Opinione scritta da Oneiros
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Top 50 Opinionisti -
Che il nome degli Stone Healer suoni completamente misconosciuto non sorprende, ma mettiamo subito le cose in chiaro: il duo statunitense ha tutte le carte in regola per ritagliarsi un suo spazio all'interno di alcune sfere dell'underground estremo. Se i nomi di Infera Bruo e In Human Form non ti dicono nulla o, peggio, la loro musica non fa per te, non perdere tempo con "Conquistador". Se, invece, le follie delle due formazioni solleticano il tuo palato, eccoti servito un pasto nuovo ma che molto probabilmente apprezzerai.
I due nomi fatti prima, oltre ad avere diversi punti di contatto musicali con la proposta degli Stone Healer, si incrociano col duo per un altro motivo. Il cantante, chitarrista e bassista del progetto qui in analisi, Dave Kaminski, ha preso parte alla realizzazione di "III" (I, Voidhanger Records, 2019) degli In Human Form ed è tutt'ora chitarrista dal vivo per gli Infera Bruo. Alla luce di questo, un'idea meno vaga del contenuto dell'album di debutto di "Conquistador" ce la siamo già fatta, ma aggiungo un altro paio di dettagli al tutto, elementi di una certa rilevanza. In primis, l'ampio utilizzo fatto della chitarra acustica, che si sentono già a partire dall'apripista "One Whisper" e accompagnano l'ascoltatore fino alla conclusiva "Into the Spoke of Night" quasi senza soluzione di continuità: riconoscere una eco åkerfeldtiano in questi non sarebbe, secondo chi scrivo, un'allucinazione. La vena progressive degli Stone Healer, infatti, è estremamente preponderante, tanto che parlare di un disco black metal, nel caso di "Conquistador", potrebbe non essere sempre corretto.
Secondo elemento da sviscerare, all'interno del primo lavoro sulla lunga distanza del duo americano, è la componente ritmica — e, più nello specifico, l'apporto dato dalle batterie del fratello di Dave, Matt Kaminsky. Se, da un lato, l'eco opethiana ritorno anche prestando attenzione al fronte percussioni, dall'altro c'è da aspettarsi una bella varietà di pattern e ritmiche, durante l'ascolto. Non lasciarti spiazzare dagli eventuali accenti sul campanaccio, seguiti da blast beat incessanti e ritmi composti: rientra tutto in quell'enorme caos ordinato che è il piano degli Stone Healer. Specialmente nel parlare di ritmi composti, la proposta del duo pare avvicinarsi talvolta a quella dei Gojira, per il mix di ritmiche complesse e cadenzati muscolari, salvo sempre discostarsene subito, evitando di incorrere nel rischio di essere derivativi. Un esempio? "Torment Of Flame". La traccia, posta a metà scaletta, sintetizza benissimo quanto detto finora sui Nostri e sulla loro musica. Inoltre, assestandosi di poco sotto gli otto minuti, rappresenta anche bene per lunghezza le composizioni dei due, capaci di andare dal minuto e mezzo della strumentale "Twenty-two" agli undici e spicci di "Surrender".
A questo punto, se conosci e apprezzi gli artisti citati per triangolare il sound della creatura dei fratelli Kaminsky, scendere ulteriormente nel dettaglio nella descrizione di "Conquistador" vorrebbe dire privarti della caccia al tesoro che è un ascolto così ricco e variegato. D'altro canto, se il prog e le follie avanguardistiche di questo tipo non fanno per te, come specificato in apertura di recensione, gli Stone Healer non ti andranno giù, né con un poco di zucchero né con un buon litro di acido muriatico. In ogni caso, molto bene per questi americani!
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Quello che porta il nome di Mother Of All non è altro che il progetto solista di Martin Haumann, ex batterista di Myrkur e Afsky. Nato nel 2013 e con alle spalle solamente due EP usciti tra il 2014 e il 2017, l'act negli ultimi mesi ha fatto ambo dando alle stampe prima uno split con gli svedesi Kvaen (uscito per Over the Under Records) e poi il qui presente "Age Of The Solipsist", il suo album di debutto. Il traguardo è stato tagliato in collaborazione con Black Lion Records e suggellato con la presenza di ospiti di un certo spessore.
A registrare "Age Of The Solipsist", infatti, non è stato il solo Haumann (padre, comunque, di tutte le idee e dei testi). A occuparsi delle chitarre è stato il suo connazionale Fredrik Jensen, mentre le linee di basso sono finite tra le mani esperte del riconoscibilissimo Steve Di Giorgio. La collaborazione con il titano statunitense non mi pare affatto un caso, visto che il debutto sulla lunga distanza della one man band danese, di fatto, avviene nel solco tracciato ormai trent'anni fa dai Death tra le cui fila Di Giorgio ha trascorso diversi anni. Ma le sorprese di "Age Of The Solipsist" non si fermano qui. Non c'è solo del buon death metal dal piglio leggermente tecnico, nel debutto dei Mother Of All, ma anche l'ombra di un certo tipo di melodic death scandinavo. Brani come l'apripista "Autumn" o l'omonima "Age Of The Solipsist" non fanno mistero della passione per le melodie di Haumann e in esse riconosce chiaramente l'influenza degli In Flames dei bei tempi andati.
Se i contenuti del debutto di Mother Of All non deludono, la forma non è da meno. Ad affiancare Haumann in veste di produttore, infatti, figura nient'altri che Hannes Großmann, ex membro di Hate Eternal, Necrophagist e Obscura che ne sa una o due sull'essere un batterista estremo. Il risultato finale, anche grazie al suo contributo, è un disco dal sound ricco e accogliente, denso e pungente, nel quale tanto le chitarre quanto il basso di Di Giorgio hanno il giusto spazio, in cui la batteria non si riduce a una sequenza di midi gustosi tanto quanto un foglio di cartone bagnato ma contribuisce al risultato finale tanto quanto gli scream di Martin Haumann.
Non brillerà per originalità, il primo disco di questa one man band, ma "Age Of The Solipsist" sa benissimo qual è il suo lavoro e come farlo — a differenza di un'altra band citata in precedenza. Bene così, Haumann!
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Quello degli Aphonic Threnody è un nome ormai discretamente affermato all'interno del sottobosco del doom funereo. In attività da quasi un decennio, la formazione internazionale — oggigiorno divisa tra Regno Unito, America, Germania e Romania — ha tagliato proprio ieri il traguardo del quarto album della propria carriera con "The All Consuming Void", una prova dal titolo giustamente annichilente.
Oltre l'avvicendamento di Daniel Nagoe al posto del defezionario Juan Escobar dietro al microfono, non ci sono veramente sorprese in casa Aphonic Threnody. L'attitudine lugubre, oscura e intimamente pessimista del progetto resiste alla prova del tempo e permea ogni attimo dei sessantaquattro (!) minuti di quest'album. Si ribadisce l'ovvio quando si dice che il funeral doom non è un genere per tutti, ma non è mai tempo sprecato, specialmente in questo caso. "The All Consuming Void" non è un album facile da ascoltare e metabolizzare per sua natura: i dettami del genere sono quelli che sono, in fondo. Eppure, nel suo essere una prova che non si discosta e che non rivoluziona il mondo del funeral doom, il quarto disco dei Nostri riserva delle belle sorprese a tutti i fan di Evoken, Esoteric e AHAB.
Se nella prima metà della scaletta il successore di "The Great Hatred" (Transcending Obscurity Records, 2020) si conferma, quindi, una prova molto standard, "Chamber of Parasites" rimescola le carte in tavola e tira fuori l'asso nella manica della band. Il fresco arrivato Daniel Nagoe — già ben noto agli adepti del mondo doom per la sua attività con Clouds, Aeonian Sorrow ed Eye of Solitude, tra i tanti altri — aggiunge a metà scaletta quel quid che rinfresca, risana e rilassa; una sensazione di liberazione e pace tale da dare l'illusione di essere sollevati da questa esistenza e dai suoi drammi e di essere delicatamente posati su un letto morbido, di raso o velluto, e avvolto dal gelido tepore di qualche metro di terreno sopra la propria testa.
Ammetto di aver faticato un pochino a tenere il passo con gli Aphonic Threnody, ma ciò non toglie che sappia ugualmente tributare a "The All Consuming Void" quanto gli spetti. Il funeral doom non è un mondo alla disperata ricerca della rivoluzione e i Nostri ci si muovono dentro in perfetta armonia con i suoi bisogni e le sue richieste.
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Ne è passata di acqua sotto ai ponti, in casa Saille, dall'uscita del loro precedente album, "Gnosis" (Code666 Records, 2017). Nomen omen, "V" è il quinto disco della formazione internazionale, alle cui fila si sono aggiunti un paio di anni fa il chitarrista Kasky Svart, al secolo Juanjo Pérez, e il titanico Jesse Peetoom, voce tra le altre dei DunkelNacht e degli Aran Angmar. La prima prova sulla lunga distanza del rinnovato quintetto con l'attuale formazione vede la luce per Black Lion Records e di per sé non compromette né stravolge l'immagine che la band si è costruita nel suo decennio e più di attività.
Otto tracce, bonus track compresa, che trasudano male e oscurità da ogni poro. Le atmosfere sono opprimenti, le movenze costantemente spasmodiche, il comparto lirico che ruota attorno a tematiche legate a "the fearful, the uncanny, and the weird" — per dirla con le parole dell'etichetta. La proposta dei Saille, come un opale nero, è attraversata da diverse sfumature e riunisce al suo interno venature death pur tenendosi fermamente sui binari del black. Quando Van den Eynde pressa incessantemente dietro la batteria, i Nostri ricordano non poco le follie dei Naglfar, mentre nei momenti meno ossessivi e più psicotici il loro massiccio sound somiglia a quello dei nostrani Darkend (col cui bassista Peetoom condivide l'esperienza nei già citati Aran Angmar), assestandosi su un melodicamente malvagio stile di scuola Dark Funeral. Sebbene non ci siano veri stravolgimenti nell'approccio dei cinque artisti ai misteri del metal estremo, la presenza di un nuovo chitarrista con alle spalle una certa esperienza in ambito death assieme a quella dell'ottimo cantante, capace di dare il 100% su tutti i fronti, contribuisce ad acuire e sottolineare tutte le doti migliori del progetto. È un peccato che l'intero "V" non si mantenga sempre sul livello di "Charnel Chamber" e di "Empty Expanse", gli episodi migliori del lotto, eppure nonostante questo l'album non fatica a piacere.
Insomma, al netto della scelta volutamente simpatica (?) di intitolare tutti i pezzi con combinazioni di due parole che iniziano con la stessa lettera, il nuovo album dei Saille si è dimostrato una piacevole scoperta. Un recupero, quello di "V", consigliato quindi a chi non disdegna l'accompagnamento delle sue letture lovecraftiane con un po' di sani estremismi e, perché no, un bel calice di Chianti.
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Cinque anni dopo l'uscita del loro EP di debutto e tre dopo "Savior", gli Unflesh tornano alla carica con "Inhumation", un album tanto dritto e completo da far sorgere immediatamente spontanea una domanda: com'è possibile che questi tre gentiluomini di Portsmouth, New Hampshire non abbiano ancora un'etichetta a supportarne il lavoro?
Dietro i quarantasei minuti di "Inhumation" non è affatto difficile vedere l'ombra di band come Arsis e The Black Dahlia Murder, specialmente sul fronte delle scelte ritmiche; questo non lascia completamente sorpresi, essendo gli arrangiamenti di batteria opera di Jeff Saltzman, in forza agli Aversed e agli Allegaeon dal vivo — ergo, non l'ultimo degli stronzi. A questo si aggiunge l'ottimo lavoro del cantante e chitarrista Ryan Beevers, capace di dare un tocco anche parzialmente black (di stampo svedese) al sound degli Unflesh, altrimenti ancorati saldamente al tech-death come partorito dalla mente di Schuldiner e filtrato per il moderno approccio di band come Necrophagist e Beyond Creation. Le linee di basso di Orion Hubbard, ispirate e adatte in ogni contesto, non fanno che corroborare questa affermazione. L'accostamento di queste, unite alle ritmiche e ai passaggi intricati di chiara estrazione death, alle oscure melodie ispirate da Dissection e Necrophobic rende le otto tracce incluse nel disco estremamente godibili e, più di ogni altra cosa, crea un'atmosfera di fondo uniforme e coinvolgente. Tuttavia non è la sola somiglianza con altri gruppi e sonorità a fare della prova in questione un buon album.
La durata mediamente contenuta dei singoli brani vale al secondo disco dei Nostri un altro punto. Passando dai due minuti per l'apripista "Behold Nightfall" ai nove della conclusiva "Dehumanized Legion" e tenendosi intorno ai cinque-sei nei restanti episodi, la scaletta di "Inhumation" si presenta come ben bilanciata, pur conservando elementi stereotipici per il genere come la prima traccia introduttiva e il classico pezzone più articolato in chiusura. Inoltre, anche dal punto di vista grafico questo disco ha fatto centro; l'artwork di Junki Sakuraba in copertina racchiude appieno le sensazioni che scaturiscono dall'ascolto della proposta e calano da subito l'ascoltatore nel mindset giusto per approcciarsi al disco. L'ispirazione, come detto, non manca e i riferimenti cardine ci sono tutti, per cui la domanda fatta in apertura persiste: com'è possibile che gli Unflesh non abbiano ancora un'etichetta?
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È con "3.6.2.4" che gli inglesi Ghosts Of Atlantis tagliano il traguardo del debutto sulla lunga distanza: un album dal titolo volutamente enigmatico, una traiettoria musicale piuttosto chiara. La band di Ipswich, Suffolk ha tra le sue fonti di ispirazione i moderni nomi grossi del mondo sinfonico estremo, tanto sul fronte death (Fleshgod Apocalypse su tutti) quanto su quello black, con riferimento a nomi come Dimmu Borgir, Carach Angren e Devilment. Alle atmosfere di questi ultimi si avvicinano molto i GOA, soprattutto vista la militanza nella formazione capitanata da Dani Filth di Colin Parks, chitarrista e voce pulita dei Nostri. Detto ciò, se la proposta del quintetto si limitasse a questo, probabilmente il loro primo album mi avrebbe fatto un'impressione diversa; ahimè, non è stato così.
I Nostri, purtroppo, tengono il piede in ben più di due scarpe e tentano di conciliare il già menzionato mischione con influenze 'moderne', elementi power e cafonate di stampo metalcore (tipo quello dei peggiori In Flames, per intenderci), finendo per disperdere le poche intuizioni seriamente valide in un mare magnum di idee deboli se non proprio brutte. Certo, la piega power non è così fuori portata, ma i Ghosts Of Atlantis non sono né i Fleshgod Apocalypse con Paolo Rossi né gli Insomnium con Jani Liimatainen e le incursioni in pulito del loro cantante Phil Primmer su atmosfere a metà tra quelle dei FA e quelle dei Kamelot dei tempi d'oro (seh, gli piacerebbe...) non reggono il confronto. Questo senza contare i momenti in cui i riff si fanno cadenzati e i Nostri cominciano a somigliare a un figlio illegittimo dei Carach Angren e degli In Flames; in questi momenti l'ago della bilancia pende nettamente verso il bruttobrutto. L'ultima "The Lost Compass", da questo punto di vista, fornisce un esempio di tutti i punti critici della prova ed essendo anche la traccia conclusiva di "3.6.2.4" lascia seriamente l'amaro in bocca.
Chiuso con le severe bacchettate sulle mani, al quintetto inglese va comunque riconosciuta una certa perizia tecnica, nonché una buona dose di duttilità e di creatività senza le quali non sarebbe riuscito a tirare fuori dal cilindro questi quaranta minuti di robe. Sono certo che, indirizzando i propri sforzi verso un'unica direzione, possibilmente meno ambigua, i Ghosts Of Atlantis saranno certamente capaci di fare di meglio. Per ora, purtroppo, non ci siamo.
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