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Opinione inserita da Virgilio    05 Mag, 2021
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I Dreams in Fragments avevano debuttato un paio di anni fa con l'album "Reflections of a Nightmare", un disco alquanto nella media, che non aveva certo fatto gridare al miracolo. Con questo nuovo "When Echoes Fade", tuttavia, ci sembra sinceramente che il gruppo svizzero abbia compiuto addirittura qualche passo indietro. L'inizio dell'album è a dir poco agghiacciante: ritroviamo infatti un paio di brani registrati piuttosto male, con alcuni passaggi quasi ridicoli e alcune dissonanze persino cacofoniche. Peraltro, la cantante ostenta delle tonalità alquanto basse che non rendono merito alla sua voce, che anzi appare così quasi sgraziata. Il tiro sembra finalmente aggiustarsi con la quarta traccia, "By The Sea Forever", dove peraltro si assiste ad un duetto con una voce maschile in chiaro alquanto apprezzabile. In generale, un po' in tutto il disco la band opta per un massiccio uso di tastiere per delle orchestrazioni piuttosto semplicistiche e suoni campionati, con le chitarre relegate perlopiù all'esecuzione di riff abbastanza ripetitivi e con suoni non sempre ottimali. Talvolta ritroviamo dei passaggi con growl vocals ma, come accennato, ci sono anche brani con voce maschile in chiaro ("By The Sea Forever", "She's The Fall", "Showgirl"). C'è in qualche brano anche qualche coro niente male, ad esempio nel finale di "To Avalon", che sicuramente annoveriamo tra i pezzi meglio riusciti. In generale, comunque, non si riscontrano nel disco grandi idee e le cose migliori a nostro avviso potevano essere meglio sviluppate. Siamo rimasti sinceramente molto delusi: dopo l'album di debutto ci aspettavamo qualcosa di più dignitoso, mentre purtroppo questo "When Echoes Fade" è un disco di cui si può certamente fare a meno.

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Opinione inserita da Virgilio    26 Aprile, 2021
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Nonostante l'album sia intitolato "II", si tratta del disco di debutto per i Benthos, una nuova band formatasi da un'idea di due chitarristi conosciutisi al Consevatorio milanese Giuseppe Verdi, ovvero Gabriele Papagni e Enrico Tripoldi, a cui si sono poi aggiunti gli altri componenti. Il loro stile è alquanto particolare e in qualche modo sperimentale: la band, infatti, riesce a coniugare atmosfere delicate ed eteree, ispirate agli A Perfect Circle o ai Tool più soft, con passaggi irruenti e aggressivi, alternando cantato in chiaro con cantato estremo (in entrambi i casi ottimamente interpretati da un istrionico Gabriele Landillo). Il tutto viene proposto con un pizzico di post rock e con un math metal dai tempi sincopati e dalla complessa periodicità, a cura di una sezione ritmica molto tecnica composta da Alberto Fiorani e Alessandro Tagliani. Per la verità l'album è piuttosto breve come durata (potremmo quasi parlare di un ep, dato che supera di poco la mezz'ora), ma riesce ad essere davvero molto intenso ed espressivo per tutta la tracklist. I Benthos catapultano subito l'ascoltatore nel loro universo stilistico con "Cartesio", passando per brani assai efficaci come "Back and Forth" e "Talk to Me, Dragonfly!". Si prende giusto un attimo di respiro con la breve strumentale "Facing the Deep", per poi passare alla seconda metà della tracklist, dove spiccano la titletrack e la conclusiva "Dissolving Flowers" impreziosita peraltro da inserti con la chitarra classica. Un debutto dunque davvero notevole ed interessante, per una band da tenere assolutamente d'occhio.

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Opinione inserita da Virgilio    24 Aprile, 2021
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Dopo l'esordio avvenuto nel 2019 con "Trail of Consequence", i Mastord ritornano con un secondo album, intitolato "To Whom Bow Even The Trees". Motore del progetto è sempre il polistrumentista Kari Syvelä, che ha composto tutte le musiche e i testi: stavolta sembra che il processo realizzativo si sia svolto in maniera un po' più veloce, forse anche perchè le idee erano più chiare e c'era già una line-up pronta per dare forma concreta a queste idee. Mentre il primo album, tuttavia, era concentrato su poche tracce, ma alquanto lunghe, stavolta si sceglie di inserire più brani, con una lunga suite di oltre tredici minuti, "Circle Lies" e altre canzoni dal minutaggio più contenuto, per quanto ve ne siano alcune che comunque superino gli otto minuti. Anche stavolta, comunque, si riscontra una certa varietà di stili all'interno della tracklist: ci sono brani dove si avvertono echi dei Tool ("The Walls", un po' anche "Humble Professor"), c'è un po' di blues ("Master - Savior"), ci sono passaggi dal sapore settantiano, con tanto di hammond, sonorità orientaleggianti (pensiamo al sitar di "Closer to the Void"), tanto prog metal, ma anche la voce del cantante Markku Pihlaja che spesso ricorda quella di Bruce Dickinson. Questa eterogeneità, come nel caso del precedente lavoro, non sempre è un aspetto positivo: c'è di buono che l'album riesce ad offrire una certa varietà di mood e atmosfere, che in qualche modo arricchiscono la capacità di trasmettere emozioni; per contro, l'impressione è talvolta che certi inserti siano un po' frammentari o che presentino qualche forzatura per poter fare convivere le diverse parti. Inoltre, specialmente nei brani più lunghi, si ritrovano intermezzi strumentali alquanto dilatati, che non solo non risultano particolarmente interessanti dal punto di vista compositivo, ma che sembrano anche alquanto fini a se stessi e poco funzionali al brano. Ecco perchè quasi quasi i Mastord ci sembrano più convincenti quando propongono pezzi più compatti come "The Walls" o "Silence Chime", giusto per fare qualche esempio, per quanto tra le tracce più interessanti non possiamo non annoverare anche le già citate "Humble Professor" e "Master - Savior". In conclusione, diciamo che "To Whom Bow Even The Trees" vive un po' di chiaroscuri, così come era avvenuto per il suo predecessore: ci sono parti molto belle, intense ed emozionanti, accanto ad altre non particolarmente incisive o dove la band sembra perdersi dietro a divagazioni strumentali poco efficaci. In generale, l'impressione è che i Mastord abbiano acquisito maggiore consapevolezza dei propri mezzi e del considerarsi come una band vera e propria piuttosto che un estemporaneo progetto solista e questo lascia ben sperare per il futuro.

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Opinione inserita da Virgilio    19 Aprile, 2021
Ultimo aggiornamento: 19 Aprile, 2021
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Attivi da una decina d'anni, sia pure con vari cambi di formazione, gli Achelous hanno di fatto completato il loro secondo full-length ma, non potendo suonare dal vivo per i ben noti problemi legati al Covid-19 (la loro presenza, tra l'altro, era prevista nel 2020 all'Up the Hammers Festival in Grecia e allo Skull Crush Festival in Francia), in attesa della pubblicazione del disco, hanno pensato di anticiparlo con un EP, intitolato "Northern Winds". La title-track dovrebbe essere l'unico antipasto vero e proprio del nuovo disco: un pezzo heavy e cadenzato, dalle tinte epiche, che supponiamo dovrebbe rendere bene l'idea di quella che sarà la loro proposta. Un secondo pezzo registrato in studio è "The River God", recuperato dal loro primo demo, "Al Iskandar". Il disco è completato poi da tre tracce registrate dal vivo: "Macedon" risale ad una performance del 2018, in occasione della presentazione del loro primo album; "Murmidons" è stata invece registrata lo stesso anno al Malta Doom Festival; "Warriors With Wings", infine, li immortala in una serata del 2019 in cui hanno avuto modo di condividere il palco con Battleroar e Lonewolf. Quello degli Achelous è un heavy molto diretto, fondato su riff rocciosi e lunghe cavalcate, con cori epici e una sezione ritmica pulsante e dirompente: insomma, del nuovo album viene offerto magari poco in anteprima, però questa può rappresentare l'occasione, per chi non la conoscesse ancora, di familiarizzare con la band e la sua proposta musicale. A questo punto, non possiamo perciò che attendere l'uscita dell'annunciato full-length, pronti a gustare una nuova bella e potente dose di metallo pesante.

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Opinione inserita da Virgilio    30 Marzo, 2021
Ultimo aggiornamento: 17 Aprile, 2022
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I Geometry of Chaos debuttano con questo primo album, intitolato "Soldiers of a New World Order". Dietro a questo moniker si celano il chitarrista Fabio La Manna e il batterista Davide Cardella, entrambi ex Alchemy Room: dopo lo scioglimento della band, i due hanno continuato a collaborare insieme, specialmente in occasione degli album solisti di La Manna. Quest'ultimo, in particolare, ha pensato di mettere in piedi questo nuovo progetto, dove c'è un apporto anche di parti cantate, affidate a diversi interpreti quali Marcello Vieira, Ethan Cronin ed Elena Lippe. Diciamo che i risultati sono una via di mezzo tra un disco chitarristico e un disco prog metal, dato che le tracce sono mediamente alquanto lunghe, talvolta con alcuni cambi tematici e con un ampio ricorso a parti strumentali incentrate appunto sulla chitarra, per quanto vi sia comunque l'utilizzo anche di tastiere e sintetizzatori. La chitarra di La Manna si muove tra massicci riff carichi di groove ed efficaci arpeggi: gli episodi migliori del disco si possono ascoltare proprio quando c'è un ottimale equilibrio tra tutti gli elementi ed in particolare in tracce come "Joker's Dance", "Spiral Staircase", "Saturated" e il mid-tempo "Observer", onirico e psichedelico nel suo incedere. Ci sono poi anche due strumentali, ovvero "Garage Evil", una traccia molto tirata, davvero niente male nel complesso e la title-track, che per la verità è in assoluto il brano che ci ha convinti meno del disco: probabilmente la traccia è stata concepita nell'ottica di creare qualcosa di "cinematico" (utilizzando un termine ormai sempre più di moda) o atmosferico, ma che finisce invece per girare attorno ad accordi ciclici con risultati alquanto noiosi. Nulla a che vedere invece con la grinta e l'irruenza che gli altri brani riescono a sprigionare e che rendono quindi l'album un disco alquanto complesso ma allo stesso tempo trascinante e coinvolgente: parafrasando il moniker, una sorta di caos che trova ordine e forma in un assetto che diventa così geometrico. In generale, in "Soldiers of the New Wolrd Order" si possono dunque ritrovare tante buone idee, che si concretizzano in un esordio meritevole di essere conosciuto ed approfondito.

PS. Il disco verrà poi ristampato dalla Wormholedeath Records nell'aprile 2022.

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Opinione inserita da Virgilio    27 Marzo, 2021
Ultimo aggiornamento: 28 Marzo, 2021
Top 10 opinionisti  -  

I Dvne sono un gruppo scozzese che aveva pubblicato quattro anni fa il proprio primo album, "Asheran". Il loro secondo full-length, già dal titolo scelto, "Etemen Ænka", lascia intendere di come si tratti di un disco alquanto complesso e ricco di sfumature. Si tratta fondalmentalmente di un concept, incentrato sulla storia di una civiltà, dominata dai cosiddetti "celestials" e su come questi si siano adoperati per dare vita alla propria visione utopistica. Il concept peraltro non impedisce loro di proporre alcuni precisi rimandi letterari: così, ad esempio, "Enuma Elis" fa riferimento espressamente al poema epico babilonese, mentre "Towers" è ispirata ai libri "Terminal World" di Alastair Reynolds e "Bay City (Altered Carbon)" di Richard K Morgan. Questo tipo di impostazione porta la band a realizzare dei brani alquanto vari e in qualche modo anche ricchi di contrasti, nei quali possiamo ritrovare passaggi molto oscuri e pesanti, con un massiccio utilizzo di extreme vocals e toni ribassati, rispetto ad altri più atmosferici ed eterei, che arrivano ad essere davvero minimalisti e soffusi (forse anche troppo), se prendiamo il caso di "Adrӕden" e "Asphodel". C'è anche una certa tendenza al progressive, con cambi tematici che si susseguono con totale naturalezza, specie in tracce di lunga durata, quali possono essere ad esempio "Omega Severer", "Mleccha" o la suggestiva "Satuya". La band opta peraltro per fare un massiccio uso di tastiere e sintetizzatori, che arricchiscono la loro musica con particolari effetti, non inficiando la pesantezza dei suoni, ma contribuendo a creare un sound che riesce a introdurre in maniera più efficace e suggestiva l'ascoltatore nell'impianto narrativo e atmosferico da essi creato. Per un paio di tracce viene fatto ricorso anche ad una voce femminile, che aggiunge ulteriore profondità a dei brani già ricchi non solo, come specificato, di più temi, ma anche alquanto stratificati nelle linee vocali e strumentali. "Etemen Ænka" è un disco che riesce ad essere alquanto affascinante e che dimostra la maturità artistica già raggiunta dalla band, per cui non c'è da stupirsi a questo punto se la Metal Blade abbia deciso di puntare su di loro.

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Opinione inserita da Virgilio    20 Marzo, 2021
Ultimo aggiornamento: 20 Marzo, 2021
Top 10 opinionisti  -  

Cominciavamo seriamente a sentire la mancanza degli Ainur, un progetto ispirato alle opere di J.R.R.Tolkien, che aveva realizzato degli ottimi album pubblicati tra il 2006 e il 2009, unendo con grande bravura prog rock, folk e elementi orchestrali. Il seguito di "Lay of Leithian", nei programmi originari, avrebbe dovuto essere dedicato alla caduta di Numenor: evidentemente, ha poi prevalso l'idea, già pure in cantiere, di sviluppare il tema delle battaglie dei Silmaril (con una gestazione durata più di dieci anni), concentrandosi in particolare sul personaggio di Fëanor, il nobile elfo dei Noldor che con il suo carattere infuocato ("Spirit Of Fire" è infatti il titolo di una canzone, ma di fatto anche il significato del suo nome, derivato dalla forma sindarin di Fëanor, che significa proprio "spirito di fuoco") è certamente stato il motore di tante vicende della mitologia tolkieniana, con conseguenze che si ripercuoteranno per intere epoche. A livello di line-up, notiamo l'assenza di Gianluca Castelli, che era stato uno dei principali compositori degli Ainur in passato e si è anche ridotto il numero dei musicisti e dei cantanti solisti, ora limitato a due voci maschili e due femminili. In compenso, sono presenti alcuni ospiti di livello internazionale: Ted Nasmith è la voce narrante, poi ci sono Roberto Tiranti che canta nella già menzionata "Spirit Of Fire" (arricchita non poco dalla sua performance) e Derek Sherinian che suona in "Battle Under the Stars". Rispetto ai precedenti lavori, probabilmente anche per le tematiche trattate, la musica è senz'altro più dura e aggressiva: quest'aspetto porta con sè una serie di pro e di contra. Se, infatti, in passato, lo stile degli Ainur risultava davvero molto particolare, quasi unico nel suo genere per certi aspetti, ma probabilmente anche per questo non necessariamente popolare o immediatamente accessibile ad un grande pubblico, ora appare più vicino a quello di tanti gruppi prog metal o di metal sinfonico e forse così anche più facilmente "etichettabile", riconducibile ad un genere piuttosto che ad un altro. Queste sono però chiaramente scelte di fondo del gruppo, rispetto alle quali non entriamo nel merito. Passando ad analizzare la tracklist, la nostra impressione è che questa inizialmente stenti un po' a decollare e ad entrare nel vivo: la prima traccia, "Fate Disclosed", è interamente narrata; "Wars Of Beleriand" è una strumentale un po' frammentaria, ma che accenna una serie di temi che si ritroveranno nel corso dell'album; "Hell Of Iron" è un pezzo duro che non ci ha colpiti particolarmente; "Wars Begin" comincia con il suo crescendo a riscaldare gli animi, ma i primi veri sussulti arrivano solo con l'emozionante "Kinslaying (The First). Da questo momento l'album diventa davvero splendido, con il bell'intrecciarsi di cori e voci soliste e gli squisiti arrangiamenti, che caratterizzano brani mediamente alquanto lunghi, con una struttura aperta e cangiante, che proiettano l'ascoltatore nel magico mondo creato dalla fantasia del Grande Scrittore inglese, ancora oggi più che mai in grado di appassionare ed incantare, del quale gli Ainur sono profondi conoscitori e rispetto al quale hanno avuto sempre un'attenzione e una cura meta-musicale, che va cioè oltre il semplice aspetto musicale, per coinvolgere anche quello visivo e poetico. "War of the Jewels" è dunque un'opera davvero maestosa e appassionante, sicuramente consigliata a chi ama Tolkien e non solo.

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Opinione inserita da Virgilio    17 Marzo, 2021
Ultimo aggiornamento: 18 Marzo, 2021
Top 10 opinionisti  -  

"Mark Bravi's Origins" è il titolo di quest'EP che rappresenta il debutto solita per il tastierista dei Virtual Symmetry, Mark Bravi. Il disco, composto da sei tracce strumentali, raccoglie brani composti e registrati dall'autore in vari periodi, sin dal 2013. Tra i pezzi più interessanti, annoveriamo proprio un paio di pezzi di quel periodo, poi ri-registrati nel 2017 insieme al chitarrista Matteo Pelli: si tratta dell'opener "Beyond The Unpredictable", senz'altro il brano più progressive del disco, nonché di "The 10th Dimension", una traccia incentrata sulle tastiere, nella quale i due musicisti si cimentano in diversi begli assoli. Gli altri brani sono invece alquanto differenti: "Phoenix" è incentrata su piano e tastiere ma va man mano ad arricchirsi di varie orchestrazioni, mentre la conclusiva "Reborn" è una traccia propriamente cinematografica, essendo stata composta nel 2019 per la colonna sonora del film "I Morcc de la Scabla", diretto da Stefano Cutugno. Non particolarmente incisivi invece altri due brani, basati fondamentalmente su arpeggi o accordi pianistici, intitolati "Strange As Life" e "Val".
Diciamo che, in generale, "Origins" non è magari il tipico disco destinato a chiunque: proprio per come è stato concepito, è rivolto principalmente a chi ama tastiere e synth o magari a chi piace il prog e certa musica atmosferica e cinematografica. L'autore riesce tuttavia a trovare soluzioni in grado di essere accattivanti sin dai primi ascolti o che possono risultare in certi casi un piacevole sottofondo per cui, in questo senso, anche per questa sua composizione molto eterogenea, può effettivamente rappresentare un gradevole ascolto per chiunque.

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Opinione inserita da Virgilio    08 Marzo, 2021
Ultimo aggiornamento: 08 Marzo, 2021
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Ci sono band che per la natura stessa del loro stile, sfuggono a qualsiasi catalogazione. Potremmo dire semplicisticamente che i Cyrax, giunti con "Experiences" al loro terzo full-length, suonino progressive metal: tuttavia, questo potrebbe significare tutto e niente, perchè questa potrebbe essere una definizione corretta ma al tempo stesso fuorviante per descrivere la loro musica. Ciò perchè la band effettivamente propone brani dai temi cangianti e con tempi dalla complessa periodicità, destrutturando la classica forma-canzone, ma va anche detto che si muove tra generi totalmente diversi, mischiando con assoluta semplicità metal, jazz, country, cori gotici e chi più ne ha più ne metta. I loro brani sono assolutamente geniali ed imprevedibili, frutto di una "follia" (in senso buono) creativa che sfugge a qualsiasi schema o convenzione. Basti ascoltare quanto siano totalmente spiazzanti in un brano come "Dorian Gray", che parte da un piano jazz per poi passare ad un'autentica commistione tra jazz, death metal e power metal. Oppure "Truemetal", con il suo titolo forse un po' provocatorio, perchè presenta un testo magari davvero tipico di band che si professano "true", ma che invece va a mettere dentro blues, sonorità elettroniche, country, parti in growl, cori metal e un finale molto cinematografico. Ancora, si passa dal mathcore di "Wozzeck" al jazz rock di "Odysseia" o al metal aggressivo e sincopato di "Global Warming".
Questo è reso possibile anche dal fatto che la band, un quartetto composto da voce, due chitarre e batteria, in realtà si avvale di un numero molto ampio di musicisti e cantanti, immaginiamo in alcuni casi anche di estrazione alquanto distante dal metal, creando così un insieme molto variegato, aperto alle più svariate soluzioni.
Un album davvero sorprendente dall'inizio alla fine, probabilmente non adatto a chi preferisce la semplicità e la linearità o a chi non è aperto alla commistione tra generi diversi, ma a nostro parere si tratta di un disco davvero geniale ed originale, sia a livello compositivo che per gli arrangiamenti, che non esitiamo a considerare come un piccolo capolavoro, assolutamente meritevole di attenzione.

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Opinione inserita da Virgilio    17 Febbraio, 2021
Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 2021
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I Marble avevano pubblicato un album nel lontano 2008, seguito da un EP del 2010. Abbiamo dovuto attendere quindi ben undici anni per poter ascoltare un loro nuovo disco: il lavoro in questione è un full-length, intitolato "S.A.V.E.". I brani sono tutti focalizzati sui sette peccati capitali e sulle tre virtù teologali, per cui ciascuna traccia affronta, in ordine sparso, uno di questi temi, più l'ultima, conclusiva, che è una strumentale intitolata "Sins And Virtues End". Naturalmente, oltre che a livello di testi, anche sotto il profilo musicale la band cerca di trasmettere determinati sentimenti o sensazioni che possano richiamare un determinato vizio o virtù, anche se poi lo fa in modo per nulla scontato: può succedere, infatti, che "30 Silver Coins", brano dedicato alla speranza, sia poi uno dei più aggressivi, (tra l'altro con l'apporto delle growl vocals di Maurizio Caverzan degli In-Sight), mentre per contro "A Darker Shade Of Me", dedicato all'ira, è una delle tracce più soft, interpretata con chitarre acustiche e archi. A livello di line-up, ci sono due novità rispetto al passato, ovvero Norman Ceriotti alla batteria e Eleonora Travaglino dietro ai microfoni. Quest'ultima, si rende autentica protagonista dei brani, con la sua voce alquanto versatile, tra passaggi dolci e suadenti e altri carichi di grinta e vigorosi. Lo stile è un metal melodico dalle venature prog, caratterizzato da un buon mix tra potenza e melodia, con una sezione ritmica solida e tecnica, un ottimo lavoro chitarristico ad opera del duo composto da Paul Beretta e Omar Gornati, nonché con le tastiere di Jacopo Marchesi, che conferiscono alla band un sound più pieno e corposo, senza tirarsi indietro quando si tratta di lanciarsi in dirompenti assoli. L'album si rivela in generale ben strutturato e arrangiato; da segnalare, altresì, come il lavoro di produzione sia stato curato da Giulio Capone (Moonlight Haze, ex Temperance, Bejelit), ad eccezione della canzone "Mine", in quanto, avendo vinto la band un contest, questa è stata affidata a Marko Tervonen (The Crown), il quale si è occupato anche del mixaggio e del mastering. Per questo ritorno, i Marble, dunque, non puntano su effetti speciali o su chissà quali innovazioni: al contrario, si focalizzano su un metal melodico abbastanza classico, offrendo però un prodotto con diverse belle canzoni e realizzato con la massima serietà e professionalità possibili. "S.A.V.E" si rivela dunque un piacevole ascolto, per cui non possiamo che auspicare che la band riesca a stabilizzare la line-up, confermandosi come una presenza più costante della scena metal nazionale, almeno più di quanto non sia avvenuto finora.

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