente efficace nella sua sofferenza e tragicità. Il sontuoso guitarwork di Oliver è epico in ogni momento, anche nelle serrate e sporche scorribande della deliziosa “In A Lengthening Shadow” o nel solismo divino della metallica “To Disappear In You”, ma in generale tutto l’album è pervaso da quella magia che si avvale anche del supporto di orchestrazioni ben integrate ed una sezione ritmica compatta e precisa. Le vocals rappresentano il lato più moderno e fanno da motore trainante: lo si nota nel Goth'n'Roll di “A Cloak Woven Of Stars“ (peccato per i terribili coretti in sottofondo), specchio di brame moderne e radiofoniche che scivolano nel Melodic Hardcore (o Metalcore che dir si voglia). Il contrasto che ne scaturisce stride e viene in qualche modo mitigato da episodi più riusciti come nei riffs gotici di “The Vastness Of Infinity”, nell’asprezza di “The Curtain Of White Silence” o nella cupezza di “Shroud Of Night”, per non parlare dell’equilibrio perfetto dell’epica “Nebula”. Altri passi falsi sono l’anonima “Unseen”, con le sue innocue spruzzate di elettronica, e la fin troppo cantabile “An Invisible Beginning”.
I Lacrimas Profundere si dimostrano come una delle migliori band attualmente in circolazione e questo disco è l’ennesima riprova della bontà delle loro composizioni, ma si sappia a cosa si va incontro. Ci sarà sempre un divario fra chi apprezza il vecchio stile e chi invece adorerà il nuovo corso. A voi la scelta!

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