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Opinione scritta da Daniele Ogre

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Opinione inserita da Daniele Ogre    26 Mag, 2024
#1 recensione  -  

Co-prodotto dalla georgiana Satanath Records e dalla romena Pest Records, "Apocalyptic Visions" è il secondo album dei brutal death metallers americani Morgue Meat, ed arriva a ben otto anni di distanza dal primo full-length "Mutilation in the Chapel". Quello della band texana è un Brutal Death quanto mai canonico e senza particolari guizzi, che prende spunto dalla frangia più 'putrida' del genere (Disgorge, Gorgasm, Putrid Pile); nei 26 minuti di durata di questa loro nuova release i Nostri offrono un lotto di brani lineari (per il genere, s'intende) con una discreta commistione di blast beat ferali e passaggi più pesantemente groovy con un drumming particolarmente preciso, un basso pulsante ed un riffingwork roccioso. A questo si unisce una buonissima produzione, sporca il giusto per essere perfetta per le sonorità del quartetto di Dallas (particolarmente apprezzabili i suoni del basso, per quanto ci riguarda), ma ecco... diciamo che a parte questi dettagli 'tecnici' nel succo il resto lascia il tempo che trova: troviamo pezzi che funzionano meglio ("Execrate", la title-track, "Conqueror's Wrath") ed altri meno ("Lesser Key of Salomon", "Realm of Eternal Suffering"), ma in ognuno dei casi il risultato finale è lo stesso: "Apocalyptic Visions" lascia ben poco alla fine dell'ascolto, niente di memorabile o che invogli a riascoltarlo. Solo una manciata di brani che si lasciano ascoltare tranquillamente per poi riporre il CD sullo scaffale per riprenderlo quando capita. In generale, lavoro sufficiente consigliato espressamente agli incalliti collezionisti del genere.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    25 Mag, 2024
#1 recensione  -  

Non ci arrivano spesso promo di bands dall'India, nonostante sia terra d'origine di una delle più importanti label underground odierne (Transcending Obscurity Records) e, soprattutto, ci sia una scena Metal mastodontica. Eppure, tant'è. Ma proprio dall'India arrivano i Moral Putrefaction, band nata quasi un decennio fa che dopo un demo nel 2019 pubblica oggi, autoproducendosi, il primo full-length eponimo: sette tracce di Death Metal di scuola statunitense nudo e crudo con i "soliti" Morbid Angel, Immolation e Cannibal Corpse come influenze primarie. Il debutto su lunga distanza dell'act indiano è un lavoro solido e compatto che non promette di reinventare la ruota - come si suol dire -, ma che invece punta dritto su sonorità quanto mai familiari agli amanti del genere. Sin dall'opener "Divided" possiamo scorgere il modus operandi dei Moral Putrefaction tra ritmiche ricche di groove spacca collo, un riffingwork roccioso e taglienti armonizzazioni delle soliste; discreta è anche la prova dietro al microfono di Shiva Moorthy, che però rappresenta anche l'unico neo di quest'opera e non per colpe sue: capita infatti, come in "Divided" che il volume della sua voce sia troppo alto e sovrasti del tutto la parte strumentale, cosa che però non accade altrove come nell'altro singolo "Serpent's Gaze". Interessanti poi le 'variazioni sul tema' imposte dai Nostri, vedasi taluni dissonanti passaggi Progressive Death che mostrano come alto sia il livello tecnico della band, che ricorda non poco in questi frangenti i canadesi Gorguts. C'è magari ancora qualche angolo da smussare e, se si riuscisse, crescere in personalità, ma essendo 'solo' un debut album i margini di miglioramento ci sono tutti. Per ora i Moral Putrefaction si guadagnano con questo debutto eponimo una meritata sufficienza: siamo curiosi di cosa ci regaleranno in futuro.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    25 Mag, 2024
#1 recensione  -  

A due anni dal virulento "Lowest Depths of Misery" tornano a farsi sentire i francesi Morgue, che sempre tramite Godz ov War Productions ci regalano un'altra mezz'ora di lancinante violenza sonora con il loro quinto studio album "Close to Complete Darkness". Musicalmente non ci si è mossi più di tanto da quanto ascoltato in precedenza: il duo occitano continua a muoversi su coordinate Blackened Grindcore con soventi bordate Brutal Death, con influenze che spaziano da Anaal Nathrakh (senza elementi Industrial) a Benighted, fino ai Nasum, al Powerviolence di Nails e Full of Hell, e persino qualcosa di fondo degli Autopsy, messo tutto assieme e centrifugato per rendere la loro proposta la più spietata e debordante possibile. Possiamo notare in questa nuova opera come il consueto assalto sonoro del duo francese sia ogni tanto mitigato - diciamo! - da passaggi che rallentano andando a toccare corde prettamente Death Metal (la parte centrale di "Doorways in Crimson Red" ne è un chiaro esempio), cosa questa che dona sicuramente una maggior varietà ai Morgue rispetto al passato anche recente. Che sia questo un segno di volontà dei Nostri di evolvere le proprie sonorità in qualcosa di più completo solo il tempo ce lo dirà; per ora possiamo dire che la mossa sembra vincente, dato che rispetto alla corsa sfrenata rappresentata da "Lowest Depths of Misery", questo nuovo "Close to Complete Darkness" risveglia maggiormente l'attenzione per seguire i repentini quanto chirurgicamente precisi cambi di registro. Pezzi come il già citato singolo "Doorways in Crimson Red", "Blemish", "Sacrificial Blood" - questi due i migliori del lotto a nostro avviso - e "Sulphurous Fire" si segnalano come tra i migliori scritti dal combo transalpino, che in quest'opera sembra dare una maggior attenzione a melodie dall'afflato sinistro. Diciamo che la gavetta per i Morgue è stata parecchio lunga, ed i Nostri hanno avuto la capacità di saper inserire alla perfezione nuove ramificazioni al proprio sound quando sembrava che avessero raggiunto il loro grado d'evoluzione finale. Per quanto ci riguarda, "Close to Complete Darkness" rappresenta un netto passo avanti per la band francese, un lavoro sicuramente molto più interessante rispetto al discreto diretto predecessore.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    25 Mag, 2024
#1 recensione  -  

A quattro anni da "Viperous" tornano i Vredehammer con "God Slayer", quarto studio album che consolida la collaborazione con Indie Recordings. Rispetto al diretto predecessore (ed il precedente "Violator"), il mastermind Per Valla ha ripreso il comando totale di quello che era nato come suo progetto solista una quindicina d'anni fa, aiutato in questa nuova opera da Nils "Dominator" Fjellström (ex di Dark Funeral e Nordjevel) dietro le pelli. Prendendosi il suo tempo e lavorando sulle musiche totalmente in solitaria, Valla è riuscito con "God Slayer" ha darci in pasto quello che ad oggi è probabilmente il suo lavoro più maturo a nome Vredehammer; se in passato le sonorità si rifacevano soprattutto ad un sanguigno e battagliero Viking Metal (della sfera Death più estrema), con "God Slayer" ritroviamo i Vredehammer con composizioni dalle atmosfere algide, asettiche, atte a dare ai pezzi un'aura di luciferina minaccia. Il Blackened Death dei Nostri punta ancora tutto sull'impatto, ma se in precedenza le sonorità erano più ferali e taglienti - praticamente qui la sola title-track riprende il Black/Death di "Viperous" -, in questa nuova fatica troviamo un approccio più ragionato, con una grande importanza data ai passaggi più groovy e sulfurei, con un riffingwork che sovente richiama la scuola Thrash Metal teutonica; unendo patterns Black e Death Metal di matrice nordica, ci si rende conto, comunque, di come ci siano diverse assonanze tra i Vredehammer di "God Slayer" e gli Vltimas dell'ultimo "Epic": pezzi come "From the Abyss" e "The Joker" , o ancora "Blood of Wolves" e "Death Becomes the New Day", così come la stessa title-track e la conclusiva "Obliterator", fanno spesso venire in mente l'ultima opera del supergruppo guidato da Dave Vincent, con la differenza sostanziale che però Per Valla si muove lungo queste coordinate da tre lustri, motivo per cui i pezzi contenuti in questo suo quarto album risultano sin da subito avere più mordente. Melodie luciferine, una sezione ritmica ricca di groove e capace di repentine accelerazioni, riffoni Thrash (spettacolare nella parte finale di "The Dragons Burn") ed atmosfere algide quanto sulfuree: "God Slayer" è un album che, aiutato da una produzione praticamente perfetta, si lascia ascoltare per tutti i suoi quasi 40 minuti di durata e, soprattutto, ci mostra i Vredehammer in forma come quasi mai sino ad oggi. Consigliatissimo!

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Opinione inserita da Daniele Ogre    24 Mag, 2024
#1 recensione  -  

Dopo un demo nel 2018 ed uno split con i Gutless nel 2020, arrivano a pubblicare il primo full-length i californiani Mortal Wound, band Death Metal di Los Angeles il cui "The Anus of the World" è licenziato dalla 'premiata ditta' Dark Descent Records (CD) e Me Saco un Ojo Records (LP) - con la danese Extremely Rotten Productions ad occuparsi del formato in cassetta -. Questa volta le due etichette solite lavorare insieme hanno puntato sulla più becera ignoranza (in senso buono, s'intende); i Mortal Wound, infatti, si attestano nella scia di quanto possiamo sentire da gruppi come Sanguisugabogg e 200 Stab Wounds: cavernoso growl indecifrabile, riffoni corposi e rocciosi, un onnipresente groove spaccacollo con la sezione ritmica che dona un'abissale profondità agli assalti sonori dell'act californiano. Ed una spiccata passione cinefila, come stanno a dimostrare diversi samples presenti nei pezzi presenti in tracklist, tra le quali si segnala - in "Tunnel Rat" - l'incipit di "Hello Vietnam" di Johnny Wright, che riconoscerete per essere la musica con la quale inizia Full Metal Jacket. Sostanzialmente, non c'è poi così tanto da dire su questo disco: "The Anus of the World" non aggiunge e non toglie nulla a questo genere e queste particolari sonorità; i Mortal Wound trattano la materia con evidente passione e si percepisce come si divertano a scagliare le loro pesanti bordate, con pezzi come "Drug Filled Cadaver" ed il singolo "Born Again Hard" che in sede live potranno causare diversi dolori cervicali. Insomma, se siete fans di quel sound figlio di Mortician, Cannibal Corpse del medio periodo, Broken Hope e - per restare ai giorni nostri - Fulci, "The Anus of the World" risulterà essere del soddisfacente intrattenimento, un album che, per quanto riguarda il sottoscritto, è perfetto da mettere mentre si griglia carne e si trangugia birra.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    24 Mag, 2024
#1 recensione  -  

Si avviano gloriosamente verso i quarant'anni di carriera i Rotting Christ, la leggendaria band greca guidata da sempre dai fratelli Sakis e Themis Tolis, pionieri del Black Metal di scuola ellenica, stile da loro creato, abbandonato nel periodo Gothic, ripreso ed oggi presente solo in parte nelle loro sonorità. Questo perché, presumiamo, per restare sulla cresta dell'onda per quattro decadi ci sia bisogno di sapersi all'occorrenza reinventare, ed i fratelli Tolis hanno trovato quella che sembra essere la soluzione giusta nelle sonorità a cui ci hanno abituati negli ultimi anni, con una fortissima componente epica ed atmosfere quasi rituali, rafforzate dal cantato in uso oggigiorno: Sakis ha ormai quasi del tutto abbandonato le screamin' vocals, puntando su toni baritonali... quando canta, dato che per la maggiore l'istrionico artista ateniese predilige toni declamatori. Con "Προ Χριστού" (in lettere latine "Pro Xristou", tradotto in "Prima di Cristo") i Rotting Christ toccano quota quattordici album, andando a consolidare il loro duraturo rapporto con Season of Mist. Un'opera che ha come tema ricorrente la glorificazione regni e sovrani pagani e la loro potenza prima dell'avvento del cristianesimo (da qui, il titolo). Come detto, la furia Black Metal è per i Nostri ormai un lontano ricordo, e le vere e proprie litanie presenti in questa nuova opera della band greca ne sono l'ennesima conferma dopo le ultime buonissime uscite. "Προ Χριστού" è, inoltre, un lavoro dalle molteplici sfaccettature, che in parte risente anche delle influenze dei lavori solisti di Sakis, o che riprende sonorità dal passato dei Nostri - nella fattispecie dal loro periodo Gothic Metal con "The Farewell" -, o in misura minore anche dalla collaborazione del carismatico mastermind con gli Insomnium - "The Sixth Day" è sostanzialmente un pezzo Melodic Death che sembra scritto in collaborazione con la band finnica -. Ciò che rimane immutato è l'innata classe dei Rotting Christ, che ancora una volta usano nelle loro composizioni diverse lingue, persino l'italiano (indovinate in quale pezzo?) e che si dimostrano nuovamente maestri nel dare ai loro lavori un tono drammatico da (ovviamente) tragedia greca, con "La Lettera del Diavolo" che in tal senso ne raggiunge il picco massimo. "Προ Χριστού" è un album che ha bisogno di diversi ascolti per essere ben assimilato; lo stile odierno dei Rotting Christ è, in effetti, non propriamente adatto ad ogni palato, ma se avete apprezzato ciò che la mitica band ateniese ha prodotto nell'ultima decade, allora una volta raggiunto il giusto mood troverete che questa quattordicesima fatica su lunga distanza possa essere uno dei migliori lavori di quest'ultima parte di carriera dei Nostri: evocativo, teatrale, epico, drammatico, con un Sakis istrione ad invocare storie di un lontano passato.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    23 Mag, 2024
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EP di una ventina di minuti per gli old school deathsters tedeschi Evoked, che con "Immoral Arts" - appena rilasciato da F.D.A. Records - tiene i propri motori caldi, visto che l'ultimo disco "Ravenous Compulsion" risale a ben cinque anni fa. Prendete le sonorità ed i lavori di fine anni '80/inizi '90 di Asphyx, Pestilence, Death mettendo nel conto una produzione con una buona dose vintage, ed ecco gli Evoked. I Nostri affondano le proprie radici in quel periodo storico ed in quel greve quanto roccioso Thrashing Death fatto di accelerazioni repentine, riff taglienti ed una batteria settata sul più classico dei "tupa tupa": niente di nuovo sotto il sole, direte giustamente voi, ma è innegabile come gli Evoked ci sappiano decisamente fare e per quanto non brillino assolutamente per originalità (in "From the Distance" 'citano' apertamente i Death) riescono a nostro avviso ad intrattenere grazie ad un lotto di brani adrenalinici che, ne siamo certi, soprattutto dal vivo faranno la loro porca figura. Cinque pezzi che si lasciano dunque ascoltare senza pretese e tutti di livello sicuramente discreto, con giusto la title-track posta in apertura che si attesta su un gradino superiore. Insomma, puro intrattenimento Death/Thrash che si guadagna facilmente la sufficienza, con la speranza che non si debba attendere molto per un nuovo lavoro su lunga distanza.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    23 Mag, 2024
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Sesto studio album per gli ucraini Hell:On, che nonostante le difficoltà per la notissima situazione delle loro regioni riescono a darci in pasto tramite la loro connazionale Archivist Records quello che è senza dubbio ad oggi il loro miglior lavoro. "Shaman", questo il titolo dell'opera, ci presenta una band che con tanta esperienza alle spalle ha trovato perfettamente la propria dimensione in un Death Metal atmosferico che fonde diverse influenze: le atmosfere tribali ed orientali assurgono qui definitivamente ad un ruolo protagonista, con rimandi immediati dunque ai maestri Nile, ma anche all'epicità di Septicflesh e Behemoth o ancora le arie rituali dei Rotting Christ, il tutto unito da na massiccia dose di personalità che traspare da ognuno degli otto pezzi che compongono la tracklist dell'album. Già dall'opener "What Steppes Dream About" ci ritroviamo con sonorità familiari per chi è avvezzo ascoltare le succitate bands - in particolar modo, a nostro avviso, Behemoth e Septicflesh -, ma anche ci si accorge subito dell'elevato tasso tecnico del quintetto ucraino e dell'ottimo lavoro di composizione ed arrangiamento svolto. "Shaman" è un disco ricco di melodie luciferine ("When the Wild Wind and The Soul of Fire Meet") e bordate sulfuree ("Tearing Winds of Innerself"), un album che nonostante risulti arioso grazie all'onnipresente fondo atmosferico, riesce al contempo a non sminuire l'aura di costante minaccia mefistofelica in agguato ad ogni riff e ad ogni cambio di tempo. Proprio la già citata "Tearing Winds of Innerself" è probabilmente il brano più completo dell'intero lotto, il pezzo in cui tutti gli elementi del sound degli Hell:On vorticano in un maelstrom di violenza brutale ed atmosfere sciamaniche. Al termine di diversi ascolti, possiamo dire che un plauso particolare va fatto alla coppia d'asce Alexey "Hellion" Pasko / Anton Vorozhtsov così come al debordante drummer Oleg "Leshiy" Talanov, mai come in questo disco valore aggiunto per la band di Zaporizhia. Per la band che nel 2019 fu insignita come miglior act Metal ucraino - prima della definitiva esplosione dei 1914 - non solo dunque un altro lavoro degno di nota, ma, come dicevamo ad inizio recensione, quello che è con ogni probabilità il loro miglior disco ad oggi. Dal canto nostro, l'acquisto è caldamente consigliato.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    22 Mag, 2024
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Se c'è una cosa che non manca ai Pathology, è la costanza. Dal 2006 ad oggi sono dodici gli album pubblicati dalla band Brutal Death californiana e la costanza di cui sopra sta anche nel fatto che ad oggi il combo di San Diego non abbia mai pubblicato un brutto album, grazie anche alla loro capacità di restare sempre con le radici ben piantate nelle loro sonorità classiche, ma puntellando ogni nuova release con qualcosa che permetta loro di non ripetersi di volta in volta. Con "The Everlasting Plague" abbiamo visto i Pathology dare maggior ariosità al loro Brutal Death ricco di groove con inserti melodici che andavano ad ampliare sensibilmente il range sonoro; cosa queste ritroviamo anche nel nuovo "Unholy Descent", uscito lo scorso fine settimana su Agonia Records, ma i più attenti troveranno in questa dodicesima fatica su lunga distanza del quartetto delle affilatissime chitarre quasi 'blackeggianti' ("Cult of the Black Triangle", "Summon the Shadows"), sulla scia - per così dire - di quanto possiamo sentire con i nostri Hour of Penance. E' però indubbio che i Pathology danno il meglio quando c'è da pestare e da appesantire la proposta con il loro classico groove ("Whispers of the Djinn"), cose in cui i Nostri sono ancora maestri. "Unholy Descent" ha poi anche altri diversi punti a favore, a partire da una produzione bombastica - ma per nulla plasticosa - e, perché no?, da una durata media dei pezzi sicuramente bassa, cosa che rende fluente l'ascolto dell'intero disco (che non supera i 40 minuti totali, per la cronaca). Ancora una volta, dunque, i Pathology hanno tirato fuori un album che saprà sicuramente soddisfare gli amanti del Brutal Death, specie, oggi, chi predilige una visione più odierna del genere.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    22 Mag, 2024
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Death Metal e Cile, un connubio che si consolida ormai di giorno in giorno; molte sono le bands che sono transitate con i loro lavori sulle nostre pagine ed è oggi la (prima) volta per i Rotten Tomb, band di Iquique con una solida gavetta alle spalle di uscite minori prima del debut album "Visions of a Dismal Fate" (2022 - Crypts of Eternity Productions, ristampato poi nello stesso anno da Nuclear Winter Records) e che è arrivata oggi al rilascio del secondo full-length "The Relief of Death" per la label sempre cilena Death Division Rituals. Non deve stupire se l'act cileno è passato anche 'per le mani' della Nuclear Winter di Anastasis Valtsanis, visto che proprio i Dead Congregation sono tra le influenze primarie dei Nostri insieme ai "soliti" Incantation e Grave Miasma; facile dunque indovinare quali siano le coordinate stilistiche dei Rotten Tomb: un Death Metal estremamente duro e diretto, dalle atmosfere luciferine e dall'afflato sulfureo, in cui non mancano diverse sferzate di matrice Black Metal. I Rotten Tomb non hanno bisogno di passaggi tecnici ad abbellire la propria proposta ed anche le melodie qui presenti sono atte a dare un'aria ancor più sinistra alle composizioni (ascoltate "Psychopathic World"). La band sudamericana percorre dunque un sentiero ampiamente battuto che aprirà il solito, infinito dibattito tra chi ne godrà di un'altra uscita con queste sonorità e chi li vedrà come gli ennesimi cloni degli Incantation; dal canto nostro, siamo della prima parrocchia: "The Relief of Death" è dal nostro punto di vista un album che sì, non brilla sicuramente per originalità, ma che comunque funziona e che presenta quegli stilemi che volenti o nolenti piacciono a chi ascolta questo tipo di musica. Ci sono poi pezzi come la già citata "Psychopathic World", la solenne "In the Last Hours" e "Let the Death Takes Us" che sono perfetti esempi del lavoro più che soddisfacente in sede di composizione ed esecuzione dei Nostri, soprattutto per quanto concerne l'affilatissimo riffingwork. "The Relief of Death" dei Rotten Tomb è per noi promosso; certo, di queste specifiche sonorità abbiamo sicuramente sentito anche di meglio in questi ultimi periodi, ma ciò non toglie che questa seconda release su lunga distanza della band cilena è sicuramente più che soddisfacente.

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