LINE UP:
Desolate - voce, chitarre, basso, tastiere
Sorrow - batteria, tastiere, voce
TRACKLIST:
1. Sullen =VIDEO=
2, A Ravenous Oblivion =VIDEO=
3. The Poisoned Core =ASCOLTA=
4. Pale =ASCOLTA=
LINE UP:
Desolate - voce, chitarre, basso, tastiere
Sorrow - batteria, tastiere, voce
TRACKLIST:
1. Sullen =VIDEO=
2, A Ravenous Oblivion =VIDEO=
3. The Poisoned Core =ASCOLTA=
4. Pale =ASCOLTA=
Il Depressive Black Metal è, a mio parere, il sottogenere più estremo al quale le nostre orecchie sono sottoposte. Probabilmente molti non saranno d’accordo con questa definizione avendo in mente altri generi decisamente più brutali (Brutal Death, Grindcore ecc…), ma vi spiego subito cosa intendo. Il Depressive è così estremo perché incredibilmente reale. Possiede la capacità di catapultarci in quelle sensazioni così angosciose e ci riesce forse perché un po’ tutti abbiamo vissuto tali emozioni anche se la società vorrebbe far intendere che questo sia sbagliato, in realtà è la cosa più umana che esista. Ho voluto iniziare questa recensione con un preambolo, proprio per farvi capire quanto io sia innamorata del Depressive e in particolare proprio gli Austere sono stati tra le prime band del genere che io abbia mai ascoltato. Sono riusciti a conquistarmi con quel capolavoro di “To Lay like Old Ashes” datato 2009. Capite bene che, a distanza di tredici anni dalla loro ultima apparizione, mi sono fiondata a preordinare il loro nuovo lavoro “Corrosion of Hearts” entusiasta ed estremamente curiosa di ciò che avrebbero tirato fuori.
La prima cosa che subito salta all’orecchio è lo scream, diverso da quello a cui il duo ci aveva abituati e molto più simile a un Black Metal classico. Mentre il disco scorre, però, ci rendiamo conto che i Nostri non hanno abbandonato quello scream così particolare ed identitario del loro progetto, ma semplicemente ne hanno dimezzato le dosi, sfruttandolo solo in determinati momenti come alla fine della track “A Ravenous Oblivion”. Così come, per fortuna, non hanno abbandonato la voce pulita che tanto amavo nei loro lavori optando per una soluzione tanto particolare quanto azzeccata, ovvero tenere la voce pulita in sottofondo quasi soffocata dalla musica, andando così a rendere il tutto quasi claustrofobico. Ma andiamo ad analizzare più nei dettagli il disco: diciamo subito che chiunque conoscesse gli Austere, si sentirà subito a casa. Parliamo di quattro tracce di lunga durata, quindi brani dall’ampio respiro che permettono alla band di esprimersi al meglio. Ovviamente ciò comporta anche il non essere adatto a tutti i tipi di orecchie, le quali potrebbero annoiarsi essendo un genere altamente introspettivo e malinconico con davvero poca azione al suo interno, al contrario di un normale disco Black Metal. Lapalissiano è il miglioramento della produzione rispetto al precedente capitolo, con tutti i suoni al posto giusto adatti a fare atmosfera e creare sensazioni malinconiche all’interno della mente dell’ascoltatore ma, eccezion fatta appunto per la produzione e la maturazione generale del sound, questo disco sembra ripartire da dove il precedente terminava, con tutte le differenze del caso. Ottima la prima traccia "Sullen", che mischia sapientemente lo scream Black classico, la voce pulita e lamenti tipici del Depressive Black riuscendo a trovare sempre la soluzione vocale adatta ai vari momenti che si susseguono. Particolarmente bella è l’introduzione di chitarra pulita nel terzo brano “The Poisoned Core”, mentre la traccia conclusiva “Pale” è a mio parere la più riuscita del disco, una degna conclusione di questo nuovo capitolo che va a far esplodere le atmosfere e le melodie sentite in precedenza. Da ciò che ho scritto potrete certamente comprendere che questo disco mi è piaciuto parecchio e, in effetti, è così. Ma vi è un unico neo che devo, purtroppo, riportarvi: manca una traccia che sia davvero memorabile. Il disco è riuscito, l’evoluzione esiste ed è certamente ciò che ci saremmo potuti aspettare dagli Austere, ma manca una traccia alla “This Dreadful Empiness” o alla “Down”, ovvero un brano che ti faccia venir voglia di ascoltarlo a ripetizione come invece la band ci aveva abituati. Ma ciò in realtà non mi preoccupa più di tanto, poiché vedo questo disco come una sorta di rito di passaggio atto a concretizzare il loro ritorno, un album che dice “Ci siamo, siamo tornati e abbiamo voglia di fare buona musica” e sono sicura che il prossimo disco sarà una vera perla così come fu nel 2009 “To Lay like Old Ashes”, incrocio le dita.