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Opinione scritta da Dario Onofrio

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Opinione inserita da Dario Onofrio    24 Marzo, 2016
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Non siamo andati molto lontani da quello che 3 anni fa era il roccioso Killhammer: i Mystic Prophecy tornano sulle scene con il loro power metal spaccaossa e supervirtuoso, a base di batteria a mille e sfuriate chitarristiche.

La formula dunque resta invariata: dopo l'opener Follow The Blind c'è subito il simpatico anthem del disco Metal Brigade, che mischiando titoli di vari album che hanno fatto la storia del nostro genere musicale crea un testo degno di ogni defender. Di nuovo non mancano i rimandi a 300 con Good Day to Die, mentre possiamo sentire Roberto Liapakis esibirsi in un growl iniziale su una killer track come Burning Hell.

Fermandoci un secondo in questa snocciolata di titoli, però, possiamo notare come ormai non ci sia niente di davvero diverso dal precedente disco. I temi sono gli stessi, lo stile pure: che l'abbandono di Gus G abbia posto fine alla creatività dei tedeschi? Qualche pezzo carino c'è, qua e là, ma è tutto un raffazonamento di roba vecchia e riarrangiata che sostanzialmente finisce per non coinvolgere l'ascoltatore e diventare un mero sottofondo sonoro.

A strapparci un sorriso può essere la cover di Sex Bomb... Peccato sia appunto una cover.

Un disco, quindi, prodotto in maniera davvero egregia, ma che pecca dal punto di vista compositivo, nonostante in quanto a tecnica i Mystic Prophecy siano uno di quei gruppi sinonimo di garanzia. Peccato per l'occasione mancata.

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Opinione inserita da Dario Onofrio    18 Marzo, 2016
Ultimo aggiornamento: 18 Marzo, 2016
Top 50 Opinionisti  -  

Ci sono storie e sodalizi che sembrano durare per sempre, ma che improvvisamente esplodono separando le carriere di due artisti che fino a quel momento avevano convissuto felicemente. In questo caso parlo di Victor Smolski e Peavy Wagner, che per anni sono stati la spina dorsale dei Rage.

Un po' come quando John Schaffer aveva divorziato da Matt Barlow, mentre il buon Peavy sta cercando di mandare avanti la nota power metal band tedesca rispolverando un suono un po' retrò, Smolski fonda gli Almanac (delizioso notare la mostruosa quantità di nomi di progetti solisti vari sulla pagina del nostro amico su Metal Archives) e pubblica questo Tsar, palesemente ispirato alla lezione dell'ultimo LMO: un lavoro che possiamo quasi dire di ispirazione broadwayana per quanto riguarda le atmosfere molto teatrali. Si tratterebbe infatti di una sorta di concept album sulle guerre di ieri e di oggi, che spazia dalle invasioni Mongole a Ivan il Terribile, dai Cosacchi all'Assedio di Costantinopoli. Ad accompagnare il roccioso chitarrista, in veste anche di compositore, l'orchestra "Orquestra Barcelona Filharmonia", le voci di David Readman (PINK CREAM 69) e Andy B. Franck (BRAINSTORM), nonché la bravissima Jeanette Marchewka che avevamo già sentito sempre sull'ultima fatica sinfonica dei Rage.

Come suona questo disco della discordia? Beh, devo ammettere che suona tremendamente bene: produzione ottima e arrangiamenti in puro stile Smolski, come potrete sentire sin dalla title-track che apre l'album. L'orchestra, anziché essere la spina dorsale della situazione, è quasi "relegata" in secondo piano: il che ci fa godere perfettamente del riffing durissimo dell'ex Rage, senza contare l'ottimo lavoro svolto dai tre singer in alternanza e in coro, cosa che dà un motivo di carica soprattuto nella seconda Self-Blinded Eyes e nella bellissima Children of the Future, una delle mie preferite del disco. Non mancano le tirate power come in Nevermore o nelle parti più infuriate di Hands are Tied, senza contare gli occhiolini all'hard rock come nella penultima Reign of Madness.

C'è un sapore dolceamaro che pervade Tsar, forse la mancanza del mitico Peavy dietro ai microfoni e quel suono così maledettamente rageiano che tutti i fans riconosceranno immediatamente. Che giudizio si può avere per un lavoro simile? Beh, se siete fan dei Rage più barocchi, sinfonici e broadwayani (quelli di LMO e XIII), acquistate pure a scatola chiusa. L'alternanza assoli/archi, l'assoluta precisione nella produzione, i suoni perfettamente inquadrati e le atmosfere ricostruite perfettamente dal lavoro di tastiera, vi trasporteranno in un mondo tutto inventato dal roccioso chitarrista che non mancherà di sorprendervi.

Purtroppo però, mi viene da aggiungere, Tsar è classificabile quasi come un ottimo esercizio di stile, dove Smolski rilegge Smolski riutilizzando atmosfere e suggestioni dei vecchi dischi dei Rage, aggiungendo qua e là qualcosa grazie all'utilizzo di due cantanti nuovi e musicisti che lo seguono ciecamente. Insomma, per me che non vado completamente pazzo per i teutonici sopracitati, questo album finirà presto nel dimenticatoio, salvo rispolverarlo qualora avrò voglia di un po' di "musical metal"...

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Opinione inserita da Dario Onofrio    10 Marzo, 2016
Ultimo aggiornamento: 11 Marzo, 2016
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Chi legge le mie recensioni sa bene che non mi capita tanto spesso di mettere le mani su roba black metal che non siano i miei amati Drudkh, ma qui parliamo di una one man band americana che suona black metal atmosferico. In America, si.

Quello che il diciottenne Nick Stanger ha tirato fuori dal cilindro è un disco niente male che mette insieme parecchie idee provenienti dal fertile humus del genere, rispettando molto la tradizione delle atmosfere ossessive e dei riff ripetuti velocemente all'infinito (come in Lucid), ma inserendoci una vena vagamente neofolk che male non fa. Non a caso mi sono messo in testa di fare questa recensione proprio perché il musicista prende molto anche dai sopracitati Drudkh: così ci ritroviamo a vagare nei boschi del parco di Yellowstone che tutto contengono fuorché l'Orso Yogi che, con un pezzo come With Vacant Eyes, probabilmente sarebbe già fuggito da tempo.

Interessante vedere come le influenze neofolk e shoegaze si presentano quando meno ce lo aspettiamo spezzando il blast-beat: anzi è interessante proprio pensare che tutta questa roba sia stata fatta da una sola persona e con pochissimi mezzi a disposizione. Questo perché con neofolk non intendo che ci siano strumenti acustici: il lavoro è basato tutto su chitarra distorta o acustica, tastiera e lo scream graffiante di Stanger. Non mancano nemmeno degli ottimi assoli che servono a stemperare molto l'atmosfera creata dal musicista.

Insomma il giudizio su Vacant non può che essere buono: c'è ancora qualcosa da sistemare, ma sicuramente, per chi ha adorato i Selvans che ho recensito qualche tempo fa, Vacant può rivelarsi una interessante sorpresa in un mondo dove di black ascoltabile ne è rimasto ben poco.

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Opinione inserita da Dario Onofrio    10 Marzo, 2016
Ultimo aggiornamento: 11 Marzo, 2016
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I Papa Serpiente sono una giovane band spagnola al debutto discografico con questo Rock Evolution, che come dice il comunicato stampa è "un hand' heavy che farà esaltare i fan di Judas Priest, Motley Crüe, Iron Maiden e Dio".

Beh, diciamo che non me ne sono proprio innamorato, nonostante adori almeno tre delle band sopracitate: la band tranquillamente si muove da territori più hard rock a quelli quasi più power metal con molta facilità, e tecnicamente non è neanche malaccio. Si passa dagli urletti di Franco Troisi (il singer) agli assoli di Johnny Lorca che non vi faranno dimenticare una sana dose di Eighties, mentre Jose Carlos Moreno (batteria) e Jorge Nightbreaker (basso) fanno un discreto lavoro di ritmica che ricorda palesemente l'esempio degli Iron Maiden, con tante cavalcate incrociate. Pezzi come By your side e Face the Truth sono simpaticissimi da sentire e di sicuro vi faranno battere un po' i piedi per tenere il tempo, ma la sensazione che mi pervade ascoltando questo disco è che manchi qualcosa di fondamentale. Non parlo delle composizioni, che sono comunque molto buone, e nemmeno della tecnica che c'è tutta: parlo di quelle poche volte che si sente la musica suonata con un certo piglio. Queste poche volte sono riassumibili nell'opener Rebirth, nei pezzi sopracitati e in Queen of Hurts, per me l'apice dell'album.

Il vero problema della band è che non tutti i pezzi tirano come dovrebbero, inoltre Franco Troisi mi sembra troppo spesso messo al di sopra delle proprie capacità. Anche nella ballad finale Ho bisogno di Te ci sono dei momenti di leggero calo che non rendono molta giustizia alla traccia, che poteva essere un'ottima chiusura con un bel testo che mischia italiano e spagnolo.

Ciò nonostante, come ho detto sopra, un paio di pezzi carini ci sono e speriamo che la band segua queste tracce. Diciamo che si sarebbe potuto fare di più, soprattutto a livello di produzione, ma per un debutto va bene così.

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Opinione inserita da Dario Onofrio    29 Febbraio, 2016
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L'irresistibile ascesa dei Birth of Joy nel panorama alternative/psichedelico è quella che si può chiamare sicuramente "Una serie di fortunati eventi". Nati nel 2010, non appena questa nuova corrente musicale emetteva i primi vagiti, i nostri si erano fatti notare per questo stile estremamente ossessivo e groove nelle loro sonorità, cosa che li ha portati ben presto a firmare un contratto con la Long Branch/SPV.

Get Well è un disco carico di queste energie primordiali molto 60's: vi basta mettere su Meet me at the bottom per capire il genere e la profusione di sonorità filtrate che ci ritroveremo ad affrontare per tutto l'album. Con tempi che cambiano dalla velocità all'estremamente dilatato, passiamo per per pezzi come Numb, dove la coordinazione tra gli strumenti crea spesso e volentieri anche delle atmosfere decisamente pop, mentre si salta e si poga tranquillamente con un pezzo come You Got me Owling.

La sintesi è questa: carota e bastone. I Birth of Joy sono maestri della tecnica del darti prima una canzone stile Hawkwind nella quale ti rilassi e poi una mazzuolata rock'n roll sui denti: cosa che funziona fino ad un certo punto però, perché il grosso problema di questo disco è che alla lunga tende ad annoiare. Intendiamoci, pezzi space rock come la title track ci stanno benissimo, ma nel complesso rischiano di disperdersi un po' troppo per un problema di atmosfere continuamente reiterate a profusione all'interno del disco.

Sicuramente uno stile così particolare permetterà a questi quattro ragazzi di Amsterdam di arrivare da qualche parte: la critica un poco più commerciale stravede per loro così come il pubblico di una certa nicchia. Per quello che mi riguarda apprezzo molto questo recupero di sonorità così marcato, nonostante ammetto che non passerei le giornate ad ascoltare Get Well. Comunque, se siete appassionati di rock psichedelico, è sicuramente un'uscita che non manco di consigliarvi.

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Opinione inserita da Dario Onofrio    25 Febbraio, 2016
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Quest'anno Robb Reiner e Steve Lips spengono le candeline sulla torta dei 35 anni degli Anvil: quale occasione migliore per il trio canadese per cacciare fuori nuovo materiale? Dopo l'ingresso in formazione di Chris Robertson c'era abbastanza attesa su cosa sarebbe potuto essere il lavoro del gruppo.

Risposta pronta: Anvil is Anvil è, nonostante il titolo banale, un ottimo album sotto molti punti di vista. Abbandonata la fase abbastanza stagnante degli anni 90', con i dischi usciti dal 2011 a questa parte, Lips e soci dimostrano ancora una volta di potersi fregiare di essere uno dei pochi gruppi che ancora ti fanno venire voglia di mettere il chiodo e riempire di toppe il thrasher. Perché dico questo? Sarà che le atmosfere funzionano benissimo per tutto il disco, e mi ricordano i bei tempi in cui chiamavo poser chiunque non ascoltasse il metallo più puro e splendente. "Puro" è l'aggettivo più indicato che userei per descrivere la musica degli Anvil, che in tutti questi anni di carriera non sono praticamente mai scesi a compromessi, nonostante pause di riflessione e separazioni dolorose tra musicisti, come potete vedere nel documentario "The Story of Anvil" (dovreste poterlo trovare su youtube) e come potete sentire sin dall'iniziale Daggers and Rum, un inno quasi alla Running Wild che vi si ficcherà in testa come un puntello. La produzione rende perfettamente l'attitudine ai suoni grossi e pesanti dell'heavy canadese, che non peccano di mancanza quando si parla di temi scottanti come il controllo sulle armi in Gun Control, o sull'ingerenza della chiesa in Die for a Lie. Ovvio che Lips non ha più la voce di una volta, ma per l'album che i nostri hanno tirato fuori ci mancherebbe altro: a mio parere siamo davvero a livelli quasi pari alle ultime produzioni in studio degli Accept. Una menzione speciale va fatta per l'ultima canzone: Forgive don't Forget è infatti dedicata alla Germania, come spiega Robb Reiner, nel senso che le nuove generazioni non sono colpevoli dei fatti accaduti durante la Seconda Guerra Mondiale. E al di là delle tematiche, lasciatemelo dire: è pure una signora canzone.

Se vi sono piaciuti gli ultimi lavori dei teutonici citati poco sopra vi consiglio di andare a comprare questo album: trovare una band che ci crede ancora per davvero e non perché fa comodo farlo a livello di mercato è una cosa rarissima in un 2016 dove abbiamo perso in pochi mesi tutta una serie di grandissimi musicisti. Per cui indossate con fierezza chiodo e anfibi e infischiatevene se qualcuno vi dice qualcosa... Lo spirito dell'heavy metal resta con voi e con i riff degli Anvil.

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Opinione inserita da Dario Onofrio    10 Febbraio, 2016
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Chi legge le mie recensioni sa il rapporto che ho con la parola MAMMOTH in tutte le sue dannate declinazioni.
Non starò a riscrivervi tutta la tiritera che avevo tirato fuori qualche tempo fa, vi basti sapere che SI: recensisco l'ennesimo disco che contiene la fatidica parola.

Infatti non ci spostiamo troppo lontani dalle solite sonorità che accompagnano questa parola: Mammoth Disorder degli italianissimi Signs Preyer è un disco sludge/stoner fatto e finito sulle sonorità di gente come i Down di Phil Anselmo. L'attitudine da grezzoni si può udire sin dalla prima traccia It Comes Back Real II: riffoni impastati e la voce rauca di Corrado Giuliano che ci portano in postacci dominati da Rednecks e dove si beve solo Jack Daniels. Qual'è il problema? Che non tutto funziona e spesso la band rischia di cadere nel ridicolo, continuando ad esaltare all'esasperazione questa parte "southern": un esempio sono titoli come New World Order o BBQ Sauce, per non parlare di Anal Fisting.

Se il quartetto umbro sia serio o meno non ci è dato saperlo: resta il fatto che alla lunga i pezzi di Mammoth Disorder non prendono come dovrebbero, perché anziché essere accattivanti e spinti come i sopracitati Down, si finisce su Damned che quasi non se ne può più. In conclusione: Mammoth Disorder mostra molti punti di debolezza, ma lascia anche intravedere la possibilità che si possa fare qualcosa di più in futuro.

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Opinione inserita da Dario Onofrio    10 Febbraio, 2016
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L'ondata del folk/viking metal non sembra volersi fermare a distanza ormai di 8 anni dalla sua esplosione: nuova scoperta (almeno per il sottoscritto) sono in questo caso i Nomans Land, un quartetto di russi giunto alla quinta fatica in studio con questo Last Crusade.

Se non siete rimasti delusi dall'ultima prova in studio degli Heidevolk probabilmente la band non mancherà di riservarvi qualche sorpresa inaspettata: il loro mix prevede proprio l'alternanza di voci e cori e dei riff ben delineati come la band olandese, con qualche spunto quasi epic metal qua e là. Se i primi due pezzi sono su questo stile, con Victory Horns e Dragons andiamo più su territori finnish-oriented (divertentissimo il testo di quest'ultima che parla di un vichingo che inizia a vedere i draghi dopo aver preso un fungo allucinogeno): non mancano le suggestioni folk e quasi "trolliche" che tanto hanno giovato a quella nazione. Il rapporto con la Finlandia, poi, è ben stretto anche dal fatto che i nostri hanno registrato e prodotto il disco proprio lì: segno che le barriere del passato finalmente tendono ad abbattersi?

La traccia che fa però emergere più di tutte (e quella anche che rende più giustizia al disco), però, è la conclusiva Bereza: cantata in russo possiede un incedere lento e drammatico, con la chitarra solista di Sigurd che ci propone un classicissimo riff viking metal.

Una band come i Nomans Land avrebbe tutte le carte in regola per sfondare, ma si brucia proprio sulla produzione, davvero pessima in alcuni frangenti, e, secondo me, sulla decisione di cantare tutti i pezzi in lingua inglese. Forse questo Last Crusade sarebbe arrivato molto più in alto con i giusti accorgimenti, ma rimane comunque un discreto album che sento di consigliare agli appassionati di genere.

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Opinione inserita da Dario Onofrio    05 Febbraio, 2016
Ultimo aggiornamento: 06 Febbraio, 2016
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Quando non sai cosa aspettarti dalle demo, quando anche in patria la maggior parte delle idee che ti vengono proposte sono robe banali trite e ritrite, ecco saltare fuori dal BANGLADESH i Surtur.

Boh, forse è proprio la storia tormentata di questo paese che traspare dalle ritmiche a metà strada tra il tecnico e il blackened thrash alla Kreator che scaturiscono dalla chitarra del fondatore Shadman Omee, originario di Dhaka: questo EP di 3 pezzi (e una intro) è un concentrato di violenza e rabbia sparata a mille in faccia all'ascoltatore, con una precisione che non ti aspetteresti affatto da quattro ragazzi originari di uno dei paesi più poveri del mondo. Non si sprecano le citazioni a Voivod e Vektor (Masnun Efaz è un ottimo bassista, come si può sentire in parecchi frangenti durante la demo), rimanendo sempre su una base che si affaccia perlopiù al thrash tedesco: Maggot Filled Brain vi farà già capire dal titolo dove stiamo andando a parare, con le sue atmosfere ossessive che non mancano di citare la psichedelia tanto cara ai gruppi thrash più tecnici. E poi non si può non parlare di Demolisher: una vera e propria killer-track che alterna momenti di blast-beat a refrain di una classe davvero invidiabile, con un Riasat Azmi che si sgola per riuscire a recitare tutto il testo e un batterista come Rifat Rafi che a momenti fa esplodere la batteria dello studio di registrazione.

Detto questo: cosa manca alle nostre band? Manca forse quella visione primordiale del metal come ancora di salvezza in un mondo di proibizioni? Non credo ci siano risposte a questa domanda, ma una cosa è sicura: leggeremo presto il nome dei Surtur in qualche tour europeo. Una demo così ben fatta e del thrash metal così ben scritto non si sentivano davvero da parecchio tempo, e proiettano la giovane band nella scala dei talenti emergenti a livello mondiale. Shadman e soci meritano di sicuro più spazio, più visibilità e più possibilità di quelle che potrebbero avere al loro paese: continuate così!

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3.5
Opinione inserita da Dario Onofrio    21 Gennaio, 2016
Ultimo aggiornamento: 22 Gennaio, 2016
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Uno dei dischi più attesi di questo inizio 2016 è senza ombra di dubbio il nuovo arrivato di casa Mustaine: Distopya esce domani nei negozi dopo mesi di campagna pubblicitaria e i più svariati gossip in ambito metallico. I Megadeth, usciti dall'orrenda parentesi di Super Collider e con una line-up rinnovata, hanno promesso molto, moltissimo: aspettative che dal canto mio sono state in buona parte rispettate, in minima parte tradite.

Quindi: cos'è questo disco? È una paraculata o nasce da un serio desiderio artistico?
Come si direbbe dalle mie parti: mézz e mézz. Distopya si colloca stilisticamente a metà tra Countdown to Extinction e Youthanasia, recuperando vecchie sonorità che non si sentivano almeno da Endgame. La produzione, di ottimo livello, è come sempre curata dal leader della band e da Toby Wright, già visto al lavoro sulla precedente prova in studio; stavolta però le cose cambiano e si sente sin dal primo singolo The Threat is Real.
L'idea di far uscire le tre tracce d'apertura al disco come singoli sinceramente mi spaventava un po' (della serie: ce la giochiamo tutta ora), ma superata Fatal Illusion ci ritroviamo in un album facilmente identificabile come un buon lavoro dei Megadeth: dal riffone di Death from Within fino a Post-American World (canzoni in cui manco a dirlo il buon Dave fa vedere tutta la sua parte a favore di Donald Trump) è una tirata unica, con Poisonous Shadow e la strumentale Conquer... Or Die! che spezzano il ritmo prima della cavalcata finale. Il pezzo sicuramente più interessante del disco è Lying in State, ottima tirata old-school che fa venire voglia di scapocciare dall'inizio alla fine.

C'è da dire che l'entrata in formazione di Kiko Loureiro e Chris Adler ha dato ai Megadeth quel tono che nei due lavori precedenti era mancato: pur proveniendo da due mondi quasi agli opposti come Angra e Lamb of God un punto di incontro è stato trovato, sotto l'evidente guida di Mustaine che vuole più degli esecutori che altro, nei numerosi fraseggi assolo/ritmica che si possono sentire in tutti i 46 minuti che compongono questo disco. Kiko è infatti in forma smagliante e sfodera una prestazione da 10 e lode, farcendo di riffoni precisissimi e ripetuti assoli ogni singola traccia in puro stile Megadeth, mentre Adler è a suo agio specialmente nei pezzi leggermente rallentati come la sopracitata Poisonous Shadow. Quest'ultimo è uno di quegli altri che meritano un paio di parole in più, se non altro per la sua stranezza con un Kiko che suona le tastiere e gli dona spesso e volentieri quelle atmosfere arabeggianti che al leader del gruppo piacciono tanto.

A chiudere il disco Foreign Policy, cover dei Fear, noto gruppo hardcore punk dei primi anni 80' (che a pensarci bene non si capisce cosa possa c'entrare con la visione repubblicana di Mustaine).

Insomma: cosa resta alla fine di Dystopia?
Proprio questo è il problema: BOH.

Boh perché sì, stiamo parlando in effetti di un album veramente ottimo, ma che manca di quel mordente necessario affinché le canzoni ti si ficchino in testa come un punteruolo e ci restino. Forse l'unica che ti viene da canticchiare a fine ascolto è proprio Fatal Illusion.
Intendiamoci: i Megadeth non hanno affatto toppato con questo disco, dimostrando a fan e critica di essere ancora in grado di assestarsi qualitativamente su livelli molto alti. Quello che manca forse è un pochino di ispirazione in più che avrebbe reso Dystopia un capolavoro di thrash moderno come poteva essere White Devil Armory degli Overkill.

Comunque, in conclusione, c'è da dire che almeno con un paio di pezzi ci andrò in fissa.

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