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Opinione scritta da Sonia Giomarelli

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Opinione inserita da Sonia Giomarelli    18 Aprile, 2020
Ultimo aggiornamento: 18 Aprile, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Trattare i Katatonia in sede di recensione come una delle tante band doom presenti sulla scena risulta alquanto irrispettoso e non rende giustizia a quella che è la vera anima di una band originalissima, la quale negli anni si è fatta valere, grazie ad un modo di comporre a dir poco stupefacente.
I Katatonia sono e rimangono la quintessenza di un modo di fare Metal che punta molto all'atmosfera e ai testi delle canzoni, le quali trattano temi importanti come il lato più oscuro della nostra esistenza, le nostre paure e sofferenze.
Il tutto in un contesto sonoro che, a partire da "Dead End Kings" (2012) e da "The Fall Of Hearts" (2016) ha toccato sonorità vicine all'elettronica e al progressive, attraverso una maniacale ricerca sonora. Avendo di fatto dato vita ad un genere oltre venti anni fa, la band svedese non ha sentito il peso di questo fardello e si è mossa su circuiti propri, mantenendo sempre un livello di qualità decisamente alto.
Dopo l'acclamato e il già sopra citato "The Fall Of Hearts", la band di Renske/Nystrom ritorna sulle scene con questo attesissimo "City Burials", in uscita il 24 aprile sempre per la Peaceville Records. Introdotto da un'iconica copertina realizzata da Lasse Hoile (il quale ha collaborato con la band anche in "Dead End Kings" e "City Burials"), si compone di undici tracks di cui due, "Behind The Blood e "Laquer", sono servite da singoli promozionali per l'uscita del disco.

Cosa offre "City...."? Innanzitutto un sound pregno di malinconia, coerente con il passato musicale della prima produzione della band. I due singoli "Behind The Blood" e "Lacquer", presentati in anteprima, ci mostrano due anime sonore dello stesso disco, una più Metal e l'altra più introspettiva; su queste basi si strutturano gli altri pezzi del lotto. Dall'iniziale "Heart Set To Divide", caratterizzata da innesti quasi doom e stacchi più movimentati, a "Vanishers", ballata sognante in cui fa capolino nel ritornello la voce femminile di Anni Bernhard (Full Of Keys). La ritmica dispari di "City Of Glaciers", uno dei migliori pezzi del disco, scandisce il timbro inconfondibile di Jonas Renske ed ascoltando il brano non possono non venire in mente gli A Perfect Circle. Con "Flicker" e "Neon Epitaph" i nostri abbracciano il sound del post/prog metal senza esagerare. Il lavoro in fase di arrangiamento ha fatto sì che si percepisse un senso di pace nei brani, i quali, carichi di quella vena sperimentale, non peccano di grandiosità. Tutto è ben bilanciato nel proprio contesto, dalle linee vocali di Renske, fino al lavoro di chitarra del duo Nystrom/Orjensson. Si va alla ricerca di soluzioni semplici ma di impatto, sulla scia del miglior Maynard James Keenan, ma in puro stile Katatonia.

Quante bands possono permettersi di fare ciò che vogliono, pur rimanendo su alti livelli di qualità? Poche. Il Metal ha ancora bisogno di realtà come i Katatonia e questo "City Burials" rappresenta una ventata di freschezza in un genere ormai saturo, pieno di cloni e povero di pionieri. "City..." è un lavoro intimista, personale, il quale strizza l'occhio ad un passato ormai remoto della band e si affaccia a questo ventennio con buoni propositi. "City Burials" rappresenta la piena maturità di un percorso stilistico intrapreso nel 2012 con "Dead End Kings" prima e "The Fall Of Hearts" poi.
L'ascolto dovrebbe essere obbligatorio a tutti gli amanti della buona musica e di chi crede che il Metal non sia solo urla e corna in su, ma un qualcosa di molto più vero che appartiene a noi mortali.

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Opinione inserita da Sonia Giomarelli    12 Aprile, 2020
Ultimo aggiornamento: 13 Aprile, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

La California, per come la conoscono gli appassionati di Heavy Metal, ha dato i natali ad uno dei movimenti musicali più importanti della storia di questo genere: il Thrash. Mischiando le basi del Thrash con una sana dote di Death Tecnico che tanto strizza l'occhio alla scuola della Florida, fanno capolino proprio dalla West Coast californiana gli Hemotoxin, una band giovane attiva da dieci anni sulla scena e originaria di Pittsburgh che fa le cose sul serio. Sono essenzialmente un trio che questo decennio si è fatto conoscere con tre dischi ufficiali, tra cui quest'ultimo "Restructure Of The Molded Mind" uscito lo scorso 16 marzo.

La formula sonora di questi americani è dunque un Thrash/Death progressivo e tecnico influenzato palesemente da mostri sacri come Atheist, Death, ma anche Watchtower e Cynic.

ROTMM è un lavoro maturo rispetto ai precedenti e ci presenta una band capace di sfornare pezzi validissimi come le iniziali "Nihilistic Principle" e "Acrimony", caratterizzate da passaggi puramente tecnici e altri ben più sulla classica tradizione del Death. "Legions Of Alienation" è un brano fiero della propria violenza sonora ed "Execution" viene introdotto da un interessante stacco melodico che va poi ad esplodere in un Death potentissimo, così come tutto il resto del disco che è un'esplosione dinamitarda di refrain tecnici, ma sempre molto ragionati e una struttura musicale che comunque ha una sua logica. Gli Hemotoxin ribadiscono il loro amore per certe sonorità e lo fanno attraverso un disco che non brilla per eccellenza, ma che comunque centra il bersaglio avvicinandosi ad essere un disco da avere e non solo per i puri appassionati del genere.

"Restructure Of The Molded Mind" brilla per un approccio equilibrato con pezzi che mirano all'irruenza, ma lo fanno con classe, bilanciati quanto basta. Ovviamente non inventato nulla di quanto è già stato scritto nel genere, ma regalano all'appassionato ciò di cui ha bisogno: brutalità, violenza e tecnica.
Da non sottovalutare!

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Opinione inserita da Sonia Giomarelli    08 Aprile, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

La Grecia in questi ultimi anni si è fatta notare nell'Underground per aver dato i natali a band importanti e decisamente molto validi. Per non citare i Firewind guidati dal mastermind Gus G., la penisola ellenica vanta nomi come Rotting Christ, Septicflesh, Suicidal Angels etc..
Il sottobosco della scena greca pullula di realtà più o meno interessanti che in questi ultimi tempi hanno portato avanti la loro attività nonostante i mille problemi di un paese che a livello economico ha accusato molto ma che forse sul piano culturale/musicale e più specificatamente quello Metal, ha molto da dire.
Greci sono gli Hand Of Fate, originari di Salonicco, la seconda città più importante e numerosa del paese dopo Atene, famoso centro artistico e sede di alcuni patrimoni dell'Unesco. La band nasce nel 2014 ed esordisce su disco con "Messengers Of Hope", uscito nell'aprile del 2017 e che rappresenta al meglio la proposta musicale di questa band greca che pare essere cresciuta a pane e Symphonic Metal con punte di riguardo verso certo Melodic Rock anni '80.
Se ascoltiamo i pezzi che vanno ad esempio a comporre la prima metà del platter, ci accorgiamo di come la struttura musicale sia caratterizzata da stacchi prettamente sinfonici ("Enchanted") ad altri ancora più cadenzati (title-track, "The Gift".
La particolarità della musica di questi ragazzi è che non abbiamo di fronte l'ennesima band di Metal Sinfonico, bensì un qualcosa di molto particolare. Gli Hand Of Fate cercano in tutti i modi - e ci riescono molto bene - a non assomigliare ad altri gruppi ma tentano un approccio più introspettivo figlio di una certa tradizione legata al loro paese di origine, la Grecia, la quale a differenza di altri paesi come ad esempio la Finlandia, patria dei Nightwish, band che forse ha ispirato non poco il sound degli HOF, ha un approccio più "easy" e meno oscuro ma sempre atmosferico. Ciò dunque va ad influenzare la musica stessa che risulta veramente valida nel suo complesso.

"MOH" è un lavoro di caratura ottima che magari non potrà piacere a tutti, ma che convince a pieno per inventiva e passione, elementi che non mancano assolutamente a questa band. Da tenere d'occhio!

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Opinione inserita da Sonia Giomarelli    02 Aprile, 2020
Ultimo aggiornamento: 02 Aprile, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Per gli appassionati di Hard Rock gli Shakra sono e rimangono una band relegata ai piani inferiori, seppur abbiano un talento innato. Cugini minori di Gotthard e Krokus, la band di Mark Fox condivide con i primi il paese di provenienza, e cioè la Svizzera, e uno stile musicale chiaramente di matrice Melodic/ Hard Rock. Veterani e attivi da oltre venti anni sulla scena europea, si sono fatti notare al pubblico grazie ad una prolifica produzione a livello discografico, con ben dieci dischi ufficiali pubblicati fino al 2016 e una serie di live con Iron Maiden, Guns N' Roses e Uriah Heep e un tour con Hammerfall e Stratovarius. E' bene precisare che gli Shakra, pur essendo attivi dal 1995, hanno acquisito visibilità e credibilità solo nel 2001 con l'arrivo di Fox come cantante a sostituire Pete Wiedmer. La formula musicale non è mai cambiata, la loro intransigenza li ha portati comunque a diventare una band stimata da tutti gli appassionati del genere e, seppur la parola "sperimentazione" non faccia parte del loro vocabolario di musicisti, il livello di qualità che questi ragazzi ci hanno mostrato e ci stanno mostrando è decisamente alto. La band di Berna, a distanza di 4 anni dall'uscita di "High Noon", continua la sua collaborazione con la AFM Records e a febbraio 2020 rilascia questo "Mad World" per festeggiare i 25 anni di carriera.

Le iniziali "Fireline" e "Too Much Is Not Enough", presentate con due videoclips ufficiali, si caratterizzano con sonorità vicine al Melodic Rock. L'Hard Rock più duro impregna il tessuto musicale delle splendide "A Roll Of The Dice" e la title track, così le sprizzanti "When He Comes Around" e "Thousand Kings" rallentano un po' i tempi con soluzioni più melodiche.
La proposta Hard'n'Heavy del combo svizzero scorre nelle vene dei pezzi rimanenti come la tellurica "I Still Rock" e la trasgressiva "Son Of Fire".

"Mad World" è un lavoro di pregevole fattura che conferma lo status di una band che in questi anni non ha sbagliato un colpo, ma che purtroppo ancora non ha raggiunto il cosiddetto salto di qualità che forse gli permetterebbe una visibilità ancora maggiore. In tal caso sono promossi a pieni voti.

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3.5
Opinione inserita da Sonia Giomarelli    28 Marzo, 2020
Ultimo aggiornamento: 28 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Ah, il Death Metal, una creatura tanto semplice quanto complessa da comprendere a volte. Un genere che ai suoi inizi era nato come una semplice estremizzazione del Thrash Metal e che, nel corso degli anni, si è evoluto, è maturato mantenendo sempre quell'approccio di brutalità che lo ha reso unico nel panorama dei sottogeneri del Metal. Lasciando stare tutta la parte del Death tradizionale che nasce e cresce in Nord Europa e negli States, ci sono parti del mondo occidentale che in questi ultimi 30-35 anni si sono rilevate delle vere e proprie fucine di suoni estremi e progressivi. Il Canada, ad esempio, non ha mai nascosto un approccio sperimentale (a differenza dei cugini yankees che per natura sono sempre stati molto classicisti) sia sul fronte Rock (Rush, Saga), sia su quello Metal (Annihilator, Voivod). In Canada esiste una floridissima scena Death a livello tecnico, basti vedere gli operati di Gorguts, Cryptopsy e Beyond Creation, per citare band validissime più o meno note agli appassionati del genere.
Dalla terra della foglia di acero arrivano i Sutrah, i quali appartengono alla stessa razza ma, a livello iconografico e di testi, sono spostati verso il misticismo orientale e non solo, cosa che li rende abbastanza particolari e decisamente affascinanti. Nativi di Montreal, sono una band giovane fondata nel 2011 e che, nel corso dell'ultimo decennio, ha pubblicato solo un disco ufficiale, "Dunes" (Autoprodotto) nel 2017, il quale proponeva un immaginario vicino alla cultura orientale e metafisica.

Il biglietto da visita è quello di un sound si prettamente sperimentale, ma anche molto atmosferico ed è ciò che caratterizza questo nuovo Ep "Aletheia" (parola presa dal greco, che in italiano sta ad indicare una rivelazione o verità, la quale si può scorgere anche in ciò che viene rappresentato nell'artwork, se si guarda attentamente!) uscito lo scorso 13 marzo tramite The Artisan Era. La copertina, impregnata di un dinamismo efferato, accompagna le note delle quattro variazioni che compongono questa piccola mini opera. L'angoscia monumentale di "Umwelt" (Ambiente) segue alla brutalità di "Lethe" (fiume, originale Lete nella mitologia ellenica) pezzo di un'intensità emotiva da far accapponare la pelle. Favolosa la prima parte che mischia la tradizione del Death Tecnico locale con quello classico svedese. "Dwell" (Casa) e "Genèse" (Genesi) portano avanti lo stesso discorso e se la prima si caratterizza, grazie ad a suoni malinconici che strizzano gli occhi agli Opeth più oscuri, la seconda si fa ancora Prog con variazioni a livello musicale tramite parti estreme ed altre ben più calme.

Un Ep che chiaramente farà da preludio ad un prossimo disco che speriamo esca presto. I Sutrah dimostrano di avere talento, fantasia e cultura abbracciando temi delicati e proponendo un qualcosa che nuovo non è, ma che i nostri rendono abbastanza personale. "Aletheia" è un lavoro che va ascoltato con una certa attenzione, non è per tutti, ma saprà farsi piacere da chi avrà la pazienza e la passione per scoprirlo.

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Opinione inserita da Sonia Giomarelli    25 Marzo, 2020
Ultimo aggiornamento: 25 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Fieri del loro approccio Rock N'Roll al 100%, i teutonici Motorjesus (uno dei moniker più strambi che abbia mai letto in dieci anni che scrivo) continuano la loro folle corsa sulla Highway per presentare sul mercato un prodotto di tutto rispetto quale questo "Live Resurrection" che guarda caso vado a recensire qualche settimana prima della Pasqua. Ora prima di parlare del disco, vorrei presentare questi ragazzi che qua in Italia sono poco conosciuti. I Motorjesus sono un gruppo dedito anima e corpo ai più tradizionali clichè dell'Hard n' Heavy: moto, fiamme, motori. Ciò si può notare nella loro musica, nelle copertine dei dischi e nei titoli delle loro canzoni. La loro base operativa è nel Nord Reno Westfalia, area storicamente famosa per gli appassionati di Metal tedesco (e non faccio nomi), si formano inizialmente nei primi anni '90 con un altro nome, The Shitheadz (un solo disco pubblicato, Dirty Pounding Gasoline) per poi cambiare nome nel 2006 e riattivarsi con una serie di lavori pubblicati con la Drakkar Records.
"Live Resurrection" uscito questo febbraio per la sopra citata etichetta, racchiude in sè una setlist di pezzi presi tutti dai quattro dischi ufficiali ed è stato registrato su due live che la band ha tenuto per il tour promozionale di "Race To Resurrection".

Si parla dunque di un lavoro in sede live che rispecchia quello che è l'approccio musicale di una band innamorata dell'Hard Rock e dello Stoner di Monster Magnet e Spiritual Beggars. Abbiamo una ventina di pezzi che riescono a coinvolgere grazie e soprattutto ad un lavoro ottimo in fase di mixaggio.

"Live Resurrection" piace, pur non aggiungendo nulla di nuovo alla produzione discografica di questa band tedesca, ma si presenta come una componente aggiuntiva e un acquisto da fare per chi magari segue la band da anni. I nostri sono riusciti nell'intento, dimostrando all'ascoltatore quello che è loro modo di suonare su un palco. Passabili.

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Opinione inserita da Sonia Giomarelli    25 Marzo, 2020
Ultimo aggiornamento: 25 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Entità tutta italiana quella dei Malamorte, creatura musicale nata dalla mente creativa di Lord Vampyr, fondatore storico e unico compositore. Nati a Roma nel 2009, si sono fatti notare nell'Underground grazie ad una mix di Heavy/Thrash vecchia scuola e tematiche legate all'occulto. La formula è quella legata a entità storiche quali Mercyful Fate e Venom e forse il paragone con la prima band citata non è azzardato. Se vi va ad ascoltare i dischi dei Malamorte e si guardano le loro copertine, non si può non pensare alla produzione del gruppo danese che tanto ha dato a certo modo di fare Metal in Europa.
I Malamorte sono un progetto che nel corso di questi ultimi dieci anni si è fatto notare per un'iconografia molto oscura e mistica a partire proprio dal look del suo creatore, Lord Vampyr, nome d'arte di Alessandro Nunziati, conosciuto nella scena nostrana come cantante e fondatore dei Theatres of Vampires ma anche come prolifico artista solista e di side/project quali i Cain (gruppo Black/Thrash fautore di un solo disco nel 2007) e gli Shadowsreign.

Nunziati in questi 30 anni si è dato da fare e con i Malamorte ha portato avanti un percorso musicale diverso da quello proposto dalla band che lo ha fatto conoscere ad un pubblico un po' più vasto nel corso dell'ultimo decennio. I Malamorte cominciano a farsi conoscere discograficamente solo a partire dalla metà degli anni '10 con la pubblicazione prima dell'Ep "The Fall of Babylon" e successivamente di "Devilish Illusions" nel 2016. Tra cambi continui di etichette (si va dalla Satanath Records alla Pure Steel fino alla Rockshot Records), nel febbraio 2020 con un contratto firmato con la Revalve Records viene dato alla luce "God Needs Evil", introdotto da una copertina iconica la quale rappresenta un Ratzinger (Benedetto XVI) in versione zombie stringere la mano a Satana con dietro uno sfondo di un Vaticano devastato dalla morte.


"God Needs Evil" è un lavoro che non presenta nulla di nuovo rispetto a quanto proposto nei dischi precedenti, se non quello di far contento chi ama certe sonorità classiche e oscure. Si va dallo Speed Metal di "The Demons that Devours in your Souls", "Psycho Priest" e "A Daemon dressed my Angel" fino ai suoni massicci e più cadenzati di "Suicide Forest" (pezzo chiaramente ispirato dalla vicenda della foresta dei suicidi a Jukai in Giappone, di cui esiste un film uscito nel 2016). La proposta musicale dei Malamorte rimane lì dov'è nella sua tradizione presa a piene mani dalla scena Heavy ottantiana con rimandi pesantissimi alla NWOBHM (Angel Witch e Venom). Un disco scolpito nelle fondamenta del Metallo più duro e intransigente che farà felice chi di intransigenza ci vive.

E' chiaro che quello che è stato presentato al pubblico rimarrà anonimo perchè, a dirla tutta, qua non si osa, si continua a fare le stesse cose senza dover per forza creare un qualcosa nella mente di quel povero fruitore che ascolterà il disco. E' un lavoro che non coinvolge e non si fa coinvolgere, rimane fruibile solo a pochi. Ma questo è l'Heavy Metal puro, prendere o lasciare.

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Opinione inserita da Sonia Giomarelli    16 Marzo, 2020
Ultimo aggiornamento: 16 Marzo, 2020
Top 50 Opinionisti  -  

Austria, famosa musicalmente per aver dato i natali a Mozart, difatti riconosciuta a livello mondiale come una delle zone cruciali di tutta la musica colta. In tempi recenti e guardando a generi moderni come il nostro Metal, la terra austriaca si è fatta notare a livello underground grazie a band validissime come Summoning, Abigor ed Edenbridge, i primi sul versante più estremo, gli ultimi su quello più Power e sinfonico.
Tuttavia ci sono molte band che viaggiono sui circuiti dell'underground più nascosto e che veramente in pochi conoscono, tra queste troviamo un gruppo dedito al Death Metal melodico e progressivo, i Relinquished. Formatosi originariamente nella zona del Tirolo intorno al 2004, i nostri rilasciano una prima demo - "Rehearsal Doom" - nel 2009 per poi esordire su Lp l'anno successivo con "Susanna Lies in Ashes" (tramite Noisehead Records, etichetta tedesca non più in attività). Nel 2012 esce il secondo lavoro "Onward Anguishes". Inizia un periodo di inattività durante il quale la band rilascia solo due singoli, ma qualcosa bolle in pentola e nel dicembre 2018 arriva a pubblicazione il terzo disco "Addictivities (part II" solo in versione digitale. Il formato fisico viene rilasciato a marzo dell'anno successivo.

"Addictivities (part II)" è un lavoro di nove pezzi, primo concept album, come già suggerisce il titolo. Il combo austriaco presenta un set di pezzi che trattano la complessa tematica della dipendenza attraverso un sound che tanto prende dal Death quando dal Prog e dal Doom, con ciò se ascoltiamo ad esempio "Expetations" (del quale è stato rilasciato un videoclip ufficiale di presentazione) e la successiva "Bundle of Nerves", non possiamo non pensare agli Opeth più oscuri ("Watershed", "Blackwater Park") con la loro struttura che va da un inizio lento e decadente ad uno sfociare in una rabbia tipica del Death Metal più dark. Il resto della scaletta è composto da brani che nulla si discostano dal sound di base ma che comunque vanno a strizzare l'occhio anche ad altre realtà della scena estrema e non, vedi le atmosfere minimaliste dello strumentale "Pulse" o ancora "Damaged for Good" caratterizzata da un suono melodico di stampo svedese (l'intermezzo al minuto 3:00). I migliori pezzi sono comunque "Avalance of Impressions" con la sua struttura altalenante e "Into The Black", cadenzata e oscura quanto basta.

Delineare un giudizio su questo nuovo lavoro dei Relinquished è alquanto facile in realtà: il disco non spicca il volo per via di pezzi (non tutti) che non possiedono abbastanza personalità per attecchire, i quali possono piacere solo all'appassionato di certi generi. "Addictitivies (part II)" è tuttavia un album interessante sopratutto dal punto di vista della tematica trattata e può comunque risultare un potenziale punto di lancio per una band valida la quale potrebbe migliorare ancora di più con la prossima release. Per ora siamo intorno alla sufficienza.

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Opinione inserita da Sonia Giomarelli    11 Marzo, 2020
Ultimo aggiornamento: 11 Marzo, 2020
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Ingiustamente relegati a band di culto della NWOBHM (New Wave Of British Heavy Metal), i Diamond Head arrivano al traguardo dell'ottavo lavoro in studio. A distanza di 40 anni da quel debutto discografico che prendeva il nome di "Lightning to the Nations" e che tanto ha dato a tutto il movimento Heavy - non solo inglese - la band di Brian Tatler ha rilasciato lo scorso 29 maggio il nuovissimo "The Coffin Train" tramite la Silver Lining Music. La line- up è composta da il già citato Tatler (mastermind e fondatore della band), il cantante di origini danesi Rasmus Bom Andersen, il secondo chitarrista Andy Abberley, il bassista Eddie Moohan e il batterista Karl Wilcox.

L'inizio con "Belly of the Beast" è un fulmine a ciel sereno, un pezzo dai connotati tipicamente Heavy in stile Old School: lavoro di chitarra e batteria molto serrati e potenti, la voce graffiante di Andersen che ben si presta al sound della band. Con "The Messenger" la band di Tatler rallenta i tempi e ci presenta un suono più melodico, a tinte Hard molto anni '80.
La title-track che inizia con un giro di basso e chitarra e si presenta come un pezzo a tinte malinconiche, oscure, dannatamente Heavy Metal. Un Heavy di alta fattura come solo i DH sanno regalarci, il treno funereo procede attraverso una seconda parte che viene scandita da un riff potente di Tatler e un lavoro dietro al microfono di Andersen da cardiopalma.

Lo stile ora Doom, ora Hard caratterizzano le linee di chitarra della successiva "Shades of Black", track tra le migliori dell'intero disco. Andersen sembra quasi tributare il compianto Chris Cornell e ci riesce molto bene. Il pezzo inizia lento e procede veloce intorno alla seconda metà con il riff principale di Tatler.

"The Sleeper" introdotta da un preludio di un minuto, ci ricorda il passato dei Diamond Head più oscuri, quelli di "Borrowed Time", chiaramente qui in in versione moderna con innesti ora sinfonici scanditi dal giro di chitarra di Tatler. Un crescendo di emozioni sonore che culmina intorno alla fine del quarto minuto con un favoloso lavoro di tutti e cinque i musicisti inglesi.
L'Heavy Metal di "Death by Design" irrompe di nuovo prepotentemente e ci fa scatenare fino all'incedere più lento di "Serrated Love", la quale si struttura su un possente refrain di chitarra e basso accompagnati dalla maestosità di un lavoro di batteria (Wilcox) magistrale. L'intermezzo è da incorniciare.
Il duo "The Phoenix!" e "Until We Burn" chiudono un po' in sordina ma risultano comunque dei pezzi efficaci, caratterizzati da atmosfere orientaleggianti e oscure.
"The Coffin Train" è un disco che conferma quanto i Diamond Head abbiano ancora molto da dire alla scena Metal internazionale. Ingiustamente sottovalutati, dimenticati da molti, la band di Tatler ha dimostrato di avere ancora una volta gli attributi dimostrando al mondo come si fa l'Heavy Metal nel 2019. Ancora una volta: bentornati ragazzi.

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