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Opinione scritta da Ninni Cangiano

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    31 Mag, 2019
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Un metallaro che segue una band come i Blazon Stone sa già, a prescindere da tutto, cosa vuole da loro: solo e soltanto fottutissimo pirate metal! E non ce ne frega niente, assolutamente niente se l’hanno inventato i Running Wild e da loro l’hanno copiato in tanti altri! A noi piace ascoltare questa musica, ci piace sbattere su e giù il capoccione seguendo il ritmo forsennato delle chitarre ed immaginare di essere un corsaro sul proprio veliero, con la propria ciurmaglia a caccia di navi da abbordare innalzando orgogliosi la nostra Jolly Roger, per poi perdersi in fiumi di birra e whisky, danzando a braccetto con la morte! Potrei già finire qui la recensione di “Hymns of triumph and death”, quinto studio album della band di Cederick “Ced” Forsberg che, per l’occasione ha deciso di suonare tutto da solo, basso, batteria e chitarre, lasciando solo il compito di cantare al fido Erik Forsberg. Sono 11 i pezzi (cui si aggiunge l’immancabile intro strumentale) che compongono questo album; non tutti sono allo stesso livello qualitativo: “Iron fist of rock”, ad esempio, soffre di un coretto troppo “easy” ripetuto troppe volte e le ottime parti soliste salvano il pezzo, ma non lo rendono eccellente. Sulla stessa scia anche “Ride high”, nonostante anche qui ottime parti soliste. Fortunatamente sono solo due brani, perchè gli altri sono tutti sul livello di eccellenza; l’accoppiata iniziale “Heart of stone” e “Dance of the dead” è semplicemente esplosiva, “Blood of the fallen” ed “Howell’s victory” sin dalle prime note fanno venir voglia di saltare, “Cheating the reaper” e le successive “Slaves & masters” e “Wavebreakers” sono manifesti del pirate metal, senza dimenticare la conclusiva “Wild horde” che suggella in maniera eccelsa un disco che è imprescindibile per ogni amante di questo genere musicale. “Hymns of triumph and death” senza ombra di dubbio conferma i Blazon Stone tra le migliori bands in assoluto del pirate metal mondiale!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    31 Mag, 2019
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In contemporanea con l’uscita del nuovo album da studio “Hymns of triumph and death”; la Stormspell Records ha deciso di dare alle stampe anche il primo live dei Blazon Stone, intitolato “Live in the dark”. Ma dove è stato registrato questo disco? In realtà si tratta di un collage tra varie registrazioni: la batteria risale al concerto del 20 luglio 2018 a Sandviken (Svezia), la voce dall’Headbangers Festival del 26.07.2018 in Germania, mentre basso e chitarre sono state registrate al concerto del 12.10.2018 a Gävle (Svezia). Da sottolineare che nel booklet la band si scusa con i fans greci e francesi, promettendo di esibirsi in quei paesi in futuro. La scaletta scelta non mi ha convinto particolarmente, dato che a mio parere è stato dato poco spazio al primo mitico album “Return to Port Royal”, presente con la sola “Stand your line”, mentre nessun pezzo è stato estratto dall’E.P. del 2016 “Ready for boarding”. Dal secondo disco “No sign of glory” troviamo “A traitor among us” e “Fire the cannons”; da “War of the roses” c’è la title-track assieme a “Born to be wild”, ”Black dawn of the crossbones” e “Soldier blue”; altri quattro pezzi, infine, come è giusto che sia, dall’ultimo disco da studio, quel “Down in the dark” uscito nel settembre 2017. Abituato alla voce di Erik Forsberg, mi fa un po’ strano ascoltare l’ospite Philip Forsell che comunque se la cava molto bene. Assieme al leader Ced (al secolo Cederick Forsberg), c’è l’altro chitarrista Emil Westin Skogh, da poco in pianta stabile nel gruppo, e Jimmy Mattsson (Planet Rain) al basso, oltre all’altro ospite, il batterista dei Twilight Force e Bloodbound, Daniel Sjögren. La registrazione è impeccabile e l’ascolto scorre via molto piacevolmente, segno che i Blazon Stone possono dire la loro anche in sede live. Sinceramente non avrei mai scommesso un soldo su una cosa del genere; credevo, infatti, che, non avendo musicisti fissi attorno a sé, il buon Ced non sarebbe mai riuscito a metter su un tour e tanto meno a registrare un disco dal vivo, ma sono stato molto contento di essermi sbagliato! Con questo “Live in the dark”, i Blazon Stone dimostrano di avere tutte le carte in regola per potersi esibire più e più volte on stage, alla pari di tutti gli altri grandi nomi del pirate metal mondiale e spero vivamente di riuscire, prima o poi, ad assistere ad un loro concerto!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    28 Mag, 2019
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Devo ammettere che conoscevo i londinesi Savage Messiah solo di nome, avevo ascoltato qualcosa in passato, ma non mi era mai capitato di dover recensire un loro lavoro; così, quando mi è capitata l’occasione di cimentarmi con questo loro quinto album, intitolato “Demons” (dalla copertina invero alquanto deludente), non mi sono fatto sfuggire l’occasione di approfondire la mia conoscenza di questa band. Il gruppo nasce nel 2007 per iniziativa dell’ex-Headless Cross, Dave Silver, cantante e chitarrista; dopo un EP d’esordio ha sfornato, come detto, cinque full-lenghts arrivando a strappare un contratto addirittura con la Century Media. Nel corso della storia della band, attorno al proprio leader ci sono stati diversi cambiamenti di formazione ed in questo disco fanno il loro ingresso il nuovo batterista Charly Carretón ed il nuovo chitarrista solista David Hruska. “Demons” dura poco meno di ¾ d’ora, con brani sempre concisi ed efficaci, segno che in quanto a songwriting i Savage Messiah ci sanno fare e non si perdono in inutili orpelli. Certo, qualche pezzo funziona meglio di altri; mi riferisco ad esempio a “Virtue signal” ed “Heretic in the modern world” che funzionano meglio di “What dreams may come”, piazzata in mezzo a loro, nonché della successiva “Parachute”, forse un po’ troppo blande per il power/thrash della band. Arriva poi l’accoppiata “Under no illusions”/”Down and out” in cui invece si picchia duro e si inietta una bella dose di adrenalina. Il disco procede bene o male a questa maniera, alternando pezzi davvero gradevoli con altri che sembrano messi ruffianamente su per dare il classico “colpo al cerchio e colpo alla botte”, finendo per non avere lo stesso mordente ed energia degli altri; tra l’altro, forse manca quella hit che da sola vale l’acquisto del disco e ti fa saltare sulla sedia al primo ascolto (l’unica che potrebbe avvicinarsi è l’ottima “The bitter truth”). Tutto sommato però, i diversi ascolti che ho dato a questo disco sono stati sempre gradevoli e sicuramente “Demons” dei Savage Messiah ha tutte le carte in regola per soddisfare i fans della band e di questo specifico genere musicale. C’è di meglio in giro? Sicuramente si, ma altrettanto sicuramente c’è anche molto di peggio.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    20 Mag, 2019
Ultimo aggiornamento: 20 Mag, 2019
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Gli Ironguard arrivano dalla Danimarca e sono in attività addirittura dal 2008; solo in questi giorni però sono riusciti a rilasciare il loro debut album, intitolato “Towards victory”. Il sound della band danese è un piacevole power/heavy metal, fortemente influenzato dalla scena scandinava di gente come Stratovarius, Hammerfall & C.; se quindi qualcuno di voi stesse cercando qualcosa di originale o innovativo, sappia da subito che questo non è il disco adatto. Ho però il dubbio che gli Ironguard non avessero come obiettivo quello di risultare originali o innovativi; mi pare invece che loro suonino solo e soltanto per l’amore verso questo genere di sonorità che ha scritto pagine di storia del metal, tra gli anni ’90 ed il primo decennio del nuovo secolo. I nostri, quindi, giungono un pochino in ritardo rispetto al trend ma, come ho spesso sottolineato nelle mie recensioni, mi importa davvero poco dell’originalità, se quello che ascolto mi piace e mi coinvolge. E, per essere sinceri, questo disco avrebbe tutte le qualità per essere coinvolgente se non avesse due gravi difetti. In primis la produzione è alquanto deficitaria, con una registrazione abbastanza “ovattata” che poteva andar bene un quarto di secolo fa, ma nel 2019 diventa difficile da accettare, specie se penalizza alcuni strumenti (tipo la batteria) che sono invece fondamentali in questo genere di musica. Il secondo problema sta nella voce del cantante; per il power metal serve una voce squillante, potente ed espressiva, caratteristiche che non mi sembra siano annoverate tra le qualità di questo singer; oltretutto, la voce è anche registrata ad un volume troppo superiore rispetto agli strumenti che vengono così messi troppo in secondo piano. Oltre quindi ad avere un cantato non proprio esaltante o convincente, lo troviamo pure troppo in risalto. Ed è un peccato, perchè musicalmente parlando gli Ironguard riescono anche ad essere più che convincenti ("Sentenced", ad esempio, sarebbe una splendida ballad!); il loro power dai riflessi heavy sa essere coinvolgente e si lascerebbe anche ascoltare piacevolmente, se la registrazione fosse migliore. Le potenzialità non mancano a questa band, ma servirà migliorare notevolmente la qualità della registrazione e magari trovare un singer più capace; le basi di partenza sono buone, ma per adesso questo “Towards victory” non può superare la sufficienza.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    19 Mag, 2019
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Dietro il nome March against the tides si cela il talentuoso polistrumentista norvegese Mattias Johansson che si è occupato di tutto quanto in questo disco d’esordio, tutti gli strumenti (con ottimi risultati) e persino la voce (anche se con esiti meno esaltanti). Il progetto vede la luce nell’ottobre del 2018, durante una sessione di registrazione con un’altra band; da allora Johansson inizia a preparare i vari pezzi per arrivare a registrare e pubblicare il full-lenght, al momento purtroppo solo in digitale e non su supporto “fisico”. Nella presentazione, si parla di influenze di Megadeth, Van Halen, Def Leppard e Dragonforce; probabilmente si tratta delle bands preferite dal musicista, perchè in quanto ascoltato non c’è traccia né del thrash dei Megadeth, né dell’hard rock di Van Halen e Def Leppard. Qui c’è solo power metal iper-veloce alla Dragonforce, con assoli di chitarra al fulmicotone e batteria lanciata a velocità elevate. Se quindi cercate originalità a tutti i costi, sappiate che qui non ne troverete mai, perchè Johansson ha deciso di suonare solo e soltanto la musica che ama, senza badare alle mode o al fatto che già tanti altri hanno suonato questa musica prima di lui. Se invece non badate a tali dettagli, questo “From a realm turned scorned”, composto da 9 tracce, potrà anche piacervi, dato che in fin dei conti è anche abbastanza godibile. Vi sono dei difettucci che vanno però rimarcati; in primis, come detto, Johansson sarà anche un musicista dalla tecnica sopraffina, ma altrettanto non si può dire come cantante, dove la sua prestazione rasenta la sufficienza e nulla di più, anche perchè madre natura non l’ha dotato di un’ugola particolarmente acuta o potente (come invece richiede questo genere musicale). Altro particolare che non mi ha convinto è la lunghezza eccessiva dei pezzi (il disco dura ben oltre un’ora); molto probabilmente il nostro Mattias si è lasciato prendere la mano ed ha dato sfogo a tutta la sua voglia di suonare e di esibire le sue capacità, perdendo un po’ di vista la funzionalità dei singoli componimenti e le strutture dei brani. Un po’ più di attenzione al songwriting, per evitare di sembrare prolisso, in futuro sarà dunque necessaria. Non sarebbe male anche dedicare un po’ di attenzione all’artwork (alquanto scadente), in modo da avere anche un biglietto di presentazione migliore. Spero che questo progetto denominato March against the tides possa avere un futuro, perchè quanto ascoltato in questo debut intitolato “From a realm turned scorned” non è niente male; basterà trovare un cantante valido ed evitare qualche ingenuità per fare ancora meglio di così; per il momento, ampia sufficienza meritata.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    19 Mag, 2019
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War Curse, un nome nuovo che arriva dall’Ohio; si tratta di un gruppo formatosi nel 2013, con all’attivo un primo album risalente al 2015 e che ha rilasciato da pochi giorni, su Svart Records, questo secondo disco, intitolato “Eradication”, composto da 8 tracce. Segnaliamo subito la presenza di alcuni ospiti illustri: sull’opener “Asylum” c’è Glen Alvelais, ex-chitarrista dei Forbidden e dei Testament; sulla quarta traccia “Serpent” troviamo Kragen Lum, chitarrista degli Heathen; mentre sulla settima “Deadly silence” c’è Kyle Thomas, cantante, tra gli altri, degli Exhorder. Gente insomma navigata e di un certo spessore, con un comune denominatore: il thrash metal. Ed infatti questi War Curse suonano thrash, fortemente debitore al sound della Bay-Area californiana ed, in particolare, ai Testament più recenti, anche per via del fatto che lo stile del cantante Blaine Gordon ricorda quello del mitico Chuck Billy. Il thrash dei War Curse, pur non essendo particolarmente originale (del resto è difficile esserlo in questo genere), si lascia ascoltare molto gradevolmente e viene spesso voglia di sbattere su e giù il capoccione in furioso headbanging. Insomma, gli 8 pezzi della tracklist non mancano in energia, attitudine e grinta; anche le parti soliste delle chitarre si fanno notare in positivo, così come il furioso drumming ed il lavoro in sottofondo del basso. Non c’è un pezzo che spicchi sulla massa (e questo è forse il limite dell’intero lavoro), ma tutti quanti i brani si fanno apprezzare ed hanno tutte le carte in regola per far breccia nei cuori dei thrashers. Con questo “Eradication”, gli americani War Curse possono dire la loro nell’affollato mondo del thrash metal; non abbiamo davanti un album epocale, ma sicuramente un lavoro più che valido.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    19 Mag, 2019
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Non conoscevo i finlandesi Midnight Bullet, band formatasi nel 2009 con all’attivo due full-lenghts nel 2012 e 2015, oltre a numerosi singoli; così, quando ci è stata proposta la recensione di questo nuovo album, intitolato “Into the fire”, mi ci sono dedicato con curiosità. Sin dalle prime note dell’opener “Ain’t dead yet” sono rimasto favorevolmente sorpreso; l’heavy metal dei Midnight Bullet è davvero piacevole e ben fatto, oltre che decisamente al passo con i tempi. C’è poi la voce splendida, piena e corposa, oltre che decisamente espressiva, di Tuomas Lahti a fare la differenza in positivo, tanto che mi ha ricordato quella del grandissimo Ville Laihiala (10 minuti di vergogna per chi non lo conosce!). Ecco, una tonalità come quella di Lahti, non particolarmente acuta, ma profonda e “piena”, conferisce quasi un tocco gothicheggiante che mi ha fatto pensare alle ultime produzioni dei Sentenced e poi dei Poisonblack. I Midnight Bullet, però, a differenza delle predette bands, ci mettono parecchio groove sulle chitarre, rendendo decisamente più heavy la loro proposta musicale, grazie anche ai numerosi assoli dell’ottimo Lauri Ikonen. Le atmosfere create dalla voce e dal basso di Mirko Miettinen (a volte anche splendido protagonista), danno quel tocco malinconico che dovrebbe riflettersi anche nei testi che, da quanto leggo, parlano di fobie, ansie, insicurezza e depressione. Nei 12 pezzi che compongono questo disco, non ho trovato nemmeno una virgola fuori posto e sono parecchi i brani che possono assumere il ruolo di hit, in grado di conquistare e convincere pressoché immediatamente. Dalla già citata “Ain’t dead yet”, passando per la splendida “Rise” (la mia preferita), oppure per le veloci “One man war” e One by one”, la ruffiana “Second chances” o la struggente “No turning back”, sono davvero tante le tracce di spessore e livello qualitativo fuori dal comune. E’ comunque tutto il disco nella sua interezza a meritare ogni apprezzamento ed è raro trovare lavori così compatti, in cui, mi preme ribadirlo, non c’è assolutamente niente che non funzioni alla perfezione. Ho scoperto una nuova ottima band, di cui adesso sono curioso di ascoltare anche i precedenti lavori. I Midnight Bullet con questo “Into the fire” hanno realizzato un grandissimo disco in campo heavy metal, da ascoltare ed assaporare. Concludo rubando la citazione finale ad un ben più noto recensore italiano: Buy or die!!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    18 Mag, 2019
Ultimo aggiornamento: 19 Mag, 2019
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Gli Allagash nascono nel 2015 per iniziativa di tre amici, due dei quali (il chitarrista The Sumerian ed il cantante Mooncrawler) sono ancora nella band. L’idea iniziale era quella di creare un gruppo per parlare di tematiche particolari come incontri alieni e misteri irrisolti. Nasce così il primo disco omonimo, uscito nel 2016, a cui ha fatto seguito un EP l’anno scorso e questo secondo full-lenght autoprodotto, dal titolo “Cryptic visions”, composto da 7 pezzi, cui si aggiunge la solita inutile intro, che forse avrà un senso ai fini del concept, ma che musicalmente parlando non serve davvero a niente. La musica della band è un roccioso heavy metal, con qualche spruzzata thrash, dal sound anche abbastanza moderno ed una registrazione che, tenendo sempre a mente che si tratta di un’autoproduzione (quindi con limitato budget economico), è anche accettabile, nonostante metta forse troppo in risalto la voce. Ecco, la voce... capisco che il cantante è tra i fondatori del gruppo, ma deve rendersi conto che la sua prestazione è parecchio monotona e priva di espressione e mordente. Sembra una copia mal riuscita di un Lemmy (R.I.P.!) sfiatato e senza grinta. Mi dispiace evidenziarlo, ma è proprio la prestazione del cantante a rovinare le sorti di questo disco che, invece, dal punto di vista musicale, si lascia ascoltare molto gradevolmente e mette in mostra delle buone prestazioni dei singoli musicisti, nonché qualche idea che potrebbe essere approfondita ulteriormente per il futuro. Mi riferisco, in tal senso, al brano “From the dark” che strizza l’occhio ai Running Wild ed al pirate metal in generale, per via del ritmo e del riffing delle chitarre, ma anche alla lunga conclusiva “Eagle lake” che, essendo interamente strumentale (a parte qualche frase sussurrata ogni tanto), non è rovinata dal cantante. Ho ascoltato più volte questo disco, sperando di ricredermi sulla prestazione canora, ma ogni volta rimanevo colpito in positivo dalle parti strumentali e puntualmente mi cadevano le braccia quando si iniziava a cantare.... Con un singer decente questo “Cryptic visions” degli Allagash sarebbe stato decisamente valido ed interessante, a questa maniera purtroppo non è in grado di strappare nemmeno la sufficienza.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    18 Mag, 2019
Ultimo aggiornamento: 18 Mag, 2019
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I Night Screamer arrivano da Londra e si sono formati nel 2013; dopo alcuni singoli ed E.P. (uno dei quali già recensito sulla nostra webzine), ad aprile di quest’anno si autoproducono il debut album, intitolato “Dead of night” (dotato di una copertina che non mi ha entusiasmato molto), prendendo alcuni pezzi proprio dai loro lavori precedenti. Trattandosi di autoproduzione, è perdonabile una registrazione non eccelsa, con suoni (soprattutto per la batteria) non proprio settati al meglio; mi rendo conto che non si può pretendere la luna nel pozzo con un budget economico limitato, ma qualcosa di meglio si sarebbe potuto fare sotto questo aspetto. Il sound dei Night Screamer affonda le proprie radici nell’heavy metal degli anni ’80, in quella mitica NWOBHM che ha fatto la storia; a questo sound, aggiungono qualche spruzzatina hard rock (“Hit n’run”, ad esempio), specie nei cori, che non guasta. Certo, se si fosse maniaci dell’originalità, ci sarebbe molto da recriminare, dato che obiettivamente la musica dei Night Screamer non ha assolutamente nulla di innovativo o che non abbiano già suonato migliaia di altre bands prima di loro, ma non penso che questi cinque londinesi avessero l’obiettivo di risultare originali... credo anzi che il loro intento sia quello di suonare la musica che amano, fregandosene altamente di mode o innovazione. Un pizzico in più di personalità però per il futuro sarà necessaria, soprattutto per evitare richiami troppo evidenti ai propri idoli (“March of the dead”, ad esempio, ha lampanti richiami ai Metallica più recenti). I due chitarristi la fanno da padrone nel sound della band, macinando riff ed assoli in quantità; il basso (suonato da una ragazza) è un po’ nascosto in sottofondo, ma fa il suo compitino in maniera egregia (nella conclusiva “Out of my mind” si ritaglia anche uno spazio da protagonista!); della batteria abbiamo già parlato e spero di risentirla in futuro con una registrazione che le conferisca la giusta pesantezza e profondità, magari anche con un drumming più fantasioso e da protagonista. Resta la voce di Gadd McFly, forse il tallone d’Achille del gruppo, con una prestazione non proprio convincente; sia chiaro, in tanti anni di recensioni ho ascoltato molto di peggio, ma anche parecchi singer migliori e. per questo genere di heavy metal, indubbiamente serve una prestazione canora più "piena", in grado di dare calore e colore all’occorrenza, cosa che il buon Gadd non sempre riesce a fare. Per assurdo, nel pezzo meno convincente della tracklist (“Paradise lost”), c’è la prestazione canora migliore del singer... sarebbe stato auspicabile che avesse cantato sempre alla stessa maniera! “Dead of night”, con i suoi 9 brani, si lascia comunque ascoltare senza particolari difficoltà, anche se non è in grado di raggiungere la sufficienza, forse anche per la mancanza di una hit che ti faccia saltare dalla sedia e ti prenda sin da subito. Aspetto i Night Screamer alla prossima prova, sperando che riescano ad avere una produzione migliore che esalti la loro musica, con la certezza che sapranno fare qualcosa in più.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    18 Mag, 2019
Ultimo aggiornamento: 19 Mag, 2019
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Cosa aspettarsi da una band che si chiama “Metall”? Facile immaginare che si tratta di heavy old-style, quell’heavy metal che gente che ha passato gli “anta” da parecchio (come il sottoscritto) ha assimilato e vissuto nei mitici anni ’80. E proprio da quegli anni arrivano questi tedeschi; i Metall infatti furono fondati nel 1982, per poi cambiare nome in Headless nel 1988, finendo per sciogliersi nel 1991. Nell’agosto 2013 il membro fondatore Sven Rappoldt (noto come il proprietario dell’Halford Metal Bar di Berlino) ha riattivato la band, registrando poi nel 2017 l’album "Metalheads out" (sconosciuto al sottoscritto). A fine aprile 2019 ecco arrivare il nuovo disco, intitolato “Metal fire”, composto da 8 pezzi (cui si aggiunge la riproposizione di uno di essi, “Easy rider”, anche in lingua tedesca). Sia chiaro da subito che chi cerca originalità avrà già capito che è meglio stia lontano da lavori come questo; qui non c’è assolutamente niente che non abbiano già suonato miriadi di altri gruppi nel corso degli ultimi 35/40 anni! Originalità pari allo zero assoluto, ma un evidente amore per quelle sonorità e per quella musica che puzza di borchie e giubbotti di pelle, con la quale tutti noi true defenders siamo cresciuti e che, solo per questo, merita indubbiamente rispetto. Ma la musica dei Metall ha altri due problemi abbastanza grossi. Passi per la registrazione un po’ vintage (forse volutamente fatta così), ma il rullante della batteria grida vendetta, dato che è più simile ad un fustino del detersivo che ad uno strumento musicale. Il problema più grosso è però la voce del cantante, abbastanza “nasale” e decisamente monotona. Se le parti strumentali, specie per le chitarre, sono anche piacevoli, quando arrivano le parti cantate si volge al peggio e si fa davvero fatica ad ascoltare e riascoltare l’intero lavoro tutto d’un fiato. Probabilmente con un cantante migliore i Metall avrebbero qualche possibilità di farsi notare in positivo, perchè in fin dei conti il loro heavy old-style potrebbe anche non dispiacere, pur nei limiti di un’originalità inesistente; a questa maniera, invece, mi dispiace, ma la sufficienza è ben lontana.

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