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Opinione scritta da Daniele Ogre

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Opinione inserita da Daniele Ogre    27 Novembre, 2018
Ultimo aggiornamento: 27 Novembre, 2018
#1 recensione  -  

Beh dai, in fondo quella dei Coffin Birth è un po' la storia di quasi tutti i gruppi: un drappello di amici che si riunisce e comincia a suonare assieme. La differenza, alla fine, è giusto una: che quegli amici di cui sopra rispondono ai nomi di Frank Calleja (Beheaded), Giulio Moschini (Hour of Penance), Francesco Paoli (Fleshgod Apocalypse, ex-Hour of Penance), Marco Mastrobuono (Hour of Penance, Buffalo Grillz) e Davide Billia (Hour of Penance, Antropofagus, Beheaded). Insomma, un bel mix di gente con quel pochino di esperienza, non trovate? E tutto questo è nato da un pedale! Ossia quando in studio Giulio e Marco stavano sperimentando suoni con un Boss HM2 degli anni '80, solo che quello che usciva non andava bene per gli Hour of Penance; cosa fare allora se non chiamare a raccolta un paio d'amici, per l'appunto, e tirare fuori un progetto ex novo con un sound che potesse andare bene con i suoni dell'HM2? Detto fatto, ecco i Coffin Birth, supergruppo italo-maltese che debutta con questo "The Serpent Insignia", edito da Narcotica Publishing e Time to Kill Records.

E cosa è uscito fuori dall'unione di questi cinque loschi figuri? Dopo lunghe elucubrazioni ed un'attenta analisi l'unica risposta che pare giusta è: UN CAZZO DI DISCO CON I CONTROCOGLIONI! Se a legger la formazione ci si aspetta un assalto Brutal, l'ascolto lascia invece abbagliati per quanto diversa è invece la proposta dei Coffin Birth: un Death'n'Roll grezzo, ignorante all'inverosimile, rude e roccioso. I nostri hanno preso l'old school Swedish Death, l'hanno ulteriormente caricato di una fortissima attitudine Rock'n'Roll/Punk e, come il peggior commando di infimi mercenari, sono partiti all'attacco con dieci pezzi che risulteranno poi essere un'imperterrita scarica di mitra. Le chitarre di Giulio Moschini e Francesco Paoli sono affilate al massimo, taglienti quanto un Microtech Jagdkommando, coadiuvate da una sezione ritmica martellante e distruttiva - in fondo la sintonia Mastrobuono/Billia viene dagli anni assieme negli Hour of Penance -, e su tutto le disumane urla di Calleja, che mette da parte per una volta il suo growl in favore di uno stile più vicino a quello della vecchia scuola Death svedese.
Vi basti sapere che bastano i primissimi secondi dell'opening track "Throne of Skulls" per capire a cosa ci troveremo di fronte e che i Coffin Birth sono qua per non fare prigionieri. E per poco più di mezz'ora il quintetto scarica senza soluzione di continuità un'ondata di odio e violenza smisurati, offrendoci delle vere e proprie bordate come "Casket Ritual", "Christ Infection Jesus Disease" o "The 13th Apostle", quello che è stato poi il primo singolo presentato al momento dell'annuncio dell'album. E certo non sono da meno le varie "The Red Sky Season", la title-track "The Serpent Insignia" o l'anthem "From the Dead to the Dead".

Credetemi che solo ascoltandolo vi potrete rendere conto di quanto sia esaltante "The Serpent Insignia". Qualcuno potrebbe anche dire che in fondo i Coffin Birth semplicemente suonano un Death'n'Roll di matrice svedese, quindi potrebbero dissentire... sbagliando. Il punto è che sì, quello che suonano i Coffin Birth ha una fortissima componente Swedish, ma è anche vero che con "The Serpent Insignia" riescono a dare una lezione su come si suona questo genere persino ai grandi gruppi svedesi. E' da quando fu annunciato che attendevo con estrema ansia l'uscita di quest'album e non mi sono mai ritrovato così soddisfatto come ora dopo l'ascolto. Un disco che non è che vi consiglio: se ascoltate Death è d'obbligo che lo compriate, senza tante storie; voi dovrete premere solo il tasto PLAY, poi ci penseranno loro a prendervi ininterrottamente a cazzottoni in faccia.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    27 Novembre, 2018
Ultimo aggiornamento: 27 Novembre, 2018
#1 recensione  -  

Per chi ascolta Death Metal quello dei Master e del mastermind Paul Speckmann sono nomi che vengono fatti con una certa reverenza. Attivi prima a corrente alterna durante gli 80's, per poi partire stabilmente nel 1990, lo zio Paul ha sempre portato avanti imperterrito il proprio discorso con i Master, in barba a tutti i trend che il Metal ha passato nel corso degli anni, in barba alle innovazioni del genere, soprattutto negli ultimi anni. Una barba - e che barba! - la sua che è ormai un segno che contraddistingue i Master così come il loro sound: quel Death metal dei 90's che, per l'appunto, nel corso degli anni non ha subito contaminazioni, mai. Ed è questa cosa che accomuna i Master ad altri gruppi della stessa foggia come - due nomi a caso - Obituary e Jungle Rot, con tutti i pro ed i contro del caso, dipenda qual è il proprio punto di vista personale. E dal punto di vista di chi vi scrive, se non mi lamento degli Obituary, perché mai dovrei farlo per i Master? "Vindictive Miscreant", quattordicesimo album della band statunitense ora trapiantata in Repubblica Ceca, primo per la sempre più prolifica label indiana Transcending Obscurity Records e che segue di due anni "An Epiphany of Hate", è un album in cui troviamo tutto quello che ci aspetteremmo da un disco dei Master: dai riff di forte matrice Thrash/Death, al suono 'chiatto' del basso di mr. Speckmann - così come il suo vocione sguaiato - passando per una batteria sempre in tiro. Un album il cui ascolto proseguo fluido, anche se forse un po' troppo lineare, mancando quel guizzo in più, complice anche una formazione stabile ormai da 15 anni. Senza contare che gli stessi Speckmann, Nejezchleba e Pradlovský sono la line up dei riformati Death Strike.
E' un dato di fatto che per i Master è impossibile fare un disco brutto, nonostante ci sia qualcuno che potrebbe accusarli di fare sempre le stesse cose. Ma appunto, come per gli Obituary, ai die-hard fans di questa leggendaria band ceco-statunitense non può fregare di meno: è esattamente ciò che si chiede loro.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    27 Novembre, 2018
Ultimo aggiornamento: 27 Novembre, 2018
#1 recensione  -  

Avevamo lasciato i tedeschi Ancst ad inizio anno con "Ghosts of the Timeless Void", buonissimo album di Black/Crust che aveva segnato il debutto della band teutonica su Lifeforce Records. E a quanto pare è stato un 2018 prolifico per Ancst, visto che sono tornati già a luglio con un album uscito indipendente, "Celestial", ed ora che s'è fatto novembre riecco Tom Schmidt alla carica con un nuovo EP targato Lifeforce,intitolato "Abolitionist".

Quella che abbiamo per le mani è la versione CD dell'ultimo lavoro del good ol' Tom, con quindi tre pezzi in più rispetto all'uscita in vinile 12". Se già di per sé è impossibile aspettarsi cambi di sorta da questo progetto berlinese, figurarsi se cambia qualcosa con tre produzioni in un anno! Insomma, quello che possiamo ascoltare in"Abolitionist" è la formula classica degli Ancst, seguendo quella che nel corso degli anni è stata la loro evoluzione più che naturale: una furia Hardcore/Crust con forti influenze Black Metal, quest'ultime che ci permettono di accostare gli Ancst ai loro connazionali Der Weg Einer Freiheit (mentre, più in generale, accosterei questa band ad Agrimonia e a certe soluzioni più estreme dei Downfall of Gaia).
Sono sette dunque i brani che compongono "Abolitionist" e manco a dirlo sono sette fucilate. Senza il benché minimo compromesso, senza nemmeno l'accenno di un ammorbidimento del sound, Tom attacca dal primo all'ultimo secondo con una serie imperitura di riff su riff - questi sì, soprattutto di matrice Black - accompagnati da una sezione ritmica le cui derive Crust sono palesi immediatamente, per quanto non manchino fraseggi marcatamente ed esclusivamente Black, come nella martellante "Call of the Endless Road".

"Abolitionist" è un EP più che dignitoso, ma a cui manca, ad un ascolto più attento, quel tiro feroce che aveva "Ghosts of the Timeless Void"; e non è un caso se questo EP è formato da brani che non hanno trovato spazio in quel lavoro. Ma in ogni caso, gli Ancst non deludono: per i fans di queste sonorità e, soprattutto, di questa band teutonica, "Abolitionist" è un lavoro che potrà lasciare senz'altro contenti.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    26 Novembre, 2018
#1 recensione  -  

A tre anni di distanza da "We Are the Titan's Rising Ashes", tornano sempre sotto Noizr Productions gli ucraini Sectorial con il loor terzo album, "VYR". La band est europea ci propone quello che è il loro trademark: un Blackened Death che riesce ad essere una commistura tra il Black/Grindcore degli Anaal Nathrakh, le atmosfere degli Agalloch, la ferocia degli americani Wolves in the Throne Room, uniti a tanti elementi folkloristici, la cui esecuzione è affidata al vocalist Ivan ‘Burz’ Kozakevych, che, per l'appunto, si occupa anche degli strumenti Folk usati dai nostri.

E' un buon lavoro, tutto sommato, quello dei Sectorial; soprattutto quando i nostri spingono sull'acceleratore riescono ad avere un gran bel tiro e ad essere trascinanti: ascoltando pezzi come "Exodus of the Winter" e "Sea vs Stone" non mancheranno di certo paragoni con i Behemoth, per certi versi, ma a parte questo i Sectorial non sono band che si lancia semplicemente all'attacco sparando blast beat a manetta senza soluzione di continuità; importantissimi per questo sono gli elementi Folk, che fanno capolino nei momenti meno sparati, in cui anche le atmosfere sono importanti a dare un maggior spessore a mid-tempos spaccacollo. Tornando poi per un attimo a parlare di Kozakevych, sembra azzeccatissimo il suo stile vocale: niente growl, nada scream, ma una voce roca e 'urlata' che ben si integra con il substrato musicale della componente strumentista; come alla fine sembra ben pensata la scelta del cantato in ucraino, visto che si perderà magari qualcosa in comprensione dei testi, ma è perfetto per sposarsi con il taglio più Folk dei nostri. Certo, non è tutto oro quel che luccica: la produzione di "VYR" non è sempre ottimale purtroppo. Partendo dal suolo del rullante molto, ma davvero molto brutto e fin troppo piatto: spesso si discosta fin troppo dal buon suono, invece, della cassa ed è qualcosa che si nota soprattutto nei terremotanti blast beats presenti nell'album che, ahimè, alla lunga diventano quasi fastidiosi. Ed altro piccolo neo, infine, è l'eccessiva durata: un'ora di musica può essere talvolta stancante e difatti può succedere di arrivare verso gli ultimi pezzi un po' "appesantiti", nonostante ci sia anche il bellissimo intermezzo strumentale "Ordinary Talk".

"VYR" è comunque un album che merita ampiamente la promozione, a cui, alla fine dei giochi, diamo quel mezzo punticino in meno giusto per quanto spiegato negli ultimi righi qui sopra. Ma nonostante ciò non possiamo assolutamente dire che quello dei Sectorial è un brutto disco; magari un po' "pesante" alla lunga, come dicevamo, ma brutto assolutamente no. Se siete addentro queste sonorità, il mio consiglio è di dare una chance al quartetto di Kiev: potreste rimanerne piacevolmente sorpresi.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    24 Novembre, 2018
#1 recensione  -  

Non inganni la chitarra acustica die primi secondi di "Beyond Flesh": è solo un attimo di quite prima della tempesta che risulta essere "Through Wilderness", brutale debut album dei Mortuous, death metallers americani che vedono tra le proprie fila Mike Beams (ex-Exhumed, ex-Repulsion) in qualità di cantante/chitarrista. Beams s'è affiancato quasi da subito, nel 2010, al fondatore Colin Tarvin, mentre più tardi si sono aggiunti il bassista Clint Roach ed il drummer Chad Gailey.

Se amate le marce sonorità di gruppi come Incantation, Rottrevore, Autopsy o gli stessi Exhumed, quello che possiamo sentire in "Through Wilderness" potrà senz'altro piacervi. Death Metal novantiano, pesante, putrido, brutale, con quel flavour Black che ha fatto la fortuna in primis degli Incantation unito al Death/Grind degli Exhumed, senza che però i Mortuous non si lascino andare a 'giri' verso altri lidi, come ad esempio nella pesantissima "The Dead Yet Dream", ce stilisticamente può facilmente ricordare gli Autopsy: non a caso proprio in questo brano sono presenti come ospiti Chris Reifert alla voce e Danny Coralles, autore del solo. Reifert che si ripresenta anche nella successiva "Anguish and Insanity", pezzo che si prende il titolo di highlight del disco: è in questo brano che possiamo sentire i Mortuous al pieno della loro forma. I due Autopsy non sono però gli unici ospiti: ad eseguire il solo nella title-track troviamo Derrel Houdashelt, ex compagno d'arme di Beams negli Exhumed, mentre in "Screaming Headless" troviamo Teresa Wallace dei Dreaming Dead con una parte di flauto (!!!), con un risultato sorprendentemente positivo.

Dalle cavernose vocals di Mike Beams alle taglienti chitarre dello stesso Bemas e di Colin Tarvin, passando per una sezione ritmica incessantemente martellante, "Through Wilderness" dei Mortuous è un disco che farà stampare un bel sorriso soddisfatto ai fans delle varie bands citate più su; segno che anche col passare del tempo, lo US Death dei 90's continua a non passare mai di moda.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    24 Novembre, 2018
#1 recensione  -  

Dispensatori di brutalità dalla prima metà degli anni '90, i capitolini Corpsefucking Art sono praticamente da sempre uno dei nomi più in vista del sottobosco Death nazionale, grazie al loro stile sempre diretto e senza il benché minimo compromesso. Sono passati ben 15 anni da quel putrido gioiellino che fu "Splatter Deluxe", il primo album dei nostri, ed oggi la splatter machine romana esce sul mercato con "Splatterphobia", quinto album della loro carriera, primo da quando si sono accasati in Comatose Music.

Della formazione di "Quel Cimitero Accanto alla Villa" del 2014 sono rimasti il solo membro fondatore Andrea Cipolla alla chitarra e Marco De Ritis al basso, mentre subito dopo l'uscita di quell'album entrarono in formazione Mario Di Giambattista (Devangelic) alla chitarra ed il folle mascherato armato di machete Mr. Daisy (Francesco "Basthard" dei Southern Drinkstruction) alla voce, mentre ha lasciato la band prima delle registrazioni di quest'album Eddie Vagenius (Southern Drinkstruction), il cui posto è stato preso, almeno in "Splatterphobia" da Marco Coghe dei Devangelic.
Saranno cambiati molti musicisti nei CFA nel corso degli anni, ma altro di sicuro non è mai mutato: dallo stile diretto e sfrontato, figlio di capisaldi del Brutal come Cannibal Corpse e Mortician, così come la macabra ironia e l'irriverenza che contraddistingue le lyrics dei nostri ("Satanic Barbecue", "Robocorpse II", "Devoured by Sauce", "Tomator"...). Ma se con le tematiche a cavallo tra splatter ed ironia i CFA si divertono, è sul piano musicale che fanno sul serio: l'ingresso soprattutto di un musicista esperto nel genere come Mario Di Giambattista - che oltre che nei Devangelic figura anche in Vulvectomy e Stench of Dismemberement, oltre ad aver fatto parte di altri gruppi della stessa risma - ha giovato non poco alla band capitolina, visto che nei quattro anni di sua militanza in formazione ha sviluppato un'ottima intesa con Andrea Cipolla; non stupisce dunque che proprio il lavoro delle due chitarre sia probabilmente il fulcro principale di "Splatterphobia", con il riffingwork delle due asce che rimane lontano da qualsivoglia innovazione, sparando invece una raffica di riff taglienti e brutali che guidano l'attacco a colpi di voce e machete di Mr. Daisy e la massacrante sezione ritmica della coppia De Ritis/Coghe. Ed a proposito di Mr. Daisy, buonissima la prova di Basthard nei panni di questo sinistro figuro, avendo portato nei CFA il suo stile vocale fatto di un growl profondo ma comprensibile, lontano dalle fognose guttural vocals del passato.

Per gli amanti del Brutal Death più classico, "Splatterphobia" è un disco che non sfigurerebbe per nulla nella propria collezione. I Corpsefucking Art, al netto dei tanti problemi di line up avuti in questi 20 anni e passa di carriera si sono sempre contraddistinti per la bontà delle loro produzioni e quest'ultimo loro lavoro non fa eccezione.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    23 Novembre, 2018
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Nascono sostanzialmente dalle ceneri dei partenopei Nameless Crime i Madvice, band pisano-napoletana formatasi dall'incontro di Maddalena Bellini e Raffaele Lanzuise (ex chitarrista ed ex bassista appunto dei Nameless Crime) con il cantante toscano Asator, ex cantante degli Str8; a loro si unirà poi il drummer Marco Moretti. Con "Everything Comes to an End" i Madvice effettuano il loro debutto discografico sotto l'egida della romana Time to Kill Records: prodotto dalla stessa Bellini agli Zenith Studio di Lucca, "Everything..." è formato da nove brani - tra i quali troviamo la cover di "Everybody Wants to Rule the World" dei Tears for Fears - di Melodic Death in cui non manca un certo gusto per fraseggi groove.

Dai primi secondi dell'opening track "Vengeance" ci possiamo rendere conto come ai Madvice piacciano poco gli At the Gates. Tanto che è proprio la band di "Tompa" Lindberg e soci ad essere l'influenza principale che possiamo riscontrare nel sound dei nostri: lo stesso incipit di "Vengeance" in un certo qual modo richiama un po' quello di "Blinded by Fear". Ma come detto, quello che propongono i Madvice non è un semplice lavoro MeloDeath à la At the Gates: certi riff panteriani spostano infatti il focus verso una componente groove tipica dei The Haunted. Il bello di quest'opera prima dei Madvice è che possiamo trovare un po' di tutto: ci sono i brani più diretti e tipicamente Swedish come "Nothingness" (mio pezzo preferito dell'album) e "Vengeance", quelli in cui i nostri mostrano anche una notevole tecnica individuale (la title-track e "Rebirth"), ma anche i pezzi catchy che possono avere una "presa commerciale", come la già citata cover di Tears for Fears - ottimamente eseguita, tra l'altro... in caso la vogliate ascoltare la trovate sul Tubo - o la quarta traccia "The Gate", con il suo refrain con voce femminile - siano ringraziati gli dei, non una solita, odiosissima voce lirica -. Un piccolo appunto finale sulla voce di Asator: ottime le sue scream vocals, ma devo ammettere con con il growl riesce a fare molto, molto meglio... ed anzi peccato che le parti così siano ben poche.

Un debutto insomma buonissimo per i Madvice: la band partenopeo-toscana appare da subito lanciata tra le più interessanti nuove realtà della sfera Melodic Death nostrana, complice probabilmente - anzi, direi proprio 'certamente' - il fatto che i musicisti coinvolti non sono propriamente dei novellini: l'esperienza alle volte è importante ed "Everything Comes to an End" è qui a dimostrarlo. Promossi ad occhi chiusi.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    23 Novembre, 2018
Ultimo aggiornamento: 24 Novembre, 2018
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Nati nel 2007 come progetto solista di Alessandro Seghene, i sardi Apneica sono poi, nel corso del tempo, diventati una band vera e propria con una formazione che, dopo vari cambi compresi gli ultimi recentissimi, consta in ben sette elementi; tra le novità, oltre al nuovo drummer Giuseppe Fancellu, troviamo anche la voce femminile Piera Demurtas e l'artista folk Andrea Pisu, che si occupa delle launeddas, un flauto tipico delle terre sarde. Con all'attivo già due album ed un EP, con "Tra Rocce e Cortecce", edito dalla russa GS Production, la band sarda arriva alla pubblicazione del secondo EP: quasi mezz'ora che per comodità abbiamo definito Doom/Death, ma in cui c'è molto di più.

Il sound degli Apneica risulta essere estremamente vario, trovando all'interno di questo lavoro passaggi che spostano il tiro verso lo Sludge o il Post-Metal, senza dimenticare i fraseggi folkloristici opera delle launeddas di Pisu. Ciò che però si nota subito è come i nostri sappiano giocare molto bene con le atmosfere, ora più cupe, plumbee, ricordando gli Evoken più ispirati, ora gotiche e decadenti - e qui il paragone va fatto con My Dying Bride e Mourning Beloveth -, soprattutto nella bellissima seconda traccia "Occhi Celati", vuoi anche per l'ottimo lavoro vocale della Demurtas, angelica, eterea al confronto del profondo growl di Ignazio Simula. Altro gran punto a favore è il gusto per la melodia che possiamo ritrovare all'interno delle composizioni, specie nella parte centrale dell'album con la già citata "Occhi Celati" e "Dove Cresceva la Foresta", che non sfigurerebbero al confronto con un pezzo qualsiasi di uno dei grandi gruppi Death/Doom svedesi. E continuando con i pro di "Tra Rocce e Cortecce" - anche perché non vi è alcun 'contro' in questo lavoro -, altra menzione al merito va al cantato in italiano, scelta azzardata ma che, grazie ad un ottimo lavoro di arrangiamento, risulta estremamente azzeccata.

Come ho fatto in tutti questi anni a perdermi una band come gli Apneica resterà per me un mistero. "Tra Rocce e Cortecce" è però decisamente un buon modo per conoscere una band in gamba, che ha ben chiaro quale sia il proprio percorso e che, di questo sono sicuro, non ha assolutamente nulla da invidiare a gruppi del genere ben più blasonati. Consiglio mio: non lasciateveli scappare.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    22 Novembre, 2018
#1 recensione  -  

Secondo album per i grindcorers olandesi Suffering Quota, band che con questo "Life in Disgust" dimostra di non accettare il benché minimo compromesso. Dodici tracce per un totale di una ventina di minuti di sana violenza Grindcore/Crust, un assalto frontale votato interamente all'attitudine - elemento che i nostri hanno a pacchi -. Per venti minuti i Suffering Quota martellano senza pietà, tra blast beat a velocità inumane e 'ritagli' tra il Crust e l'Hardcore, un mix che ricorda fortemente i 'grandi vecchi' Napalm Death e Rotten Sound ma anche - e soprattutto a mio avviso - i Cripple Bastards dei primi lavori. Con questi ultimi i Suffering Quota dimostrano di avere in comune la ferocia di esecuzione, cosa che possiamo sentire durante l'arco di tutto il disco, ma che trova il proprio zenit in pezzi come "Hate" e "Inferiority Complex", così come nei brani dalla durata più breve come "Cognitive Dissonance" e soprattutto "Thought-Terminating Cliche I", 35 secondi di violenza allo stato brado. C' ben poco d'altro da aggiungere: la rabbiosa voce di Gerald Timmermans è ottimamente supportata tanto dall'arcigna sezione ritmica dell'accoppiata Martin Kah (batteria) / Stiff Marron (basso), quanto dalle chitarre di René Beukers, MVP a mio avviso di questo album grazie ad un lavoro chitarristico che riesce a dare una maggiore varietà alle composizioni. "Life in Disgust" è di sicuro un lavoro che piacerà particolarmente agli amanti di queste sonorità a cavallo tra il Grindcore più diretto ed il Crust più nichilista.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    22 Novembre, 2018
Ultimo aggiornamento: 22 Novembre, 2018
#1 recensione  -  

Quando nel 2017 gli Hail of Bullets hanno chiuso i battenti non sono stati pochi quelli che si sono sentiti orfani della guerresca Death/Doom band olandese. Ma quelle stesse persone - e ci sono anche io tra queste, diciamolo - non sapevano che gli eredi naturali degli Hail of Bullets erano già in circolazione: si tratta dei 1914, band ucraina fondata nel 2014, centesimo anniversario dall'inizio della Grande Guerra. Ed è proprio la Prima Guerra Mondiale il tema cardine della band ucraina, che dopo un grandioso primo exploit con "Eschatology of War", torna dopo tre anni con un mastodontico secondo album, "The Blind Leading the Blind", edito da Arcahic Sound.

La prima cosa da dire è che "The Blind..." è un disco estremamente curato, sia nella propria forma che in tutto il contorno: basti pensare che l'album è uscito l'11 novembre 2018, esattamente cento anni dopo la stipula dell'armistizio che mise fine alla Grande Guerra. Così come è molto curato dal punto di vista storiografico: quello che è da mettere in chiaro è che i 1914 non sono una band politicamente schierata, ma un ensamble di cinque ragazzi appassionati di Storia, nella fattispecie del periodo della Prima Guerra Mondiale. La conoscenza e la ricerca storiografica dei nostri fa sì che su questo punto i 1914 siano pressoché perfetti, senza contare che è ciò che li accomuna maggiormente ai già citati Hail of Bullets - per quanto le rispettive tematiche differiscano tra i due grandi conflitti -. "The Blind..." è anche un disco curato nei minimi dettagli, in cui anche l'intro - "War In" - e l'outro - "War Out" - hanno la loro ragione d'essere, essendo state usate delle azzeccatissime canzonette dell'epoca ad aprire e chiudere questo capolavoro, così come l'intermezzo "Hanging on the Barbed Wire", canzone ribelle inglese del 1300 cantata dai soldati della Regina durante il Conflitto; o ancora come il rumore dei cingoli di carrarmato segnano "A7V Mephisto", brano il cui titolo è legato al tank dell'esercito tedesco. "A7V Mephisto" è anche il brano in cui i 1914 si mantengono maggiormente sulla componente Doom del loro sound, grazie ad un pezzo il cui lento incedere sembra dare una chiara immagina del distruttivo incedere del mastodontico carrarmato tedesco. Ironia vuole che sia "Passchenhell" il pezzo un po' più debole del disco, data la presenza come ospite di mr. Dave Ingram, un signore la cui voce è legata a nomi quali Bolt Thrower e Benediction; ma a parte questo leggerissimo colpo a vuoto, abbiamo per il resto una serie continua di gemme una dietro l'altra, a partire dall'opening track "Arrival. The Meuse-Argonne", biglietto da visita perfetto di "The Blind...": una furia inconsulta che fotografa gli orrori della Grande Guerra, ma anche le tattiche militari dei fronti in campo; una furia che ritroviamo anche altri tre splendidi capitoli di quest'opera, ossia "Stoßtrupp", "C'est mon Dernier Pigeon" e "High Wood. 75 Acres of Hell", che è poi la canzone dove meglio che altrove possiamo trovare quel mix di spietata velocità Death Metal e rallentamenti spezzacollo. Non si possono poi non citare la tellurica cover dei The Exploited, "Beat the Bastards", in cui i 1914 adattano il loro Blackened Death/Doom al Punk/Hardcore della band scozzese, e l'anthem epico della conclusiva "The Hunderd Days Offensive", pezzo di dieci minuti che chiude - prima dell'outro, ovvio - perfettamente un album spettacolare in ogni suo minimo particolare.

Personalmente, credo sia un bene che i 1914 abbiano abbandonato le influenze Sludge e l'acida psichedelia Progressive del primo album, lanciandosi a testa bassa in un genere che risulta essere perfetto per le tematiche da loro affrontate. Parlavamo prima dell'accuratezza della band ucraina: per chiudere il cerchio andate a vedere nelle info i nomi scelti dai cinque musicisti di Leopoli e ditemi se anche quella non è accuratezza storica! Tornando invece sul piano musicale, "The Blind..." è a mani basse una delle migliori uscite Death/Doom dell'anno, oltre ad essere una delle migliori degli ultimi anni in generale. Tanto che ho la netta sensazione che finirà nella mia personale Top10 di fine anno per questo sito.

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