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Opinione scritta da MASSIMO GIANGREGORIO

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    27 Giugno, 2020
Ultimo aggiornamento: 27 Giugno, 2020
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Ci eravamo lasciati con la recensione dell’EP “From the Grave”, nella quale avevo preannunciato l’orrida e torrida uscita del nuovo full-length dei nostri quattro distruttori. Ebbene, il momento fatidico è giunto: i teppisti newyorchesi ci danno in pasto un album che riprende il discorso esattamente dove l’EP lo aveva interrotto, ossia mazzate senza pietà e senza requie per nessuno!
La rabbia scorre incontrollata tra i solchi e travolge tutto e tutti come un fiume in piena che non lascia scampo, includendo le tre tracce già presenti nella precedente fatica. I toni si fanno vieppiù apocalittici, ergendosi a baluardo dell’hardcore più intransigente ed estremo, espresso attraverso pieces cortissime e ultra-violente, con tanto di cori virili a fare da contorno. La produzione esalta la sezione ritmica, facendo spiccare dei bassi profondi che sconquassano il corpo con delle vibrazioni allucinanti e lancinanti: ragazzi, questa musica è sempre stata e sempre sarà sofferenza (anche fisica) allo stato puro, all’ascolto della quale bisogna lasciare fino all’ultima goccia di sudore. L’ibridazione tra punk e thrash qui raggiunge livelli eccelsi, con cambi di tempo repentini (sia pure nella brevità dei brani) e posso dire – senza tema di smentita – che riuscire ad “ascoltare attivamente” tutto questo cd è un’autentica impresa non per tutti.
E ora vi saluto, devo assolutamente prendere un integratore di sali minerali e strizzare la maglietta.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    13 Giugno, 2020
Ultimo aggiornamento: 13 Giugno, 2020
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La Grande Mela è da sempre uno dei crogiuoli musicali di questo nostro martoriato Pianeta, come lo sono Londra e Berlino. È la fucina dove si sono forgiati tutti i generi musicali, più o meno popolari, più o meno condivisi ma è sempre stata indiscutibilmente la culla di tutte le nuove tendenze. Non fece eccezione un micidiale incrocio tra il punk vecchia scuola ed il thrash metal nativo della Bay Area, di San Francisco, la megalopoli del “Big One”. Un mix tellurico di rabbia, velocità, intransigenza per duri e puri cultori della ultra-violenza musicale e non solo. Tra i precursori di quello che fu ribattezzato Hardcore, dal 1980 c’erano i Cro-Mags i quali – da allora – non si sono più fermati. La loro è una sconfinata discografia improntata a votata alla più caustica tematica di ribellione sociale condita con testi al vetriolo e sound che non fa sconti a nessuno. Ora, vengono fuori con un EP che costituisce un ghiotto aperitivo del nuovo, imminente full-length. Tre mazzate nelle gengive la cui durata è inversamente proporzionale alla violenza sonora: dolore breve ma incredibilmente intenso. La opening track ci asfalta subito, come sempre senza tanti complimenti e senza inutili fronzoli, proprio come una asfaltatrice guidata da un operatore psicopatico e stra-ubriaco. La successiva "PTSD", con il suo drumming nervoso e incalzante, ci rende come un thai boxer crivellato di colpi da un avversario spietato e velocissimo. La testata finale è affidata a “Beetwen Wars”, tanto muscolare quanto sorprendente; interamente musicale, crea delle sensazioni altamente evocative grazie ad una tinteggiatura con il violino ed un batterista nevrastenico. E con questo, per il momento, dalla tomba dei Cro-Mags è tutto. A presto con il loro imminente, apocalittico album.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    02 Febbraio, 2020
Ultimo aggiornamento: 02 Febbraio, 2020
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Il progetto Gunkack nasce nel 2017 all’ombra della Madunina; la band è composta da Mr. Messerschmitt (Alessandro Dominizi) alla voce/basso, Gamma Mörser (Fabio Cavestro) alle chitarre e M47 (Andrea Ornigotti) alla batteria. Influenzati da Old School Metal e big band come Motörhead, Iron Maiden, Judas Priest e molti altri, usano il loro background musicale per fondere riffs old style con un suono moderno. Questo album – il secondo dopo il debutto “Totally Insane” del 2018 - contiene 13 canzoni di puro Old School Heavy Metal, lasciando trasparire che il trio meneghino è cresciuto a pane e Motorhead: in certi tratti sembra davvero che al microfono ci sia la buonanima di quel diavolaccio di Lemmy! A beneficio dei due o tre più giovani, rammento che stiamo parlando della prima band (nata verso la metà degli anni ’70) che ha fuso rock’n’roll, punk degli albori e metal: una miscela esplosiva resa incontenibile dalla inimitabile voce e dall’inarrivabile stile di un certo Ian “Lemmy” Kilmister. Se poi consideriamo che il drummer Phil(ty) “Animal” Taylor è stato il primo ad utilizzare la doppia cassa seriamente (Overkill) nel 1979 o giù di lì, il devastante quadretto è completo.
I Gunjack mi fanno tornare nostalgicamente ai tempi in cui scrivevo recensioni sulle fanzines (rigorosamente ciclostilate e fotocopiate) ascoltando i demo tapes delle metal bands di tutta Italia che poi davo in pasto ai miei inferociti metalbangers nel corso dei miei programmi radio in FM per la genuinità ed onestà della loro proposta. I testi delle songs parlano di guerra, problemi sociali, emarginazione, religione e un po' di fantascienza, mentre il sound dell'album spazia dal Thrash metal al Rock'n Roll, fino a sonorità di Heavy Metal classico. L'attitudine dei Gunjack durante gli shows live è caratterizzata da musica ad alto volume (il motto di Lemmy è company era: ”Louder than everything else”), alcol (remember “Beer Drinkers & Hellraisers”), rock'n'roll e puro divertimento, compreso un po’ di sexy girls. La medesima attitudine dei Motorhead, passati alla storia anche perché il sound dei loro shows era il più potente in assoluto: una vera e propria muraglia di amplificatori Marshall che ti facevano tornare a casa dopo il concerto con le orecchie sanguinanti.
Una vera esperienza “Drunk'n'Roll” da provare!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    30 Dicembre, 2019
Ultimo aggiornamento: 30 Dicembre, 2019
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Lindemann, sono un duo tedesco-svedese formato da Till Lindemann (frontman dei Rammstein e Peter Tägtgren (deus ex machina di mitiche bands metal come Pain e Hypocrisy). Un suono epico ed industriale, intessuto in preziose trame metalliche ma non solo, contraddistinto da una grandeur ad elevato tasso di drammaticità, che avvolge nelle sue spire fino quasi a stritolarti per poi lanciarti nel vuoto delle aperture melodiche (ma pur sempre piene di pathos) a mo' di frisbie. Perfetto equilibrio tra chitarroni e synth evoluti ed evolutivi che trovano il giusto coronamento nella inconfondibile voce di Lindemann, resa ancor più coinvolgente e convincente dall'ormai classico cantato in tedesco (il loro primo lavoro “Skills in Pills” ha ottenuto il disco d’oro in Germania ed era tutto cantato in inglese). Proprio l’idioma teutonico (che fino all'avvento dei Rammstein sembrava improponibile, anche per tentare di contrastare l’egemonia della lingua di Albione) conferisce quel plus di durezza al sound complessivo. D'altronde – sia che si parli di industria che di musica dura, pura ed intransigente - i germanici non sono mai stati secondi a nessuno; se a ciò si aggiunge il fatto che siano stati praticamente i padri della musica elettronica fin dalla fine degli anni ’60 (nomi come Tangerine Dreams, Klaus Schulze, Kraftwerk vi ricordano nulla?) il quadro è completo!
Questo lavoro (sotto sotto venato di pura follia anticonformista) vede il duo formato da queste due menti altamente innovatrici dare il meglio sia sotto il profilo compositivo che esecutivo, risultando altamente convincente fin dalle primissime battute ("Steh Auf"): certamente non sarà gradito agli integralisti del metallo ma a tutti coloro che apprezzano le trasversalità sonore, i crossover musicali almeno fino al punto da non gridare all'eresia nell'ascoltare la ballad “Knebel” cantata in tedesco, il cui video è stato ritenuto tanto sconvolgente da essere trasmesso nella versione non censurata solo una volta, quasi a rinverdire i fasti del cabaret alla Marlene Dietrich per poi esplodere scaraventandoti verso il muro ineffabile dei chitarroni di cui sopra. E che dire dello spiazzante tango di “Ach so Gern” che sembra ricollegarsi proprio alla migliore tradizione della produzione musicale anni '30 immortalata da quei video rigorosamente in bianco e nero? La successiva “Schlaf Ein” non avrebbe sfigurato nella colonna sonora di un film di James Bond – 007. Con “Gummi” si torna invece alle sonorità tanto care al frontman dei Rammstein.
Come detto, una fatica davvero ben riuscita, altisonante, molto convinta e convincente, MA per menti musicalmente (e non solo) moooooolto aperte.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    15 Dicembre, 2019
Ultimo aggiornamento: 15 Dicembre, 2019
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Ho letto un articolo su questa concept-band su un numero di Metal Shock risalente al 2009 ma loro esistono da moooolto tempo prima. Concept-band in quanto si tratta di un vero e proprio progetto aperto a cui danno il loro contributo a 360 gradi ben 30 artisti ed intellettuali a tutto tondo, approcciando ed approfondendo tematiche di natura esoterica in maniera del tutto unica ed alquanto ostica. A ben vedere, nel caso di specie, il nostro beneamato metallo c’entra ben poco, nella sua accezione di genere musicale: siamo, più che altro, al cospetto di un’approccio più orientato alla narrazione ed alla performance visiva, messa in atto da personaggi che non possono certo definirsi ordinari che richiedono nell’ascoltatore anche un livello culturale piuttosto elevato. E, si badi, qui non si intende certo un qualcosa che abbia a che fare con grado di istruzione, titolo di studi, nozionismo ed altre amenità varie: qui di parla di grado di evoluzione spirituale, morale, religioso, etc. Qui si discetta di concetti e principi molto più profondi, fino a rasentare l’abbrivio iniziatico. Certo, il metal si presta meglio di qualunque altro genere a fungere da tappeto sonoro (senz’altro meglio della musica contemporanea alla Ligeti o alla Stockhausen ovvero alla dodecafonia) a cotanta possenza intellettuale e culturale.
E, devo dire, anche da questo punto di vista la line-up (in questo caso da intendersi nell’accezione ristretta del termine e cioè i musicisti che danno corpo al ridetto tappeto sonoro) non è assolutamente da meno, dando vita ad un composto alchemico degni di Cagliostro e di Flamel. Alchimia che trae origine anche dal fatto che i nostri sono avvezzi a rinchiudersi in eremi, cattedrali, cripte ed altre locations amene onde potersi concentrare al massimo sulla creatura finale. Creatura finale in cui si fondono, appunto, alchimia, misticismo, occultismo, esoterismo, religione, storia, politica, filosofia, etc. con lirica, dark & black metal! Of course, il fatto di decantare il tutto nel nostro nobilissimo idioma (ma non solo, facendo capolino anche il tedesco ed il latino… vedi "Sacre Gesta Cavalcano il Metallo / Heilige Taten Reiten Das Metall")
conferisce ulteriore congruenza al concept di base. Fa rabbia pensare che – un tempo – quasi tutte le opere liriche erano cantate in italiano (occhio a "Santo Frà Diavolo, Spara per Noi!"), che faceva la parte del leone che è poi divenuto appannaggio della lingua d’Albione ed oggi lo ritroviamo nelle lyrics solo grazie alle bands di metallo sinfonico, le quali trovano cosa buona e giusta pagare il doveroso tributo alla nostra tanto bistrattata lingua. Geniali anche se ostici, davvero di nicchia o, come si diceva una volta, “d’essai”; poco digeribili ma seminali. Da ascoltare, almeno una volta nella vita.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    08 Dicembre, 2019
Ultimo aggiornamento: 08 Dicembre, 2019
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Con mio grandissimo onore, sono a recensire un’altra opera di un vero e proprio mostro sacro del nostro beneamato genere musicale. Un'icona del New Wave Of British Heavy Metal, ossia quel movimento musicale che – nel periodo a cavallo tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 – ha segnato la nascita del metallo pesante fondendo le sonorità e le tematiche tanto care all’Hard Rock dei vari Deep Purple, Led Zeppelin, AC/DC, Black Sabbath, etc. con la frenesia punk della primissima ora capeggiata dai Sex Pistols, UK Subs, etc. Ma non solo: gli Angel Witch – traendo spunto dai Black Sabbath, un po’ come se fossero i loro figli degenerati - hanno senza dubbio creato il genere Dark Metal, dal quale promaneranno successivamente il Black Metal (con i capostipiti Venom) ed il Doom Metal (con in testa i Trouble, Candlemass e compagnia bella).
Ebbene, ascoltando questo loro ultimo album dedicato all’Angelo Portatore di Luce (indovinate un po’ chi è? L’etimologia dovrebbe aiutare... da Lucium Ferre… la figura più travisata nella storia dell’umanità...) sembra proprio che non siano passati ben 40 anni da quando il mitico Kevin Heybourne nel 1978 mise su un power trio (con Dave Hogg e Kevin Riddles) con cui partorire il primo, leggendario ed omonimo album, oggi davvero rarissimo da trovare, pietra miliare del genere. E lo si capisce, in primis, proprio dalla voce di Kevin, rimasta intatta e inconfondibile, come inconfondibile è il loro marchio di fabbrica. Non sono tante le bands del metalrama mondiale che possono vantare un vero e proprio marchio di fabbrica, nel senso di essere talmente unici da portare i fans a sapere già cosa aspettarsi da una loro nuova release. Il che potrebbe portare a valutare la cosa in negativo, come segnale di ripetitività ma che – considerando la ipertrofia del settore con tanti album assolutamente anonimi ed inutili - quantomeno dà la certezza di assoluta qualità tanto a livello compositivo quanto a livello esecutivo/interpretativo. Pur avendo sul groppone una discografia immensa, ancora oggi basti ascoltare non solo la opening-track ma le susseguenti “We are Damned”, “Condemned” e la immancabile dark-ballad “The Night is Calling” per capire come e da chi è nato il metallo a tinte fosche; concetto poi ulteriormente rinforzato dall’auscultare “I am Infamy” e la finale title-track dall’intro inquietante.
Come si suol dire: “una parola è poca e due sono troppe” e poche sono le parole da spendere per illustrare questa fatica della strega/angelo di Terra d’Albione, che dimostra di non avere la benché minima intenzione di smettere di tormentare le nostre esistenze con le sue sinistre, apocalittiche ed inconfondibili sonorità.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    30 Novembre, 2019
Ultimo aggiornamento: 03 Dicembre, 2019
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Non c’è che dire: un album ostico come ce ne sono pochi, questo partorito dalle menti tutt’altro che prevedibili di Karyn Crisis e Davide Tiso. La prima è una delle rarissime performers “a tutto tondo” che il panorama musicale alternativo abbia mai concepito, tanto per intenderci, una sorta di perverso innesto tra Siouxie Sioux e Diamanda Galas della prima ora: molto più che una mera cantante, una vera e propria sacerdotessa del palco, dedita ad invocazioni, riti, coronati da un singing che spazia tra quello di una strega paranoica a quello di una posseduta. Lui, oltre che marito di Karyn Crisis è stato una delle menti a dir poco contorte dei sottovalutati Ephel Duath, una delle bands più sperimentali di tutti i tempi, peraltro nostro connazionale che certamente avrà percorso sentieri musicali (e non solo) sconosciuti ai più. Ne è scaturito un genere giustamente battezzato “occult metal” la cui seconda gemma è questo “Covenant”: un lavoro guidato dalla sofferenza, tanto che mi ha fatto pensare al tormentone di un duo cabarettistico genovese che diceva: “pessimismo & fastidio” (beh, sdrammatizzare semper!).
Durante il tormentato ascolto, si ha la netta sensazione di stare seduto dando le spalle alla foresta nera tanto cara ai blacksters scandinavi, pervasi da una inquietudine senza fine. Si parte con "Womb of the World", dal riff ipnotico ed il drumming nevrastenico in cui la dolce Karyn ci regala sprazzi di timoroso bel canto. La seconda traccia ("Drawing Down the Moon") sembra davvero cantata da Siouxie nel bel mezzo di un consesso di streghe nella foresta nera di cui sopra, la cui tematica la ritroviamo nella track “Benevento” (alquanto paranoica….). Il culmine della invocazione lo si raggiunge con la seguente “Stretto di Barba”; titolo dedicato ad una gola ubicata tra Ceppaloni provincia di Benevento e Avellino, ove la leggenda narra che le streghe fossero avvezze a riunirsi: Karyn sembra cantare nel mentre della sua partecipazione ad uno di questi raduni, donandoci un pezzo davvero orrorifico. Le successive tracce lasciano trasparire un (sia pur lieve) approccio à la Lacuna Coil, con la Karyn che rievoca un po’ la Cristina Scabbia pur restando intrise di paganesimo e sciamanesimo rivisitati.
Comunque trattasi di un project davvero interessante, magari da sfoltire un attimino (lo so, è un termine odioso, ma rende l’idea, almeno spero…) da tanti orpelli (comunque tipici del genere) ma senz’altro accattivante e di grande atmosfera.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    10 Novembre, 2019
Ultimo aggiornamento: 10 Novembre, 2019
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Uscito il 20 settembre (giorno del mio 55° compleanno, per la serie “ecchissenefrega”) questo full-leght intitolato alla rivelazione, fa seguito a quello partorito lo scorso anno, dedicato alla resurrezione. Vabbe', al solo considerare non solo il leader della band, ma anche i soggetti chiamati a far parte di questo progetto, non si può certo parlare di rivelazione, visto che trattasi di personaggi di spicco della scena hard’n’heavy mondiale da lustri, dando appunto lustro alla scena medesima con performance ai assoluto rilievo!
Non starò di certo a tediarvi sciorinando le biografie e le discografie dei nostri (Scorpions, Asia, Survivor, Rainbow non vi dicono nulla? Possibile?). Come si suol dire, la classe non è acqua e qui, di classe, ce n’è a profusione; a cominciare dal songwriting, che si rivela adamantino nella sua appartenenza a quello che, una volta, veniva denominato A.O.R. (Adult Oriented Rock) cioè un hard rock sì ben rinforzato, ma senza mai perdere di vista la melodia del brano, che però non sfocia mai nel commerciale sfacciato. Un rock, appunto, orientato agli amanti del genere (solo anagraficamente) più grandi (alla fine, si tratta solo di un numero perché conosco tanti rockers “attempati” molto più vitali ed entusiasti di tanti ragazzi/e già vecchi dentro). E se consideriamo che il rock mantiene davvero giovani sia dentro che fuori, questo lavoro targato Michael Schenker Fest non può assolutamente mancare nella discografia di ogni propugnatore del credo del rock duro! Qui ci troviamo tutto: potenza, energia ad alto tasso, chitarrone abbestia, virtuosismo negli assoli, ritmo incessante ma variegato, scandito da una sezione ritmica affiatatissima e granitica, melodia, varietà compositiva, singing ad alto livello (con l’alternarsi di ben quattro mostri dell’ugola al microfono).
Insomma, un lavoro davvero godibilissimo, adatto a tutte le circostanze (parties, fughe in autostrada in auto o moto, bevute ammostro, etc.) ed a tutti i rockers di tutte le età che hanno ancora molto da dare e da dire! Nunc et semper, long live rock’n’roll!!!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    09 Novembre, 2019
Ultimo aggiornamento: 10 Novembre, 2019
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Metti che una sera ti senta in vena di fare il giocherellone, magari proprio per festeggiare adeguatamente Halloween e voglia scovare la colonna sonora che meglio si addica alla bisogna: beh, non puoi certo fare a meno di rievocare i vampiri di Helsinki, ossia i 69 Eyes.
Fin da quando hanno scoperchiato le loro bare, nel lontano 1989, i nostri “non morti” si sono dedicati anima (nera) e corpo ad una sorta di “goth rock’n’roll” che affonda le radici nelle sinistre e malinconiche sonorità della migliore darkwave anni ’80 dove Bauhaus, Sisters of Mercy, Siouxie and The Banshees e compagnia bella (si fa per dire) spadroneggiavano anche nelle charts discografiche. L’amicizia di lunga data tra Jyrki69 e Dani Filth, risalente al 1995, ha contribuito ad incupire ulteriormente il tutto, a partire dal cantato del frontman finnico, un ibrido tra Glenn Danzig, Andrew Eldritch (Sisters of Mercy) e Ville Valo dei conterranei Him. Così come non si può non notare l’influenza di quelli che furono i Southern Death Cult, poi trasformatisi in Death Cult ed infine in Cult, ben prima che i vampiri finlandesi si destassero dai loro loculi foderati di rosso. Un cantato a tinte fosche, cavernoso ma sempre ben dinamico, esattamente come tutto il contesto sfoggiato nelle undici tracce delle quali si compone questo “West End”. Un album sotto sotto concepito per festeggiare degnamente il trentesimo anniversario della band (sebbene loro stessi si dichiarino una band senza tempo, dimenticata dalla storia e che ha rifiutato e rifiuta di morire). Tra queste, spiccano gli unici deragliamenti in territorio metal costituito dalle tracks “The Last House on the Left”, che rende omaggio all’omonimo b-movie horror, e “Outsider” caratterizzate da un vero e proprio riff superheavy ben congegnato ed infarcite di ospiti d’onore, come si conviene ad un trentesimo anniversario che si rispetti.
Prima che la triste mietitrice si rammenti di voi e di dove abitate, dovete assolutamente acquistare questa ultima fatica dei 69 Eyes, il cui ascolto è da inserire nella lista delle cose da fare prima di tirare le cuoia.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    19 Ottobre, 2019
Ultimo aggiornamento: 20 Ottobre, 2019
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Il progetto dei Demoni assetati di sangue vede le tenebre (non certo la luce..) nel vetusto 1997 nelle lande varesotte ad opera di quella mente perversa che risponde al nome di Cristian (?!) Mustaine, eclettico polistrumentista rimasto l’unico a rappresentare quella che, per lungo tempo, è stata una vera e propria congrega di sanguinari dedita ad ogni cattiva opera.
Congrega dedita alla forgiatura di un metallo che, più che black, è un metallo dark intriso di profonde venature horror, un po’ sulla scia mortale dei Death SS et similia.
Il songwriting è molto convincente, anche perché forte di un background non certo della prima ora: i Blood Thirsty Demons hanno già partorito dalle loro menti insane la bellezza di otto full lenght, due demos, un live e svariati videos; non possono dunque essere considerati dei neofiti del genere.
Un metal grandguignolesco, che faticosamente fuoriesce dalla bara per avvolgere il malcapitato ascoltatore in un vero e proprio vortice mortifero sinuoso ma mortale.
Nessuna speranza, nessuno spiraglio di luce per guidare una improbabile salvezza dell’anima del povero ed ingenuo appassionato dell’oscurità, che finirà inesorabilmente per rimetterci la pellaccia tra atroci sofferenze sonore!
In realtà, chi si accosta a questa opera al nero, sa benissimo che – nel momento stesso in cui ha deciso di ascoltare questo CD – sta andando incontro alla propria fine, a mo’ di ennesimo (e, per lui/lei, ultimo) capitolo della saga “Final Destination”.
All’ascolto di brani come “I’m dead!” o la stessa title track sarà l’ecatombe senza compromessi e senza bisogno né di blast drumming né urla strazianti bensì grazie al sapiente utilizzo di atmosfere che rievocano tutti i Maestri del genere, con tanto di organetto malefico e basso sulfureo.
Con questa loro ultima (ma non ultima) black-opera, i demoni assetati di sangue pubblicano le ultime cronache dall’aldilà trascinandoci nell’oltretomba più profondo, probabilmente per non far più ritorno.
Non si sa mai, prima di ascoltare chi ha fede solo nella morte (appunto, in death we trust) fatelo ‘sto benedetto testamento! A fare da notaio ci pensa Cristian Mustaine…

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