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Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    23 Aprile, 2023
Ultimo aggiornamento: 23 Aprile, 2023
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Se siete fan della Marvel avrete sentito parlare del concetto di "Multiverso", ossia la teoria secondo la quale esistono infiniti altri universi in cui i fatti che avvengono nel nostro potrebbero non essere mai accaduti o aver avuto esiti differenti negli altri. Ecco, trasportate questo discorso nel mondo della musica, in particolare con una semplice domanda: e se gli In Flames non avessero mai preso quell'orrenda piega Alternative, ma avessero continuato sulla falsariga del capolavoro "The Jester Race"? Bene, oggi il quesito ha finalmente una risposta: Majesties, trio statunitense che debutta con questo fantastico "Vast Reaches Unclaimed" licenziato da 20 Buck Spin.
Sappiamo benissimo di essere molto provocatori con questo titolo di recensione, ma chiunque - spulciate in giro e ve ne accorgerete - abbia ascoltato l'opera dei Majesties si è fatto la stessa identica domanda. Quello presentatoci in sede d'esame è un album che è stato messo in congelatore nel 1995 e tirato fuori 28 anni dopo, c'è poco da discuterne. E, detto sinceramente, siamo di fronte ad un lavoro veramente degna di nota: intrecci di chitarre, fraseggi tipici degli anni '90, scream cadaverico, dissolvenze... ci sono TUTTI gli ingredienti che hanno reso Göteborg la culla ancestrale del Melodic Death, ma ad opera di una band statunitense, che ha ben pensato di rispolverare dai cassetti del materiale ben noto e riportarlo in luce quasi trent'anni dopo. Il risultato è un disco che contemporaneamente è nostalgico ma non da copia/incolla; fattore, questo, che rende i Majesties una realtà musicale più che interessante. Se, infatti, da un lato siamo di fronte ad un sound ed un approccio ben noto, dall'altro il trio ha saputo prendere bene le distanze dal mero citazionismo fine a se stesso, imbastendo quindi un'opera che sa essere comunque personale. Ne sono un esempio i bellissimi innesti più tecnici, arzigogolati e cupi degni di gente come Ceremonial Oath ed Eucharist, che si stagliano su una base Melodeath classica ma non per questo scarna di spunti originali e, perché no?, innovativi a modo loro. Chiaramente non siamo di fronte ad un capolavoro o comunque ad un prodotto di imprescindibile ascolto e siamo comunque consci del fatto che alla fine chi maggiormente apprezzerà i Majesties sono i nostalgici del Göteborg Sound, a testimonianza di come per il trio ci sia ancora tanto margine di miglioramento per aggiustare il tiro e magari rivolgersi di più sull'evoluzione del proprio stile. Comunque sia "Vast Reaches Unclaimed" è un album che saprà regalarvi ben più di un semplice ascolto distratto, ma un vero e proprio tuffo nel passato in barba a chi, invece, ha preferito perdere la retta via - chi ha detto In Flames? -.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    23 Aprile, 2023
Ultimo aggiornamento: 23 Aprile, 2023
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I romani Devangelic dovrebbero ormai essere per tutti un ascolto imprescindibile, soprattutto per coloro che amano il Death Metal suonato in un certo modo: super tecnico ma MAI per un singolo istante prolisso o fine a se stesso. Quella dei nostri è stata - ed è tutt'ora - una continua scalata verso le vette più alte del genere, con un costante arricchimento del sound e della proposta musicale, già confermata con il capolavoro "Ersetu" del 2020, il disco che - e non lo diciamo con nessun intento negativo, anzi - li ha decretati come i Nile italiani. Se, tuttavia, Sanders e soci sono gli egittologi per eccellenza, i Devangelic sono i massimi esperti di storia della Mesopotamia, con concept album che farebbero impallidire perfino il prof Barbero. Bastano infatti poche note del nuovissimo "Xul" per renderci conto di cosa stiamo parlando: violenza allo stato puro con costanti richiami alle sonorità mediorientali che ci trasportano indietro nel tempo, tra storia, mitologia ed esoterismo. E tanto basta al quartetto per confermarsi ancora come tra le migliori realtà al mondo di questo modo di intendere il Brutal Death. Nulla a che vedere con lo Slam di cui ormai il mondo musicale è saturo. Tutt'altro: qui siamo in territori dove la pesantezza fa certamente il suo ruolo, ma con criterio e giudizio. Le chitarre sono possenti e monolitiche, ma nascondono dietro una versatilità ed una scorrevolezza che raramente, molto raramente, si sente. Considerando quanto affermato prima, ossia i costanti richiami alle sonorità orientali. Se suonate uno strumento non potrete non notare determinate scale che automaticamente vi proiettano in quei territori.
Osiamo perfino dire che questo "Xul" sia superiore al precedente "Ersetu" per un "semplice" motivo: il disco del 2020 puntava maggiormente sulla forza di impatto, spesso incastrandosi in passaggi fini a se stessi, o comunque di difficile comprensione. Tradotto: album della madonna, ma non ancora perfettamente maturo. Dopo tre anni Mario Di Giambattista e soci hanno preso quanto fatto di buono snellendo dove c'era bisogno e aggiungendo qualche innesto più melodico, con il risultato che "Xul" ha conservato la ferocia assassina ma al contempo è molto più scorrevole e definito, offrendoci un quadro molto più chiaro della band. Tradotto ancora: un capolavoro inenarrabile da annoverare nella lista "orgoglio italiano". Complimenti!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    05 Marzo, 2023
Ultimo aggiornamento: 05 Marzo, 2023
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Amanti delle sonorità degli anni '80, oggi ci rivolgiamo a voi della vecchia guardia che siete cresciuti a pane e Venom, Bathory, Hellammer, Celtic Frost, Sodom, Motorhead e compagnia bella. È con questa breve ed incisiva premessa che vi presentiamo il debutto del quartetto Malleus, "The Fires of Heaven" licenziato da Armageddon Label. Della band in questione non si sa praticamente nulla, come ogni realtà underground proveniente dalla scena Black che si rispetti. Tuttavia poco ci interessa, poiché qui siamo nel territorio dei cosiddetti "zero fronzoli". Tradotto: quando si parla di Black/Speed vecchia scuola, la regola è solo quella di pestare forte come se non ci fosse un domani. Il resto son solo chiacchiere. E tanto ci basta per poter apprezzare un'opera come questo "The Fires of Heaven", che incarna al meglio l'esperienza delle band leggendarie sopracitate, con un tocco di modernità dato dal sound sicuramente più "pulito" rispetto a quello di quarant'anni fa. Tuttavia, se altri gruppi provenienti da questo filone celebrativo della vecchia gloria, come ad esempio Midnight, Butcher, Toxic Holocaust et similia, cercano comunque di guardare in avanti, rispolverando dalla cantina, per così dire, quelle sonorità, in questo caso si è fatto il lavoro opposto. I Malleus non ne vogliono sapere minimamente di guardare al futuro, preferendo invece ancorarsi alla brutalità primordiale del metal pestando fortissimo con il loro sound grezzissimo che tutto deve ai Motorhead, Sodom e Venom in particolare. Non c'è il minimo accenno di novità; e sinceramente guai se ce ne fosse. Riff ferocissimi suonati con delle motoseghe arrugginite, voce cadaverica - sembra Mortuus dei Marduk al microfono - e batteria tirata fino alla follia. Stop, basta, caput, finito. Nient'altro da aggiungere: ogni cosa che vada oltre la semplice ossatura basilare sarebbe solo un inutile orpello. E noi non potevamo chiedere di meglio, soprattutto se consideriamo come in questo mega tributo alla vecchia guardia non ci siano momenti noiosi o "già sentiti", per quanto sia innegabile non avere confidenza con questo sound. In pratica i Malleus si cimentano con una strada già ampiamente battuta, ma con un tocco di personalità appena sufficiente per non sfociare nel copia/incolla. Tradotto ancora: spaccano!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    12 Febbraio, 2023
Ultimo aggiornamento: 12 Febbraio, 2023
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Se il 2022 è stato l'anno dei portoghesi Gaerea, con la loro definitiva consacrazione nel panorama Black europeo e mondiale, il 2023 è il turno degli Oak, gruppo formato proprio da due membri - un ex - dei Gaerea, per quanto riguarda il filone Atmospheric Doom/Death Metal. Formatosi nel 2018, il duo fin dal primissimo "Lone", uscito l'anno seguente, si è contraddistinto per l'enorme e quasi incalcolabile potenza evocativa del disco. Atmosfere cupe ma mai pesanti, sognanti, tristi, malinconiche e costantemente spennellate da ferocissime sezioni Death, per un album che, alla fine dei conti, risultò un vero e proprio gioiello. D'altronde stiamo pur sempre parlando di due artisti che di certo non sono alle prime armi. Tradotto: la vena Gaerea si sente, ma non da un punto di vista di sonorità, quanto di attitudine nel saper emozionare nota dopo nota. Insomma, per farla breve, gli Oak si sono immediatamente ritagliati una fetta importantissima della scena portoghese. Ma è in questo 2023, con il passaggio a Season Of Mist, che i Nostri vengono ufficialmente consacrati con il qui presente "Disintegrate": secondo monolitico capolavoro che eleva ancor di più quanto fatto di buono nel 2019. Una sola omonima suite di 45 minuti in cui la band ripercorre le fasi dell'ascensione verso nuove dimensioni oniriche: un vero e proprio viaggio astrale che minuto dopo minuto ti fa spogliare di ogni orpello fisico e materiale fino a raggiungere vette finora inesplorate. Dalla disintegrazione del corpo fino alla consacrazione dell'anima, "Disintegrate" ti tiene incollato alle cuffie in un costante saliscendi di emozioni contrastanti: la dolcezza delle chitarre e dei meravigliosi arpeggi si infiamma della furia del Death Metal che viene costantemente impreziosito dalle ritmiche rallentate molto vicine ai Paradise Lost o My Dying Bride in questo continuo oscillare. Potremmo definire la nuova creatura degli Oak come un caleidoscopio: non esiste e non esisterà mai una prospettiva sola, ma una serie infinita di piani esistenziale che si fondono l'uno sull'altro creando un qualcosa mai sentito fino ad ora. Ed è impressionante come una sola traccia di 45 minuti non annoi nemmeno per un secondo, ma che anzi riesca a regalare un ventaglio emotivo semplicemente indescrivibile. Da qui non possiamo che dare al disco il voto massimo, anche se sarebbe riduttivo giudicare un'opera simile solamente con un numero. Qui si va ben oltre la musica: qui il Metal tocca una delle sue vette più alte. Tra i candidati ad "album dell'anno" ad occhi chiusi. Complimenti!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    05 Febbraio, 2023
Ultimo aggiornamento: 05 Febbraio, 2023
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Graditissimo ritorno sui nostri portali quello degli svedesi Ablaze My Sorrow. questa volta, ahinoi, non con un nuovo album, ma con un EP dal titolo "The Loss of All Hope", che giunge a due anni di distanza dall'ultimo disco - sempre recensito qui -. Ora, ciò che ha sempre penalizzato il quintetto è stata la carriera piuttosto altalenante, con un silenzio di ben quattordici anni che, inevitabilmente, non ha contribuito a far conoscere la band. Cosa che, al contrario, non è successa ai colleghi di genere come Dark Tranquillity, In Flames, At The Gates e compagnia bella. Ed è un vero peccato considerando che Magnus Carlsson & C. vanno in giro dal 1993. Insomma, perfettamente in linea con il nascente genere. Comunque sia, dal 2016 i nostri si sono rimessi in carreggiata e questo nuovo EP è un po' il risultato del processo in questione. Per certi aspetti addirittura più accattivante di "Among Ashes and Monoliths", il quale ci risultò un po' troppo citazionistico e legato agli anni '90. Scelta più che lecita, ma che di fatto relegò l'album ad un buon prodotto ma nulla più. Qui, al contrario, sebbene la marcata vena svedese sia presente - e ci mancherebbe - si notano ben più di semplici sguardi in avanti: i pezzi sono ficcanti, con quel giusto grado di groove e cavalcate, in un connubio ben equilibrato. In particolare è la vena In Flames ad uscire, soprattutto quella attuale, con costanti richiami anche ai Dark Tranquillity, soprattutto negli intrecci delle chitarre e nelle sezioni in clean vocals. A testimonianza di ciò vi invitiamo caldamente ad ascoltare "Rotten to the Core", il brano migliore dei quattro e probabilmente uno dei migliori mai scritti dagli Ablaze My Sorrow. Sembrerebbe, quindi, che la band abbia ritrovato la retta via dopo un lungo periodo di silenzio ed i risultati iniziano a farsi vedere. Aspettiamo con ansia un nuovo full-length!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    29 Gennaio, 2023
Ultimo aggiornamento: 29 Gennaio, 2023
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Non si conosce nulla dei canadesi Olēka, duo che approda sui nostri portali con questo "Driftwood", EP che segna l'inizio di carriera del progetto in questione. Non sappiamo nemmeno l'anno di nascita del progetto, che presumiamo sia più che recente considerando che siamo di fronte alla primissima produzione -nemmeno un singolo o demo prima di questa -. Comunque sia ciò che ci ritroviamo sono quattro tracce che mischiano in maniera piuttosto interessante il Southern Groove Metal e il Melodic Death, con delle pennellate molto vicino al Metalcore dei primi anni 2000. Insomma, una commistione che sicuramente tende a guardare maggiormente sulle note più moderne del Metal, seppur i rimandi alla vecchia scuola siano presenti, come alcuni passaggi vicini agli In Flames o ai Killswitch Engage. Vedasi proprio l'opener "Two Years", che sinceramente parlando è un ottimo pezzo confezionato a mestiere e che ci mostra fin da subito che il duo Olēka sia già perfettamente amalgamato. Molto apprezzate, poi, sono le costanti sezioni in cui le chitarre si spalmano nei costanti intermezzi melodici per poi esplodere nuovamente con la durezza del Groove. Spesso si potrebbero ritrovare perfino delle somiglianze con alcuni passaggi dei Machine Head, quasi fossero delle eco che richiamano Flynn e soci.
A conti fatti questo "Driftwood" non presenta chissà quale innovazione del caso, ma siamo di fronte al classico esempio del saper maneggiare stili, influenze e stili ampiamente noti con quel tocco di personalità. Magari si potevano risparmiare dei passaggi eccessivamente allungati e noiosi, ma sorvoliamo in quanto questa è la primissima prova di una nuova realtà musicale - e detto fra noi nettamente superiore a tanta altra roba che si trova in giro -. Per questo gli Olēka vengono promossi ad occhi chiusi con un EP che sarà un buon biglietto da visita.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    22 Gennaio, 2023
Ultimo aggiornamento: 22 Gennaio, 2023
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Il ritorno degli Hate Forest, ad oggi probabilmente la Black Metal band ucraina più famosa ed importante, è sempre cosa gradita - per non dire graditissima -. Dopo un lunghissimo silenzio di quindici anni ed il ritorno nel 2020, per la band di Roman Saenko, già ampiamente noto per la sua militanza nei Drudkh, giunge l'attesissimo sesto capitolo: il qui presente "Innermost" targato Osmose Productions, label che, come al solito, non delude mai. Un disco che porta con sé alcune novità, ma che al contempo si incastra perfettamente all'interno del solco tracciato ben 28 anni fa dalla one man band ucraina. Innanzitutto il marchio di fabbrica degli Hate Forest è sempre ben presente: Black Metal crudo, gelido, atavico, scarno e caratterizzato da un muro sonoro praticamente impenetrabile per quanto risulta frenetico e feroce. In poco più di mezz'ora - sei tracce totali - Saenko ci butta addosso un vero e proprio esercito proveniente dalle foreste più gelide e sperdute: non c'è un brano che non sia un assalto all'arma bianca, ciascuno dei quali caratterizzato da un drumming al limite della follia, voce cavernosa simil Death che si alterna con scream cadaverici e a dir poco colossali. Insomma, tutti gli ingredienti che ci hanno fatto amare fin da subito gli Hate Forest e che hanno tracciato le linee guida della scuola Black ucraina. Eppure in tutta questa ferocia e morte trova spazio l'eleganza e, se vogliamo, le struggenti atmosfere date dai riff, che non di rado si colorano di spennellate melodice o - ed ecco la novità di cui sopra - addirittura si interrompono per lasciare spazio a dei bellissimi innesti acustici che non fanno altro che evocare una sorta di intimità sonora mai sentita in un disco degli Hate Forest. Ed è forse questa dimensione più introspettiva e sognante che rende "Innermost" un album semplicemente stupendo dall'inizio alla fine. Se da un lato i brani rievocano antichi istinti e la crudezza di tempi remoti ed atavici, dall'altra riesce comunque a trasportarci su una dimensione più eterea e riflessiva. Probabilmente è proprio questa commistione di cambi di tensione che rendono il nuovo capitolo di Saenko veramente degno di nota: costantemente presenti ma l'uno non può prescindere dall'altro in una sorta di mix impossibile. Da qui nasce la magia di questo capolavoro, perché solo di capolavoro possiamo parlare di fronte a tanta magnificenza - a tal proposito segnaliamo come traccia la meravigliosa "By Full Moon's Light Alone the Steppe Throne Can Be Seen" che probabilmente racchiude un po' l'anima della produzione -. Insomma, non potete non recuperare un album di siffatta caratura che, da parte nostra, conferma ancora di più quanto gli Hate Forest siano oggigiorno tra le più importanti realtà Black di tutta Europa. Chapeau!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    22 Gennaio, 2023
Ultimo aggiornamento: 22 Gennaio, 2023
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Dopo sei anni di gavetta, finalmente per i norvegesi Ritual Death è giunto il fatidico momento del debutto con il loro primissimo ed omonimo album. Per chi non conoscesse questa realtà, basti pensare che conta tra le sue fila il chitarrista dei Behexen, Wraath. Si tratta, dunque, di una band che a livello di curriculum vanta non poca esperienza sul campo, ed infatti bastano le prime note del disco per farci capire la qualità nettamente superiore del prodotto. Figlio di sonorità che ritroviamo in gente come Archgoath, Darkthrone, Darvaza, Gorgoroth di metà anni '90, l'omonimo disco dei Ritual Death si presenta in una forma più che smagliante presentandoci un lotto di nove ferocissime tracce, impregnate di tutta la violenza del Death americano (vedasi Triumvir Foul, Teitanblood e compagnia bella) ma contornate dall'aura maligna del Black delle band sopracitate. Il risultato è un album estremamente pesante, grezzo e feroce ma al contempo in grado di regalarci quella vena austera e cangiante, merito sicuramente delle bellissime sezioni di synth che danno a tutta la baracca fierezza e malignità. Non ci vuole molto a capire che qui ci sono dei musicisti veramente esperti, soprattutto se pensiamo che quello proposto dai Nostri sia un pattern compositivo e stilistico comunque noto ma che tuttavia non sfocia mai nel "già sentito" o in soluzioni prevedibili e basilari. Al contrario ogni traccia sa essere a modo suo unica, da quelle più lente, cadenzate e funeree a quelle più tirate e lanciate come un treno merci. Probabilmente l'aggettivo migliore per descrivere l'album è "compatto", con tutte le accezioni del caso. Un plauso alla band per questo signor debutto che sicuramente ha dato il via ad una carriera non poco rosea per il quartetto norvegese.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    17 Gennaio, 2023
Ultimo aggiornamento: 17 Gennaio, 2023
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Indipendentemente da quelle che sono le - discutibili - idee politiche del personaggio, è indubbio quanto Werwolf e la sua one man band Satanic Warmaster sia una delle massime espressioni della forma più pura del Black Metal. Il carattere oltranzista dell'artista si riflette ormai da più di vent'anni nella sua musica che da oltre vent'anni regala delle sferzate egregiamente degne di nota. Non è da meno questo "Aamongandr", sesto album per il finlandese che giunge dopo un lungo silenzio durato otto anni dal precedente - ed ottimo - album "Fimbulwinter". Viene da sé che per gli amanti del genere questo era un appuntamento super gradito, considerando anche quanto detto più su, ovvero che il Black Metal che fuoriesce dalla mente del mastermind Werwolf è quanto di più iconico e feroce ci si potrebbe aspettare dal genere. Eppure l'indubbia capacità compositiva dei Satanic Warmaster permette alla band di produrre sempre e comunque musica ottima che non sfocia mai nell'autoreferenzialità o nel banale; questo di fatto rende il gruppo più che degno di nota. A differenza del suo predecessore, questo "Aamongandr" si presenta quasi sotto una maligna ed oscura nuova luce: laddove erano l'impostazione più à la Behexen o Horna, ora abbiamo un sapiente uso del sintetizzatore e di sezioni melodiche che rendono le composizioni epiche, ferocissime e battagliere. Non stupisce se si troveranno vicinanze con gli Emperor, i Dissection (seppur appena accennati qua e là), i Cradle Of Filth e, in generale, quel filone del Black. Tuttavia l'ottimo lavoro svolto da Werwolf in questa prova si dimostra proprio in questa sua capacità di essere certamente più melodico ma mai totalmente riconducibile a quei lidi: segno che le fortissime radici sono ancora ben salde alla fine del millennio e a quella crudezza dell'epoca. A testimonianza di ciò interviene la seconda metà del disco - sei tracce totali - a riportare, per così dire, il sound dei Satanic Warmaster verso territori ben più conosciuti. Da segnalare la splendida e conclusiva "Barbas X Aamon" che non sfigurerebbe per niente in "Filosofem" di Burzum. Da qui ci riagganciamo a quanto detto all'inizio: l'encomiabile capacità di scrittura del mastermind che pur restando all'interno di stilemi e modus operandi ampiamente noti, riesce sempre e comunque a regalare emozioni uniche. Ecco perché gli si perdona quel leggero senso di ripetitività che forse potrebbe venir fuori minuto dopo minuto. In definitiva riteniamo "Aamongandr" un disco da avere assolutamente.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    12 Gennaio, 2023
Ultimo aggiornamento: 12 Gennaio, 2023
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Genuino, incazzato, diretto, duro come il metallo appena forgiato: cosa si può chiedere di più ad un album Thrash Metal suonato a mestiere? Esatto, niente. Questi sono tutti gli ingredienti di cui abbiamo bisogno, senza troppi fronzoli o giochi strani: il genere lo amiamo proprio per la spiccata dose di mazzate in faccia che riesce a darci. Viene da sé, dunque, che da un lavoro come "Exiled to the Surface", quarto disco dei tedeschi Traitor, ci si aspetti ESATTAMENTE quanto detto sopra. E fortunatamente è proprio così: siamo in presenza del classico discone Thrash che nel suo essere esattamente quello che è, ossia un disco Thrash, ti sbatte in faccia una ferocia ed una violenza in pienissimo stile tedesco. Stop, fine. Tanto ci basta a decretarlo un ottimo lavoro con quel tocco ben evidente di personalità che fa comunque capolino a gente come Sodom, Kreator, Assassin, Destruction, Exumer e compagnia bella. Del resto cosa ci si poteva aspettare da quelle parti? Comunque sia i Traitor non sono certo ragazzini alle prime armi, seppur non si possa dire di essere dei veterani del genere; diciamo quindi che i Nostri si piazzano esattamente a metà, in quel filone di band di terza generazione nata nel 2009 che si rifà agli anni '80 con ben più di un semplice sguardo al futuro. La quadra di un approccio simile è esattamente questo "Exiled to the Surface", che nei suoi canoni classici del genere sa comunque offrirci una sana dose di modernità che non stona affatto: riff sicuramente diretti ma mai semplici o prevedibili, spennellate melodiche e assoloni al fulmicotone. Il tutto condito da una batteria tirata fino all'esaurimento ma sempre con cognizione di causa. Per questo motivo non si può assolutamente definire il quartetto un semplice copia/incolla dei grandi nomi sopracitati. Al contrario siamo in presenza di una band che ha compiuto il suo processo di maturazione mettendo del suo all'interno di un genere di per sé poco avvezzo a chissà quali stravolgimenti. Inoltre c'è da segnalare quella che, in fin dei conti, è l'anima principale del disco: la grinta assassina che in nessuna, e sottolineiamo NESSUNA, traccia viene meno. Tanto ci basta per spararlo al massimo volume possibile nello stereo per poi romperci l'osso del collo a furia di headbanging. Complimenti ragazzi!

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