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Opinione scritta da Ninni Cangiano

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    03 Mag, 2025
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I Black Denim Rage sono un gruppo formatosi in Florida nel 2019, con all’attivo una serie di demo e singoli, un live album ed una compilation (usciti prima ancora di qualsiasi LP!), oltre a tre full-lengths, di cui questo “Chaos of war” è l’ultimo, rilasciato ad ottobre 2024 dalla Witches Brew, label tedesca specializzata nell’underground. Guardando le foto della band americana mi è sembrato di tornare indietro nel tempo, a quando da ragazzino negli anni ’80 mi approcciavo al mondo metal, con toppe sui giubbotti e capigliature che si usavano all’epoca; ebbene i Black Denim Rage sembrano usciti direttamente da 40 anni fa sia a livello di immagine che di sound e di produzione. Se si può sorvolare su un’immagine non proprio al passo coi tempi, quello che ritengo non tollerabile è la produzione così “old-style” che crea una specie di impasto sonoro, penalizzando soprattutto basso e batteria, mantenendo invece la voce di James “Speed Veteran” Balcazar (tra l’altro, niente di eccezionale) a volume superiore. Il sound è uno speed/thrash metal come quello che in miriadi di altri gruppi hanno suonato da 40 anni a questa parte ed è quindi evidente l’amore del gruppo americano per tali sonorità vintage e già solo per questo meritano rispetto. Più che altro, tralasciando discorsi su originalità ed innovazione, il problema principale, oltre alla voce tutt’altro che spettacolare del cantante, è una notevole ripetitività dei vari pezzi (“Selected to die” è emblematica in tal senso, con un coro ripetuto all’infinito) che rischiano fortemente di annoiare già al primo ascolto, figurarsi a doversi sciroppare diversi ascolti… fatta a questa maniera, viene anche spontaneo domandarsi che senso abbia questa proposta musicale al giorno d’oggi, dato che non ha nulla di convincente o attraente e lo affermo da fans dello speed metal che ascolto con piacere sin dagli ormai lontani anni ’80! Qualche spiraglio c’è solo nella parte finale della tracklist, in cui “Here’s hourney” e “Legacy” lasciano intravedere qualcosa di interessante, anche se restano zavorrate da un minutaggio che, per un genere come lo speed metal, è da ritenersi eccessivo. Mi dispiace per i Black Denim Rage, ma questo “Chaos of war” è ben lontano da raggiungere anche solo una risicata sufficienza e per il futuro serve come il pane un cantante migliore ed una robusta rivisitazione del songwriting, al fine di evitare di ripetere cori e coretti all’infinito.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    01 Mag, 2025
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I Palantyr nascono dalle ceneri dei Destrukt, gruppo francese attivo per un decennio dal 2014 all’agosto 2024, quando appunto ha cambiato nome nell’attuale; trovato un contratto con la svedese Jawbreaker Records, in questi giorni di inizio maggio viene rilasciato l’album (anche se sarebbe più indicato definirlo “mini-LP”) intitolato "The ascent & the hunger", composto da soli 6 brani per la durata totale di circa 32 minuti. Bisogna precisare che le prime tre canzoni facevano parte dell’EP autoprodotto “The ascent”, uscito a fine novembre 2023, quando la band si chiamava ancora Destrukt, mentre la seconda metà è inedita. Guidati dalla voce potente di Athéna (all’anagrafe Athénais Kordian), i francesi suonano un heavy metal old-style, con forti influssi epic, che fa pensare a gruppi del passato come gli indimenticabili tedeschi Attack, ma anche a bands contemporanee come i newyorkesi Tower, con i quali condividono la presenza di una voce femminile e ritmi spesso frizzanti imposti dal valido batterista (leggermente penalizzato da una registrazione un po’ “vintage”). Strumento principale è naturalmente la chitarra di Atlantès (che, se non erro, nei Destrukt si faceva chiamare T. Karburator) che intesse riff e ricama piacevoli assoli che ricordano i maestri Iron Maiden, specie quando sono suonati in “twin guitars” assieme agli altri solisti ospiti; questa somiglianza si sente soprattutto in “Son of the white mare”, canzone che non sfigurerebbe affatto in uno dei primi dischi degli Irons dell’era Di’Anno. Si sente in sottofondo il basso di L.R., ma anch’egli è leggermente penalizzato dalla registrazione e meriterebbe maggior risalto. Tra i brani c’è anche una cover di un pezzo degli anni ’80 di tale Paul Roland, cantautore inglese alquanto lontano dal mondo heavy metal ma che i Palantyr metallizzano a dovere, rendendola anche piacevole. Non conosco il passato di questi francesi, quando ancora si chiamavano Destrukt, quindi non sono in grado di fare paragoni, ma posso affermare tranquillamente che questo “The ascent & the hunger” è un disco davvero piacevole da ascoltare ripetutamente, soprattutto per chi ama queste sonorità old-style, ispirate agli anni ’80. Se per il futuro i Palantyr miglioreranno la produzione dei loro dischi, sono certo che sentiremo ancora parlare di loro in maniera più che positiva, dato che talento e passione non mancano sicuramente!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    01 Mag, 2025
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Con il nome di Phantom esistono parecchie bands, oggi parleremo dei messicani di Guadalajara, formatisi nel 2021; si tratta di un gruppo molto prolifico, dato che in 4 anni ha rilasciato una marea di singoli/demo, uno split, un EP, una compilation, un live album e due full-lengths, di cui questo “Tyrants of wrath” è l’ultimo, uscito a fine aprile per la tedesca High Roller Records, ormai una garanzia nell’underground mondiale. Ma cosa suonano i messicani? Il loro è uno speed/thrash molto violento, con il vocione del chitarrista J.C. (lettere che stanno per Juan Carlos) García che urla la propria rabbia senza soluzione di continuità. La batteria di J. P. (Juan Pablo) Alatorre impone ritmi spesso forsennati, con la doppia-cassa a manetta, mentre le due chitarre dello stesso García e di Harel O. (all’anagrafe Harel Alejandro Olguín) macinano riff affilati come rasoi e qualche piacevole parte solista; un po’ sacrificato in sottofondo il basso di Raír Tavizón (che è emerge sostanzialmente solo nella violentissima “Dance of the spiders”), per nulla facilitato dall’impasto sonoro creato dalla registrazione un po’ (troppo?) vintage. Non ci addentriamo in discorsi su originalità ed innovazione, dato che sono vocaboli evidentemente sconosciuti ai Phantom; la loro musica, infatti, è stata suonata da miriadi di gruppi prima di loro negli ultimi 40 anni, ma credo che questo particolare ai quattro ragazzi messicani non interessi proprio! E’ solare infatti che suonano per il loro amore verso l’heavy metal e per la passione che hanno verso queste sonorità così old-style e già solo per questo meritano il massimo rispetto. Se andiamo a guardar bene, infatti, il disco non è fatto assolutamente male, questa musica infonde energia a profusione e la voglia di zompettare qua e là e mettersi a pogare è sempre ben presente. I vari ascolti dati a questo album sono quindi sempre stati abbastanza piacevoli ed alla fine dei conti è questo che si chiede alla musica, che sia in grado di intrattenerci gradevolmente. Certo la voce del cantante non è niente di particolare ed, a lungo andare, può anche risultare monotona e poco espressiva, sorprende solo in “Nimbus” quando smette di urlare e si mette a cantare (anche decentemente), tanto che viene il sospetto sia un’altra persona a farlo. Da segnalare infine “Nocturnal opus 666”, pezzo per solo pianoforte, molto piacevole (anche se del tutto avulso dal contesto), di cui ignoriamo chi l’abbia suonato. Se siete fans dello speed/thrash old-style, allora questo “Tyrants of wrath” dei Phantom potrebbe fare al caso vostro; in caso contrario, è bene sapere che in giro c’è comunque di meglio, anche nello specifico settore.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Aprile, 2025
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Gli Hans & Valter sono un gruppo svedese formatosi nel 2024; Hans sarebbe il cantante e tastierista Liam Strand, mentre Valter sarebbe il batterista Oscar Heikkinen; assieme a loro c’è il chitarrista Olle Renius ed altri due membri rispettivamente voce secondaria e voce narrante. Il genere suonato è un canonico power metal di scuola scandinava, ispirato a gente come Gloryhammer, Twilight Force, ecc., con testi fantasy che parlano di un reame immaginario, una sorta di Svezia alternativa, con reami vari, eroi e forze oscure. Non a caso la voce narrante è la protagonista di 4 delle 10 tracce che non sono altro che brevi intro per i successivi brani. Questo “The legend of the Oakensource” è il debut album della band svedese, ha un artwork non proprio esaltante (che raffigura i due leader del gruppo) e dura molto poco (soli 34 minuti), anche per la presenza, come detto, delle 4 brevi intro narrate. Le restanti 6 canzoni sono molto orecchiabili e si contraddistinguono per il timbro vocale di Liam Strand che non è il classico cantante power dall’ugola acuta, ma è quasi baritonale e predilige note più basse e calde, oltre ad essere alquanto espressivo. La grande assente di questo disco è la chitarra! Olle Renius si limita a dei riff di contorno e non è mai protagonista, surclassato dalle tastiere del leader e questa mancanza si sente eccome; la chitarra elettrica è la protagonista della musica heavy metal e relegarla al compitino di mero accompagnamento delle tastiere, senza nemmeno una briciola di assolo, è una scelta ardita ed oserei dire anche alquanto infelice. Il sound, infatti, sa di artificioso e non convince appieno proprio per il fatto che la chitarra si sente solo nei riff. Dispiace perché il ritmo è sempre bello frizzante (Heikkinen ci sa fare con la batteria!) e le melodie sicuramente orecchiabili, ma ci sono troppe tastiere e troppo poca chitarra ed alla lunga, ascolto dopo ascolto, questa particolarità finisce per essere un difetto non da poco conto. Rincresce dirlo, perché i 6 brani sono ben costruiti ed anche efficaci ma, per essere anche convincenti, hanno bisogno come il pane di qualche assolo di chitarra; quando poi si sente persino il sax (nella fin troppo lunga “The endless night”) fare un assolo, si raggiunge l’apoteosi del pacchiano (potevano insomma risparmiarcelo!). Bisogna, infine, aggiungere che la band usa anche costumi di scena, chiaramente collegati al concept che c’è dietro i testi. Gli Hans & Valter per il futuro hanno bisogno di dare maggior importanza alla chitarra, al fine di avere qualche speranza di poter uscire dall’underground svedese e farsi notare in positivo; per adesso questo “The legend of the Oakensource”, pur essendo obiettivamente gradevole da ascoltare, si avvicina solamente alla sufficienza, ma non è in grado di raggiungerla.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Aprile, 2025
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Dopo l’ottimo “Creepy symphonies” era parecchio difficile per i Trick or Treat riconfermarsi, eppure questo “Ghosted” conferma la band emiliana come uno dei punti di riferimento per il power metal, non solo a livello italiano, ma oserei dire a livello mondiale! Alle Conti è uno dei migliori cantanti in assoluto in campo power e pochi, pochissimi sono al suo livello; i due chitarristi Guido Benedetti e Luca Venturelli alla chitarra ci deliziano con parti soliste semplicemente splendide e con melodie ultra-orecchiabili; Leone Villani Conti è il solito mostro al basso (vedendolo suonare a quella velocità fa davvero impressione!) e non serve aggiungere altro; persino il nuovo entrato Dario Capacci alla batteria (è il primo album con lui) si distingue in positivo, non facendo assolutamente rimpiangere chi l’ha preceduto. Ci sono poi le 10 canzoni (cui si aggiunge una simpatica intro) che compongono l’album, 10 canzoni una più bella dell’altra, nelle quali mi sembra ci siano anche diverse citazioni altrui (l'ultima traccia, ad esempio, ricorda vagamente gli Elvenking nei cori), con ritmi sempre frizzanti ed un’allegria di fondo semplicemente contagiosa. Da “Craven road” (credo dedicata al personaggio di Dylan Dog), passando per le successive “Bloodmoon” (in cui troviamo ospite Adrienne Cowan) e per la title-track, ma anche per le splendide “Evil dead never sleeps” e “Make a difference” (probabilmente la migliore del disco), fino alla conclusiva “Bitter dreams” è tutto un succedersi di brani che manderebbero in brodo di giuggiole qualsiasi amante del power metal. Se dal vivo i Trick or Treat sono una garanzia assoluta di spettacolo, ormai anche da studio sfornano uno dopo l’altro dischi semplicemente strepitosi e questo “Ghosted” ne è l’ennesima conferma. Inutile dilungarsi ulteriormente, altrimenti si rischia solo di diventare stucchevoli nell’elencazione dei pregi di questo gruppo e di questo full-length che è semplicemente un “Must”. Sarà difficile per chiunque scalzare questo album dal gradino più alto dei migliori dischi dell’anno! Spettacolo puro!!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    26 Aprile, 2025
Top 10 opinionisti  -  

Sono passati sei anni da “Origine – The black crystal sword saga part 2” e tornano a farsi vivi i romagnoli Ancient Bards con il loro quarto album intitolato “Artifex”, dotato di splendido artwork e composto da 13 pezzi per la durata totale di quasi 63 minuti. Sull’album compaiono diversi ospiti, come i vocalists Francesco Cavalieri (Wind Rose) e Mark Jansen (Epica), il violinista dei Winterage Gabriele Boschi ed il mitico Simone Mularoni (DGM) alla chitarra. A livello testuale, si riprende la saga della black crystal sword, ma aprendone nuovi orizzonti, dato che la storia originale era conclusa nel precedente album. Musicalmente abbiamo il consueto symphonic power, con la splendida voce della Squadrani come meravigliosa protagonista; purtroppo, accanto a lei, sono parecchie le parti in growl, sia del chitarrista Simone Bertozzi, che dei due ospiti Mark Jansen (sulla quarta traccia) e Francesco Cavalieri (sulla terza), che alla fine rischiano di risultare persino fastidiose ed ingombranti, finendo per assimilare il sound a quello di tante (forse anche troppe ormai) bands nel symphonic che usano il growl accanto a voci femminili. Se in precedenza l’utilizzo di questo particolare stile canoro era sempre presente, ma più moderato, ora gli Ancient Bards ne fanno largo uso, come fanno tantissimi altri gruppi simili, perdendo quella singolarità che finora li aveva distinti dalla massa. Sarà che sinceramente mi sono stancato di questa associazione di stili canori così differenti, sarà per chissà quale altro motivo, fatto sta che, pur comprendendo le esigenze dei testi della saga, sinceramente ho faticato ad apprezzare. E dispiace che vada a questa maniera, perché musicalmente il disco è davvero ben fatto, le orchestrazioni di Daniele Mazza sono sopraffine ed eleganti, i cori sono solenni, gli assoli di Claudio Pietronik sono sempre di gran gusto e la parte ritmica si distingue molto positivamente, con Federico Gatti alla batteria che, quando impone ritmi brillanti, con un sapiente uso della doppia-cassa, è notevole. Ci sono diverse canzoni di ottima qualità (“Soulbound symphony” su tutte, semplicemente un capolavoro, tanto che se tutti i brani fossero stati a questo livello, staremmo a parlare del disco dell’anno!) ed il disco si lascia comunque ascoltare gradevolmente. Forse nella scelta della scaletta avrei evitato di piazzare pezzi lenti troppo ravvicinati (la ballad “Unending”, semplicemente da brividi, subito seguita da “Ministers of light”, altro pezzo che non brilla per ritmo), ma si tratta di punti di vista personali che, come tali, sono sempre ampiamente opinabili. Ciò che non è opinabile è la qualità della musica degli Ancient Bards e questo “Artifex”, pur non essendo al livello dei suoi predecessori, è comunque un disco superiore alla media che potrà andare sicuramente incontro ai gusti dei fans della band riminese e del symphonic metal in genere.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    21 Aprile, 2025
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I Lamašhtu sono un gruppo svedese formatosi 10 anni fa, con tre full-lengths realizzati prima di questo “Längtan”, inizialmente uscito come autoproduzione a luglio 2024 e poi rilasciato dalla WormHoleDeath pochi giorni prima di Natale. L’album è dotato di piacevole artwork ed è composto da 9 tracce per la durata di quasi 55 minuti. Particolarità del gruppo di Gothenburg che prende il nome dalla propria leader è il fatto che i testi sono tutti in svedese. Tale scelta, aggiunta ad un sound che tutto è fuorché semplice, può rivelarsi un’arma a doppio taglio, in quanto non rende particolarmente fruibile la loro proposta musicale. Ma cosa suonano i Lamašhtu? Il loro sound è fondamentalmente un symphonic metal, all’interno del quale però vengono inserite tantissime contaminazioni, dal gothic all’avantgarde, passando per il black metal e persino qualcosa di prog; un potpourri insomma di difficile assimilazione e per il quale serve essere della giusta predisposizione mentale per poter apprezzare, dato che l’aggettivo “alienante” è quello che maggiormente mi è venuto in mente, durante gli ascolti di questo album. A contribuire a rendere complesso l’ascolto, si aggiunge un minutaggio a volte parecchio elevato, fin troppo ad essere sinceri, soprattutto verso la parte finale della tracklist, con il rischio di finire per annoiare; gli ultimi pezzi, infatti, avrebbero avuto un migliore funzionamento se accorciati da inutili orpelli di 2-3 minuti almeno ciascuno. Oltretutto i ritmi non sono particolarmente frizzanti e la quantità di cori epici danno anche un alone di mistero che probabilmente è voluto appositamente dal gruppo per esaltare ancora maggiormente il concept che c’è dietro i testi. A tal proposito, occorre specificare che i testi girano attorno a Joar, un personaggio introdotto nel precedente album “Tro” in cui è iniziato il concept su Eli, una ragazza dell’antica Mesopotamia che, insoddisfatta della propria vita familiare, inizia ad incontrare creature misteriose che cambieranno il suo mondo. Ecco quindi che è facile dedurre che le musiche siano state concepite a seguito del concept che c’è dietro ai testi dell’album. A voler cercare un paragone, prenderei i Therion più cervellotici, ma qui abbiamo una voce femminile (anche alquanto particolare) quale protagonista assoluta, mentre le altre sono solo un contorno. Come detto, qui c’è tanta, ma tanta roba differente, tanto che la definizione “symphonic” sta alquanto stretta; alle volte però il troppo stroppia e bisogna essere della giusta predisposizione mentale e di spirito per poter uscire indenni dall’ascolto di questo disco, sicuramente singolare ed estremamente particolare, finanche ipnotico in alcuni frangenti. Per il futuro i Lamašhtu dovranno stare più attenti all’efficacia dei propri componimenti, magari accorciando i vari brani, al fine di ottenere una maggiore fruibilità ed evitare i rischi di annoiare un ascoltatore poco attento; continuando su questa strada come in questo “Längtan”, infatti, finiranno per essere fin troppo di nicchia, mentre è evidente che con questo enorme talento meriterebbero attenzione e visibilità.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    20 Aprile, 2025
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I Sacrifix sono un gruppo che arriva da São Paulo in Brasile, formatosi nel 2019 per iniziativa del cantante e polistrumentista Frank Gasparotto (di chiara origine italiana), con all’attivo un paio di singoli, 2 LP e 3 EP, fra cui questo “Let’s thrash”, autoprodotto a febbraio di quest’anno, ma arrivatoci con un paio di mesi di ritardo. Il disco, dotato di artwork per nulla esaltante, è composto da 6 pezzi per poco meno di mezz’ora di durata totale; si tratta di un inedito che dà il titolo all’EP e la versione “prova” di 4 brani estratti dal precedente repertorio, nonché della stessa title-track nella medesima versione “prova”. Il genere suonato dai Sacrifix è un thrash violento e tirato, con la voce aggressiva di Gasparotto che non convince particolarmente, anche se può anche starci con un genere così duro, nonostante obiettivamente non sia questo granché. Si tratta anche del primo disco con la nuova line-up, con Filippe Tonini che ha preso il posto di Kexo al basso e Fábio 'Jô' Moysés subentrato a Gustavo Piza alla batteria; è, inoltre, il primo disco della band con due chitarristi in formazione. Lo stile del thrash ricorda da vicino quanto fatto da gente come Exodus (soprattutto), Slayer (dei primi dischi) e Dark Angel; la band è quindi chiaramente ispirata dalla parte più violenta della Bay-Area, ma qualche lontano richiamo alla scena tedesca di Kreator e Sodom la si può anche sentire nel materiale più datato. Non è intendimento di questi brasiliani essere innovativi oppure originali, ma solo di suonare la musica che amano e sfogare tutta la loro energia con un approccio duro come una mazzata sulle gengive. Le chitarre sono affilate come rasoi, il basso pulsa come un pazzo, mentre la batteria non rallenta praticamente mai, imponendo ritmi forsennati. C’è di meglio in giro nel thrash? Sicuramente negli ultimi 40 anni, abbiamo ascoltato anche molto di meglio, ma va riconosciuta ai Sacrifix la passione e l’energia che hanno in quantità e già solo per questo motivo questo “Let’s thrash” merita rispetto ed un lusinghiero risultato. Mezzo voto in meno per la copertina davvero brutta.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    19 Aprile, 2025
Ultimo aggiornamento: 19 Aprile, 2025
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Devo ammettere che non conoscevo approfonditamente i croati Manntra, gruppo folk metal che a metà marzo di quest’anno ha rilasciato il proprio quinto album, intitolato “Titans”. Mi devo subito scusare con i fans della band e dello specifico settore per aver pubblicato questo testo con ritardo di oltre un mese, ma purtroppo lo streaming è una modalità di recensione molto problematica per chi fa tutto questo nei ritagli di tempo e l’austriaca Napalm Records non concede altre possibilità. Ma veniamo alla musica. Come detto, i Manntra suonano folk metal e ricordano davvero parecchio i più famosi Feuerschwanz (con cui condividono anche la stessa label), sia per ritmica, che per la strumentazione utilizzata, ma anche per lo stile della voce di Marko Matijević Sekul e (particolare non di ultima rilevanza) per i costumi di scena utilizzati. L’ascolto è quindi molto easy, grazie ad una naturale orecchiabilità e ad un’allegria di fondo della musica, che infonde subito voglia di canticchiare e zompettare seguendo i ritmi frizzanti delle varie canzoni; mi immagino, infatti, di ascoltare questa musica seduto ad un tavolo di una birreria con una bella birra ghiacciata in mano a gridare i vari cori e coretti assieme ad altra gente. Già, perché una delle caratteristiche di questi brani è quella di avere un sacco di cori e coretti (forse anche troppi, per essere sinceri, soprattutto quelli di voce femminile) che, in sede live, servono a coinvolgere e trascinare il pubblico. Purtroppo, vedendo il sito della band, i loro concerti sono limitati solo al loro paese natio, oltre ad Austria e Germania, dove evidentemente questo genere musicale ha più seguito. Ho ascoltato e riascoltato più volte questo disco (come ogni buon recensore dovrebbe fare ogni volta!) ed il risultato era sempre piacevole che, in fin dei conti, è quello che si richiede alla musica. L’album è dotato di splendido artwork ed è composto da 12 pezzi (compresa l’immancabile inutilissima intro ed una cover degli irlandesi Miracle of Sound), per una durata totale di circa 36 minuti, segno che il songwriting è conciso, ma efficace. Personalmente, avrei evitato un po' di inserti elettronici e qualche ripetitività eccessiva verso la fine ("Forgotten pt.2 - The Ritual" ad esempio), ma si tratta di gusti personali, ampiamente opinabili in quanto tali. Forse manca quella hit che ti faccia saltare dalla sedia e da sola valga l’acquisto del cd, ma si può affermare che questo “Titans” dei Manntra è un album valido che potrà sicuramente andare incontro ai favori dei fans della band e del folk metal in genere.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    12 Aprile, 2025
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I Löanshark arrivano da Barcellona e si sono formati nel 2017; tra loro milita anche il cantante e chitarrista sardo Lögan Heads (nome d’arte evidente, ma non ci è nota la reale identità). In questi anni ha rilasciato solo un EP nel 2018, una compilation ed una manciata di singoli, prima di questo “No sins to confess”, uscito a San Valentino niente meno che per la ROAR/Rock of Angels. Il disco è composto da 10 brani (finalmente nessuna inutilissima intro!), due dei quali erano anche presenti sulla predetta compilation (le tracce 2 e 10), per la durata totale di poco meno di 40 minuti; tra essi annoveriamo anche la cover dei Marseille, un gruppo storico della NWOBHM, attivo principalmente tra gli anni ’70 ed ’80 ma, teoricamente, ancora in essere (l’ultimo disco risale però a 15 anni fa). Da questo potrete comprendere che i Löanshark amano l’heavy metal old-style, quello degli anni ’80, come anche evidente dall’artwork dell’artista Stanislav Atanasov, in pieno stile retrò. Fortunatamente la registrazione non è vintage (come spesso accade a gruppi simili), ma è al passo coi tempi e permette di assaporare degnamente i vari strumenti. Naturalmente, con simili premesse, è inutile cercare originalità o innovazione, concetti che evidentemente non interessano per niente ai Löanshark che suonano per la loro passione ed il loro amore verso questo tipo di heavy metal e già solo per questo meritano il massimo rispetto. Le varie canzoni si lasciano ascoltare gradevolmente e non sono pochi i richiami anche all’hard rock ed allo speed metal, soprattutto quando il batterista Ángel Smolski (niente a che vedere con il più famoso Victor) pesta per bene sulla doppia-cassa, anche se il nome dei Judas Priest è quello che maggiormente viene in mente come musa ispiratrice della band. La voce del cantante sardo Lögan Heads non è niente male, acuta a dovere ed anche versatile e si sposa alla perfezione con il sound della band. Manca forse quella hit che ti fa saltare dalla sedia e da sola vale l’acquisto del cd ma, tutto sommato, ci troviamo comunque davanti ad un buon album. I Löanshark non passeranno alla storia con questo “No sins to confess”, ma hanno realizzato un disco che può far passare 40 minuti in spensieratezza, mettendoci tutta la loro passione ed il loro talento! Se poi siete appassionati di queste sonorità old-style, fateci un pensierino…

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