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Opinione scritta da Ninni Cangiano

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    30 Dicembre, 2024
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Gli Among These Ashes arrivano da Detroit negli USA dove si sono formati nel 2021; da allora hanno realizzato, oltre ad una certa quantità di singoli, un primo album nel 2022 (“Dominion enthroned”) e questo “Embers of Elysium”, uscito ad inizio dicembre 2024 per la greca Alone Records. L’album è composto da 13 tracce, di cui l’ultima è una bonus-track in cui si registra la presenza della cantante americana Brooke Rousseau, in veste di ospite, per la durata totale di oltre 65 minuti. Tenendo presente che vi sono un paio di brani di breve durata (la prima e l’undicesima traccia), la restante parte ha minutaggio elevato, in alcuni casi attorno ai 7 minuti ed oltre (soprattutto nella parte finale della tracklist). Per un genere come il power/thrash suonato dal gruppo del Michigan, il minutaggio diventa importante, per non compromettere l’efficacia dei singoli componimenti, particolare in cui il chitarrista Richard Clark (pare faccia tutto lui) deve evidentemente ancora migliorare. Se volete cercare un paragone, direi che il sound degli Among These Ashes potrebbe essere considerato abbastanza simile a quello degli Iced Earth, ma con maggiore groove sulle chitarre ed un basso più in evidenza, ma con meno atmosfere. Se quindi amate queste sonorità aggressive, ricche di energia e velocità, sicuramente apprezzerete la proposta musicale della band americana, anche grazie al fatto che il cantante Jean-Pierre Abboud (anche nei Traveler) sa il fatto suo e si destreggia molto bene, tra parti aggressive ed altre più melodiche, senza dimenticare mai una certa espressività. Se dovessi indicarvi i pezzi migliori, sicuramente andrei su “The enemy in I”, il pezzo più sulfureo e cattivo del lotto, senza dimenticare “Serpents among rats”, altra traccia efficace e brillante. La media è comunque valida, anche se qualche sforbiciata qua e là nei pezzi più lunghi avrebbe giovato (a titolo esemplificativo, “Through ethereal voids” poteva essere ampiamente ridimensionata). Non condivido poi questa smania di avere tracklist così corpose, quando 8-9 pezzi al massimo avrebbero forse reso l’ascolto anche più agevole e piacevole. Tutto sommato, comunque, gli Among These Ashes con questo “Embers of Elysium” hanno realizzato un buon disco, adatto ai fans del power/thrash made in USA.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    30 Dicembre, 2024
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I Mirrorshield arrivano dall’Australia e sono attivi da qualche anno, periodo in cui hanno realizzato una serie di singoli ed un EP, prima di autoprodursi questo debut album intitolato “Visions from a crystal light”. Il disco, dotato di artwork fantasy, è composto da 11 tracce per poco meno di 42 minuti di durata totale; si tratta di una sorta di concept album dato che le canzoni parlano del regno fantastico di Eremoss, un mondo di tradizioni in continua espansione. Il sound della band del Nuovo Galles del Sud è un folk/power metal che vorrebbe essere orecchiabile e ruffiano, ma riesce ad esserlo fino ad un certo punto. Come detto si tratta di un’autoproduzione e la prima cosa che si nota è la qualità non eccelsa della registrazione, con gli strumenti che sono un po’ più in secondo piano rispetto alla voce (tra l’altro, non esaltante) ed, in genere, il volume è basso, soprattutto sulle chitarre; non so se dipenda dalla scarsa qualità degli mp3 avuti a disposizione per questa recensione, fatto sta che ho sentito dischi autoprodotti registrati molto, ma molto meglio di questo. Il secondo problema, oserei dire il principale, come detto, è la voce di Tim Read, alquanto monocorde e poco espressiva, oltre che alquanto in difficoltà nelle note più alte, dove poco furbamente ogni tanto va a cacciarsi, rischiando di risultare goffo e comunque poco credibile. Il fatto che poi la sua prestazione canora mediocre sia messa in risalto rispetto agli strumenti aumenta il tasso di difficoltà nell’ascolto di questo full-length. La band, infine, ogni tanto sembra perdere un po’ di vista l’efficacia dei singoli componimenti che si vanno a complicare da soli, risultando poco scorrevoli e poco convincenti; anche il songwriting, quindi, andrebbe rivisitato, al fine di rendere le varie canzoni più attraenti e maggiormente orecchiabili, magari dando un po’ più di elettricità e protagonismo alle chitarre. Dispiace dirlo, ma trovo poco da salvare in questo disco, se non alcune parti strumentali tipicamente folkeggianti che non dispiacciono, ma che vengono affossate da una registrazione non perfetta e sovrastate da un cantato di mediocre qualità. Ho provato ad ascoltare e riascoltare più volte questo “Visions from a crystal light”, nella speranza di riuscire a cogliere qualche lato positivo che potesse avvicinarlo anche solo alla sufficienza, ma purtroppo ho sempre fatto una certa fatica ad arrivare alla fine della tracklist. Mi dispiace per i Mirrorshield, ma devono migliorare parecchio per poter sperare di farsi notare in positivo, magari partendo dalla ricerca di un cantante migliore.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    29 Dicembre, 2024
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Ad ormai tre anni ed un LP dal cambiamento del frontman, tornano i Gloryhammer con un EP di soli tre brani, della durata totale di meno di tredici minuti. Sozos Michael (alias Angus McFife II) ha ormai sostituito definitivamente Thomas Winkler anche nel cuore dei fans e non a caso in questo EP intitolato “He has returned” vengono ri-registrati con la formazione attuale due classici dell’era di Angus McFife XIII (lo pseudonimo che usava Winkler): “The unicorn invasion of Dundee”, forse il pezzo più rappresentativo dei Gloryhammer, e quella “Hootsforce” che era nella tracklist del terzo album, l’ultimo di Winkler. Anche il fondatore Christopher Bowes pian pianino si sta svincolando: le tastiere adesso sono suonate da Michael Barber e l’originario Zargothrax, Dark Emperor of Dundee, si limita alla narrazione. Ma veniamo alla musica. La title-track parla del Robot Prince of Auchtertool ed ha le synth come protagoniste del sound, assieme alla chitarra che regala belle parti soliste. Il cantante cipriota lo conosciamo già e sappiamo sin dai tempi degli Helion Prime quali doti abbia che, in questa canzone, come nelle altre due rivisitazioni, non vengono certo risparmiate. L’ascolto è quindi estremamente piacevole, anche grazie ad un ritmo bello sostenuto con Ben Turk che non si risparmia dietro le pelli. Certo, quando poi arriva un capolavoro come “The unicorn invasion of Dundee” tutto diventa più semplice e, dopo l’ultima ottima rivisitazione, la voglia di pigiare ancora il “play” e ricominciare l’ascolto è sempre forte! Cosa volete di più allora? Non resta che sperare in un nuovo album all’altezza della tradizione dei Gloryhammer, esattamente come lo è questo EP “He has returned”…

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    29 Dicembre, 2024
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Devo dire la verità, mi aspettavo molto, davvero molto dal nuovo disco dei Dominum “The dead don’t die”, avevo insomma troppe aspettative nei confronti del gruppo tedesco. Ed in parte (per fortuna, solo in parte) mi sbagliavo. Ripetere a solo un anno di distanza il successo del fantastico debut album “Hey living people” era difficile e la band di Dr. Dead ci è riuscita fino ad un certo punto. Il singolo che ha preceduto l’album, title-track dello stesso, in cui è ospite Ben Metzer dei Feuerschwanz, ha tratto in inganno un po’ tutti quanti, dato che si tratta forse del brano migliore, o comunque tra i migliori della tracklist e non tutti gli altri pezzi sono allo stesso livello. Se l’inizio con il trittico “We are forlorn”, “One of us” (dal testo simpatico!) ed appunto la title-track è davvero infuocato, la successiva “Killed by life” è più moderata, pur rimanendo un gran bel pezzo. E’ con “Die for the devil” che si scende a livello qualitativo, con un brano quasi hard-rockeggiante, alquanto banale, salvato solo in parte dal coro; ancora più sotto “Don't get bitten by the wrong ones” che, ascolto dopo ascolto, finisce per annoiare, non avendo nemmeno un minimo di energia e brillantezza. Appena meglio “Happy deadly ending”, quanto meno per le atmosfere leggermente orrorifiche, anche se il pezzo si rivela alquanto ripetitivo, soprattutto per il coro reiterato un po’ troppo. Terminata questa parte centrale alquanto negativa e noiosa, il disco si rianima grazie all’energia ed al ritmo di “Can’t kill a dead man”, canzone decisamente orecchiabile e frizzante, tanto che viene da chiedersi perché i Dominum non facciano songs sempre di questo livello. Anche la successiva accoppiata “This is not a game”/“The guardians of the night” è di buona qualità (più la seconda, che è sicuramente tra i pezzi migliori del disco) e chiude il disco in maniera eccelsa, prima della cover degli Scorpions di “Rock you like a hurricane”, abbastanza fedele all’originale, ma decisamente avulsa dalle atmosfere e dalle tematiche del disco e quindi alquanto fuori posto; una scelta, questa della cover, insomma abbastanza infelice! Se proprio si voleva inserire un pezzo altrui, sarebbe stato più opportuno inserirne uno dei Lordi o addirittura andare a scomodare i maestri Goblin, le cui atmosfere sarebbero state sicuramente più indicate in un album come questo, visto anche l’abbondante uso delle tastiere che viene fatto dal gruppo tedesco. Tirando le somme, se avessimo avuto un disco con canzoni dello stesso livello di “The guardians of the night”, “Can’t kill a dead man”, “We are forlorn” o della title-track, staremmo a parlare di una vera e propria bomba, probabilmente da inserire tra i dischi migliori di questo 2024; di fatto non è così e questo “The dead don’t die” dei Dominum è solo un buon album, con pezzi fantastici ed altri che funzionano meno.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    28 Dicembre, 2024
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I Rauhbein sono un gruppo tedesco fondato dal cantante Henry M. Rauhbein nel 2019, con all’attivo una lunga serie di singoli e tre full-lengths, di cui questo “Adrenalin” è l’ultimo, uscito dopo Natale, il primo per l’importante Reigning Phoenix Music. Musicalmente, potremmo piazzare la band a metà strada tra i Feuerschwanz ed i Saltatio Mortis, pur senza gli strumenti tradizionali di queste band (c’è solo il violino e niente cornamuse o altro), anche per la somiglianza del vocione roco del leader con quello dei mitici Ben Metzner e Alea der Bescheidene, ma anche per le ritmiche sempre frizzanti e veloci, imposte dall’ottimo batterista. Il songwriting, come questo genere impone, non è arzigogolato, ma conciso e breve, tanto che l’album non dura nemmeno 40 minuti, suddivisi per 10 tracce, compresa una bonus-track che sembra sia una sorta di inno ai Kassel Huskies, squadra di hockey su ghiaccio tedesca della zona da cui arriva la band stessa (e per la quale immagino facciano il tifo). Come tradizione di questo genere musicale, le varie canzoni mettono allegria e voglia di zompettare, magari con in mano un bel corno pieno di birra ghiacciata; potremmo infatti definire la musica dei Rauhbein come l’ideale colonna sonora per una serata tra amici per fare casino tutti assieme, innaffiati da fiumi di birra. La band tedesca, insomma, non si discosta di una virgola dai cliché tipici di questo genere di folk metal di scuola tedesca ma, pur non essendo obiettivamente particolarmente originale o innovativa, quel copia/incolla lo fa dannatamente bene, tanto che ogni ascolto dato a questo disco si concludeva con notevole soddisfazione e piacere. Ed anche quando il ritmo rallenta (vedasi, ad esempio, “Bruder”), l’ascolto è sempre gradevole e la traccia convincente ed efficace. Se, insomma, siete fans del medieval folk cantato in tedesco (idioma ostico che, però, per questo genere musicale ci sta dannatamente bene), questo “Adrenalin” dei Rauhbein potrà fare sicuramente al caso vostro!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Dicembre, 2024
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I Sorceress Of Sin sono una band inglese formatasi nel 2020, con all’attivo già due full-lengths (entrambi recensiti sulle nostre pagine, tra le autoproduzioni), “Mirrored revenge” nel 2020 e “Constantine” nel 2021. Ottenuti buoni riscontri con questi due dischi, il gruppo inglese strappa un contratto alla nostrana Wormholedeath Records (che finalmente torna a rilasciare del power metal!) e pubblica in questi giorni di fine 2024 il terzo album intitolato “Ennea”, dotato di piacevole artwork ispirato all’antica Grecia che lascia capire il concept che lega i vari pezzi: appunto la mitologia greca. Come nel precedente disco, ci troviamo davanti ad un power metal molto melodico, ma anche ricco di energia, grazie anche all’approccio spesso aggressivo della singer Lisa Skinner (ma non sempre, come in “The quest”). Il problema principale, che c’era anche nei dischi precedenti, è il songwriting eccessivamente prolisso e lungo che appesantisce non poco l’ascolto, basti pensare che il disco dura quasi un’ora ed è composto da soli 9 pezzi, con un solo brano che dura meno di 5 minuti (“Nymphet”, non a caso la migliore della tracklist!) e con la lunghissima suite “Clarity of confusion” che raggiunge quasi 12 minuti, ma che sarebbe stata molto più efficace con robuste sforbiciate di almeno 3-4 minuti. Ecco, per il futuro, i Sorceress Of Sin dovranno fare molta più attenzione al songwriting, in modo da rendere i loro componimenti più efficaci e diretti; capisco la voglia di strafare, ma non siamo al debut album dove si potrebbe anche capire e chiudere un occhio; se si vuole uscire dall’underground bisogna cercare la perfezione. Dispiace dirlo, perché per il resto questo “Ennea” è davvero un bel disco, ben cantato, ben suonato dai vari musicisti e registrato altrettanto bene e, se solo fosse durato, almeno ¼ d’ora in meno sarebbe stato davvero una bomba. Disco riservato ai fans della band ed agli appassionati del power metal più melodico che non fanno caso alla lunghezza dei singoli pezzi.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Dicembre, 2024
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Conosco i greci Desert Near The End da ormai un decennio, essendomi imbattuto all’epoca nel loro secondo album “Hunt for the sun” ed avendone seguito sostanzialmente anche le successive tappe; in questo mese di dicembre rilasciano il loro sesto album (il settimo, contando anche quello uscito con il nome The Eventide), intitolato “Tides of time”, sotto la label polacca Theogonia Records. Anche questa volta il duo Prasinikas/Papandreou ha rivoluzionato la formazione, reclutando un nuovo batterista e due nuovi chitarristi solisti, il che da sempre credo sia una sorta di tallone d’Achille per la band. Ogni volta, infatti, pare che ci sia voglia di ricominciare daccapo e, se in passato il sound era stato anche accostabile ai Kreator, questa volta pare di ascoltare un nuovo disco degli Iced Earth, con la sola differenza che il buon Papandreou sfigura maledettamente, sia per potenza che per espressività, se lo paragoniamo al grande Matt Barlow (non prendo in considerazione chi ha poi cantato nel gruppo americano dopo di lui!). Il vocalist greco, infatti, tende spesso ad esagerare andandosi a cacciare in vocals estreme al limite del growl che poco o niente c’azzeccano con il sound power/thrash che è possibile ascoltare in questo disco, finendo per incattivirlo in maniera spropositata (sostanzialmente solo nel pezzo “Oceans of time” non cade in questo fatale errore). E proprio le parti canore finiscono per essere il punto debole del disco che, musicalmente parlando, è ben fatto e piacevole da ascoltare, seppur sostanzialmente privo di originalità (termine questo che non credo sia compreso tra gli obiettivi del gruppo greco). Migliorabile anche il songwriting, con canzoni fin troppo lunghe (il disco è composto da 9 tracce per la durata totale di oltre 56 minuti) che spesso superano i 7 minuti e finiscono per risultare alquanto prolisse (come l’opener “City of eternal flame”, che poteva tranquillamente essere divisa in due brani diversi di circa 3 minuti e mezzo ciascuno). Il punto di forza, invece, sono le atmosfere sulfuree che vengono realizzate nei vari pezzi e che contribuiscono non poco a ricordare gli Iced Earth di dischi come “The dark saga” o “Burnt offerings”. Particolare anche l’uso frequente del blast-beat da parte del nuovo batterista Stelios Pepinidis che, seppur possa sembrare a primo acchito alquanto eccessivo, alla fin dei conti non dispiace, contribuendo ad irrobustire il sound. Siamo arrivati ad un punto della carriera in cui una band dovrebbe avere una strada personale e ben definita, invece i Desert Near The End continuano ad ispirarsi fortemente a gruppi storici (in precedenza i Kreator, ora gli Iced Earth), particolare che non giova più di tanto e non permette di farli apprezzare pienamente; questo “Tides of time” non è male come disco, soprattutto dal punto di vista prettamente strumentale, ma per quanto fin qui descritto non riesce a strappare più della sufficienza.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    22 Dicembre, 2024
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Gli Steel Inferno sono un gruppo di Copenhagen formatosi nel 2012; nella loro carriera hanno realizzato diversi singoli e tre full-lengths (l’ultimo dei quali, risalente al 2022, è stato recensito dal sottoscritto su queste stesse pagine), prima di rilasciare questo “Rush of power” a fine novembre 2024 per la label danese From The Vaults. Il sound degli Steel Inferno è fermo agli anni ’80, allo speed metal di gente come gli Agent Steel (quelli dei primi dischi), con qualche spruzzata di US-Metal ispirata soprattutto ai primi Helstar. Tornando agli Agent Steel, è abbastanza evidente che il singer Chris Rostoff si ispiri fortemente nel suo stile canoro a quello del mitico John Cyriis, risultandone però solo una copia non ottimamente riuscita ed un po’ rauca. Ma veniamo a questo album, dotato di artwork alquanto brutto (non che quelli dei suoi predecessori fossero migliori…) e composto da sole 9 tracce per la durata di poco più di 34 minuti. Il songwriting è quindi estremamente conciso ed anche alquanto efficace, visto che lo speed metal non richiede canzoni particolarmente elaborate, ma più che altre basate su ritmiche veloci e chitarre affilate come rasoi. In questo sicuramente la band danese riesce egregiamente, con il batterista Krzysztof Baran che lancia il suo strumento spesso a velocità folli (specie la doppia-cassa) e la coppia di chitarristi Lars Lyndorff e Jens Andersen che si danno da fare tra riff ed assoli. La registrazione è ancora una volta alquanto old-style e sacrifica il basso di Thierry Zubritovsky che si sente fin troppo in sottofondo; potremmo aprire un ampio capitolo sul senso di registrare a questa maniera un disco del 2024, ma appare evidente che agli Steel Inferno poco importa di tali dettagli! Loro amano quelle sonorità “vintage”, quel sound che in tanti hanno già suonato da oltre 40 anni a questa parte ed il resto potrebbe tranquillamente andarsi a farsi benedire! Evitiamo, quindi, di addentrarci in discorsi su originalità ed innovazione, perché mi sa che sono capitoli assenti nel vocabolario di questo quintetto danese. E già solo per la passione evidente e per l’impegno che ci mettono vanno rispettati, se poi aggiungiamo che, in fin dei conti, lo speed metal degli Steel Inferno è piacevole da ascoltare, allora capirete perché questo “Rush of power” raggiunge sicuramente la sufficienza. Disco riservato agli appassionati di questo genere di sonorità old-style, astenersi soggetti differenti.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    22 Dicembre, 2024
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I Sign of the Jackal arrivano da Rovereto in Trentino e sono attivi dal 2008; finora hanno realizzato, oltre ad un demo nel 2008, un EP nel 2011 e due LP nel 2013 e 2018; a fine novembre 2024, grazie alla label tedesca Dying Victims Productions, hanno realizzato il loro terzo album con questo “Heavy metal survivors”. Il disco è dotato di artwork alquanto old-style (come si usava negli anni ’80) ed è composto da 10 tracce per poco meno di 40 minuti di durata totale, fra cui anche una cover di tali Childhood’s end, sconosciuta band americana che ha realizzato solamente un EP nel 1985. Per chi non conoscesse il gruppo trentino (come il sottoscritto, prima di questa recensione), vi sono stati dati tanti dettagli che ne lasciano immaginare il sound: il titolo del disco, l’artwork, la cover di un gruppo degli anni ’80… avete indovinato? I Sign of the Jackal sono devoti all’heavy metal che si suonava 40 e passa anni fa e non gliene frega assolutamente niente di mode, innovazione, originalità e tempo che passa, loro vivono sulla loro pelle e nel loro cuore quelle sonorità e tanto basta! Fatevene insomma una ragione, qui non c’è posto per le sonorità moderne, ma c’è solo e soltanto quel fottutissimo heavy metal che esplodeva negli anni ’80 grazie alla NWOBHM ed allo US-Metal. Le varie canzoni puzzano di fumo e whisky (o birra, se preferite), di giubbotti di pelle e borchie, di capelli cotonati e toppe colorate con i vari loghi delle bands preferite e più famose. La registrazione, fortunatamente, non è così “vintage”, anche se la batteria poteva essere trattata meglio (soprattutto il rullante ha quel fastidioso “effetto fustino del detersivo” che fa accapponare la pelle!). Se quindi amate queste sonorità old-school, questo disco potrà fare al caso vostro e potrete apprezzare la voce squillante ed acuta della singer Laura “Demons Queen” Coller, gli assoli dei due chitarristi ed il ritmo frizzante imposto dalla batteria di Corrado “Hellblazer” Menegatti, con il basso a pulsare in sottofondo; qualcuno di contro potrà chiedersi che senso abbia suonare ancora a questa maniera nel 2024, quando l’hanno già fatto in miriadi di gruppi da 40 anni a questa parte. La risposta è semplice: suoniamo la musica che amiamo e ce ne fottiamo di tutto il resto! Con questa filosofia, sicuramente riuscirete ad apprezzare anche voi i Sign of the Jackal ed il loro “Heavy metal survivors”.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    22 Dicembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 22 Dicembre, 2024
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Solitamente un live album esce dopo aver pubblicato qualche album da studio con un po’ di canzoni tra cui scegliere, invece gli americani Wings of Steel hanno deciso di autoprodursene uno, intitolato “Live in France”, praticamente all’inizio della propria carriera (la band è attiva da pochi anni), con solo un LP ed un EP alle spalle. Oltre al duo che costituisce la line-up ufficiale della band, si sa solo che tale Marcel Binder si è occupato della batteria, mentre la restante parte dei session-men non è stata resa nota (sia per il basso che per la seconda chitarra). Il disco è stato registrato al Le Splendid di Lille il 17 maggio 2024, ha il classico artwork della band con i due Pegaso in primo piano (ormai vere e proprie mascotte del gruppo) ed è composto da 8 tracce per una durata totale di poco inferiore ai 40 minuti. Non avendo da scegliere tra molti dischi, la scaletta è stata maggiormente incentrata sull’unico full-length (“Gates of twilight” del 2023) con le prime 4 tracce e la settima; dall’EP d’esordio (“Wings of steel” del 2022) invece troviamo le tracce 5 e 6 oltre alla conclusiva. Per chi non conoscesse questo gruppo (come il sottoscritto prima di questo live album), si sappia che suona un piacevole heavy metal, alquanto old-school, con qualche digressione nel melodic power; tutto molto orecchiabile quindi e ricco di melodia, con la voce del buon Leo Unnermark che cerca sempre di raggiungere (spesso con successo) le note più alte del pentagramma, mettendo in evidenza una non indifferente potenza. Personalmente ho apprezzato maggiormente “Cry of the damned” e “Gates of twilight”, anche per via della presenza di piacevoli parti soliste di chitarra e basso; forse avrei puntato più sul ritmo ed avrei evitato di piazzare in scaletta ben due ballads (“She cries” e “Liar in love”) ma, come detto, non avendo da scegliere su tanto materiale, evidentemente non c’era molto altro da inserire. Si tratta comunque di un disco di breve durata, piacevole da ascoltare e che può permettere di scoprire questi Wings of Steel, gruppo dotato sicuramente di buone potenzialità. Vedremo cosa riserverà loro il futuro dopo questo “Live in France”, magari con una line-up completa…

P.S. Come comunicato dalla stessa band, nel live hanno suonato anche Stefan Bailet (chitarra ritmica) e Mathieu Trobec (basso).

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