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Opinione scritta da MASSIMO GIANGREGORIO

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    31 Agosto, 2019
Ultimo aggiornamento: 06 Settembre, 2019
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Metalbangers, dopo la torrida pausa estiva torniamo a recensire, ripartendo da un altrettanto torrido album, generato dalle menti contorte e dagli arti irrequieti dei salernitani Circle of Witches. Attivi sulla scena metal dal 2004, questi quattro ragazzotti non proprio tranquillissimi, ci propinano un metal alquanto muscolare, di quelli tutto forza e sudore! Un disco che trasuda potenza da tutti i solchi, un disco la cui tracklist ci piazza 11 autentiche mazzate ad altissimo tasso esoterico per quanto concerne le tematiche trattate nei testi (basti considerare le pieces dedicate a personaggi propugnatori di idee strumentalmente travisate come Giordano Bruno, o a tematiche sapientemente distorte come il culto del Bafometto, etc. per rendersene conto immediatamente). So benissimo che etichettare non sempre è opportuno e proficuo, specie nella musica e (ancora di più) nella musica che amiamo, ma non posso fare a meno di denotare che i Circle of Witches riescono a mescolare sapientemente power, dark & epic creando un album che rappresenta il giusto mix, un vero e proprio cocktail micidiale! Questo terzo full-lenght (che segue “The Holyman’s Girlfriend” del 2007 e “Rock the Evil” del 2014) risulta molto ben suonato (senza inutili ostentazioni e/o esagerazioni) con il giusto, furente piglio e senza mai debordare in riferimenti/ispirazioni a bands del genere, rendendo il tutto molto interessante e difficilmente catalogabile. Pregevoli gli assoli i quali, coerentemente con quanto esposto, non si appalesano mai strabordanti e ridondanti, bensì precisi ed efficacissimi. Le vocals del corpulento Mario “Hell” Bove ben si addicono al tutto, essendo anch’esse senza virtuosismi né fronzoli, ma rivelandosi assolutamente adatta al contesto generale. Variegato il songwriting, il quale fa sì che la fatica dei nostri salernitani non sia mai ripetitiva ma sempre interessante e diversamente potente, trainata da una sezione ritmica sismica, in grado di incollarti al muro senza tanti convenevoli, immobilizzandoti tutto tranne la testa, libera di scatenarsi in un headbanging senza requie! Davvero pregevole, questo disco dei quattro horsemen campani, sul quale (a mio parere) si stagliano l’ultima traccia “Cult of Baphomet”, di grosso spessore e che ben si appaia con la gregoriana “Deus Vult”, assolutamente spiazzanti ma senza essere “fuori traccia”. Da acquistare e ascoltare fino a usura fisica del cd e di tutto l’apparato scheletrico.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    06 Luglio, 2019
Ultimo aggiornamento: 06 Luglio, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

Settima fatica full-lenght in studio per questi precursori del thrash in terra italica! Questi autentici pionieri nostrani del genere, infatti, solcano il suolo natìo fin dal lontano 1982 con il monicker “Killdozer” ideato da Diego Colombo e Stefano Bullegas. Il 1986 è stato l’anno in cui il Maestro d’Ascia Tommy Massara, nella metropoli meneghina, rilevando Bullegas, ha (RI)fondato un combo di trashers che potesse avere – come mission – quella di rinverdire i fasti del thrash metal californiano, quello della Bay Area, tanto per intenderci.
Da allora, senza compromessi, senza “se” e senza “ma”, i nostri quattro horsemen milanesi hanno sempre portato alto il vessillo che fu di nomi altisonanti come Exodus, Flotsam & Jetsam, Testament (of course, senza considerare i titani Metallica e Megadeth). Quindi, ecco i potentissimi chitarroni lanciati a velocità supersoniche in riffs tritacarne ed in assoli a ghigliottina (master Tommy), bassi tellurici intorcina-viscere (Gabri), drumming estremamente dinamico con doppia cassa “comesenoncifosseundomani” (Francesco) e ugole al vetriolo (Tiziano) come da canoni del genere, ma sempre rivisitati, arricchiti e riproposti con freschezza e dati in pasto a furenti metalbangers affamati! Si sa, dove c’è l’acciaio non vi è ruggine di sorta ed i nostri non fanno eccezione, presentandosi al cospetto dei suddetti affamati in gran spolvero e tirati a lucido come canne di cannoni in condizioni di vomitare ordigni pesantissimi incessantemente, finché ci sarà ancora un grammo di adrenalina in corpo!
Finché ci saranno gli Extrema, il thrash in Italia avrà il suo baluardo invalicabile ed headbanging sarà per sempre!!!
E adesso scusate, ma devo andare a recuperare la mia testa; si è staccata durante l’ascolto e sarà andata a finire chissà dove…

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    29 Giugno, 2019
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Se nominassi il Dottor Federico Pedichini, probabilmente questo nome direbbe qualcosa a pochissimi.
Se nominassi Freddy Delirio (il suo nome d’arte/alter ego), probabilmente questo nome direbbe qualcosa a qualcuno in più.
Ma se dicessi che trattasi del tastierista dei mitici Death SS dal 1994, ovverossia il Fantasma dell’Opera, credo che un buon numero di fratelli metalbangers annuirebbero.
Soprattutto i patiti del genere prog-gothic (davvero una nicchia nella nicchia) ai quali sono tanto care le trame tastieristiche decadenti ma in condizioni di fare da ottimo supporto ad un sound altamente rock con tanto di chitarrone mastodontiche a farla da padrone.
Freddy è tutto questo e molto più: un filosofo polistrumentista con un background (come compositore) davvero invidiabile perché spazia dalla musica classica/operistica al metal passando attraverso la sinfonica ma sempre con quel tocco di horror-music che caratterizza (quasi si trattasse di un sortilegio) tutti i musicisti che hanno avuto a che fare con i Death SS.
È come se ti toccassero la spalla da tergo e tu, girandoti, ti trovassi di fronte al disastro fatto persona, con tanto di cappuccio, in tutta la sua sinistra cupezza.
Se poi a tutto questo per niente rassicurante scenario, ci aggiungi i quattro fantasmi (appunto, i Phantoms) che attorniano il nostro buon Freddy, il desolante ma stimolante quadro è completo!
Il contesto sparge esoterismo a piene mani, specie nei testi che concettualmente descrivono – per dirla con l’editoriale - fantasmi in una dimensione ancestrale senza tempo, anime che non muoiono mai e che attraversano il cammino in questa dimensione, dove ognuno porta la propria croce karmica (appunto, the cross – n.d.r.), vivendo l’esperienza di questo pianeta.
Questo ci dà il senso filosofico della band, partendo da Freddy che, noto per impersonare il fantasma dell’opera dei DEATH SS, troviamo in questo caso in una veste molto più surreale.
Nelle liriche si parla di esperienze varie di vita vissuta in comunicazione con una dimensione non sempre tattile e umana, partendo dall’amore ancestrale per arrivare ai gironi infernali contrapposti al mondo dell’Iperuranio. Tra i temi trattati si parla anche dei resti di precedenti civiltà laddove si devono recuperare i nobili principi, con atmosfere surreali e sovente sinistre che sfociano in sospensioni musicali di un’altra dimensione.
Una vera e propria opera al nero, in cui sono proprio le sapienti sferzate prog-rock a tener vigile l’ascoltatore, impedendo che si perda nei meandri musicali impartiti sotto l’egida della Croce.
Max “Thunder” Giangregorio


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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    01 Giugno, 2019
Ultimo aggiornamento: 01 Giugno, 2019
Top 50 Opinionisti  -  

1999: il millennio sta quasi per finire, allorquando, dalla gelata terra svedese – e, in particolare dalla fredda Stoccolma – sbucavano dal sottobosco dell’hard & heavy tre ragazzotti scandinavi dediti ad una malsana fusione tra dark anni ’70 di sabbathiana memoria e vero e proprio doom metal. Una vera e propria svolta personale, dopo un triennio (dal 1996) in cui avevano messo a ferro e fuoco tutto ciò che capitava loro a tiro sotto il monicker Smack.
Come dicevo, un insano mix tra reminiscenze sabbathiane e doom, con una spruzzatina di stoner e una pennellata di epic quanto basta: è questo ciò che traspare fin dalle prime note di questo inno al Dio Lupo. Un lupo che sembra davvero materializzarsi, saltando fuori minaccioso nell’impenetrabile foresta nera svedese, puntando direttamente alla tua malcapitata testa! Non ci sono requie in questo lavoro del trio del Grande Mago, dal quale sgorga del (l’in)sano cibo per le instancabili fauci del metalbanger più scafato. La voce di JB è incredibilmente simile a quella del suo conterraneo (ex singer dei mitici Candlemass) Messiah Marcolin e gli assoli d’ascia (sebbene non siano il massimo del virtuosismo) sono quantomai azzeccati ed efficaci come i riffs in cui si vanno ad insinuare.
Il suono è maestoso, strapotente, rendendo giustizia ad una produzione esaltante. La track list rivela brani variegati tra loro, sia per ritmica che per partiture, che fanno scivolar via l’ascolto dell’intero cd senza farti nemmeno rendere conto che la tua testaccia dura è finita direttamente sullo stereo a furia di headbanging, grazie anche ad una sezione ritmica davvero energica ed energetica in grado di supportare egregiamente il front man del power-doom-trio svedese.
Dieci pezzi di roccia incastonati in monolite di acciaio: dalla intro strumentale per niente banale, fino alla finale “Untamed” è un’unica, sfrenata cavalcata metallica, una lunghissima scarica di adrenalina in onore del Dio Lupo. Celebratelo ed ululate con lui!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    25 Mag, 2019
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Los Angeles, California, U.S.A., 1978: Scott Reagers (vocals), Dave Chandler (guitars), Mark Adams (bass), and Armando Acosta (drums) scoprono di avere qualcosa di pesante in comune: nelle loro vene scorrono i Black Sabbath!
Pensano bene, quindi, di aggregarsi per dare alle tenebre il monicker “Tyrant”, poi modificato nel 1981 in Saint Vitus.

E doom metal fu!
Gente dal sangue nero come la pece e come il loro sound, perfetto per un party notturno in obitorio!
Sangue che permetterà al defezionario Scott “Wino” Weinrich di formare i mitici Possessed nel 1986 e che scorrerà come linfa mortale fino al 1995, anno dello smembramento temporaneo della band.
Ma si sa, il nero veleno scorre e, prima o poi, si rimaterializza quando e dove meno te lo aspetti e, come pianta venefica, nel 2007 i quattro doomsters si rifanno “vivi” spandendo il loro suono cupo e tetro in ogni dove.
Addirittura, nel 2012 torna il redivivo Wino a porre al servizio della decadente causa le proprie corde vocali, fino a che non potrà rifiutare il gentile invito della galere norvegesi ad esser loro (s)gradito ospite nel 2014.
Poche bands sono state sempre fedeli a sé stesse ed alla linea (rimanendo rigorosamente di nicchia, d’essai) come i Saint Vitus (mi sovvengono i Manilla Road, gli Hawaii) portanto avanti imperterriti il loro dark job!
Sono il gruppo musicale che ogni agenzia di pompe funebri vorrebbe ingaggiare a tempo pieno (..in eterno…) per rallegrare la propria premiata ditta da cui nessun cliente è mai tornato indietro a lamentarsi.
Da sempre, le inconfondibili accelerazioni di cui infarciscono i loro brani soffocanti come le spire di un boa constrictor, ricordano il ballo di San Vito tanto caro ai tenebrosi ed oscurantistici tempi medievali (anche se sappiamo benissimo che si tratta di un falso mito, un luogo comune che dimentica di quali fioriture è stata capace quella tanto bistrattata era in tutti i settori dell’umano sapere).
Per il resto, arduo si rivela il dover selezionare uno o più pezzi tra i 9 che compongono il funereo cd: in realtà, dovreste immaginare di dover scegliere quale sia la lapide più bella in un ruvido campo cimiteriale. Ovviamente, con vista dal basso…
Max “Thunder” Giangregorio


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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    05 Mag, 2019
Ultimo aggiornamento: 05 Mag, 2019
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Questa onesta band di appassionati del mitico Ronnie James Padovano (in arte Dio) è sorta nel non recentissimo 2010, con il precipuo compito di rievocare le epiche gesta dello gnomo metallico per eccellenza. Ma il fato cinico e beffardo, si sa, è sempre in agguato e – proprio il 16 maggio dello stesso anno – ci ha strappato via il leggendario vocalist, sicchè i nostri hanno pensato bene di sospendere sine die le registrazioni del tribute album. Sono così trascorsi tanti anni e, finalmente, ha visto la luce la fatica di questi quattro operosi e tenaci seguaci del Ronnie James.
Ne è sortito un tribute album assolutamente onesto e sincero, suonato con buona tecnica e dedizione, anche se un po’ freddino. Un compitino portato a termine con tanta buona volontà che, però, non fa certo gridare al miracolo. Quando si tratta di tribute album, ritengo sia interessante anche inserire dei brani completamente stravolti o, almeno, fortemente riarrangiati. Nemmeno l’apporto di numerosissimi guests ha inciso in maniera determinante, non riuscendo a elevare la media del lavoro nel suo complesso. Pur tuttavia, anche grazie al paziente lavoro degli amanuensi copiatori nel medioevo, tante opere hanno potuto continuare e vivere fino ad essere divulgate nei secoli a venire, fungendo da baluardo in difesa della cultura. Allo stesso modo, grazie a tribute bands come questa, il verbo metallico e le gesta dei suoi propugnatori possono continuare a perpetrarsi presso le nuove generazioni di metalbangers!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    06 Aprile, 2019
Ultimo aggiornamento: 06 Aprile, 2019
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Correva l’anno 1985 quando, su una delle città più controverse del nostro beneamato stivale, Genova, calava un drappo nero come la pece, in grado di portare in ogni dove l’oscurità più profonda: erano nati i Necrodeath!
La perversa mente di Flegias, dalla voce dolce e delicata come una lama di rasoio che ti sfregia la faccina, partorisce un combo che riesce a mettere subito le cose in chiaro: negli inferi del black/death metal (all’epoca ai primi “vagiti”) c’era anche una band italiana!
C’era e c’è ancora, eccome!
Questo “Defragments of Insanity” rappresenta la nona opera al nero dei quattro demoni della Lanterna, impreziosita da decine di releases tra demos, splits, videos, compilations, etc. E' la riproposizione con l'attuale formazione del capolavoro del 1989 "Fragments of insanity", con i brani ri-registrati e leggermente modificati.
È da quasi ben 35 anni che i Necrodeath resistono, senza esser minimamente scalfiti dall’onta del tempo che scorre inesorabile, nella compagine dei veterani del black’n’death metal.
E lo fanno mantenendo pressochè intatta la loro venefica ricetta: occultismo, morte, satanismo e violenza!
Premesso che, per tutte le bands, è praticamente impossibile non pagare l’ineluttabile tributo agli onnipresenti Dei incontrastati del metallo nero Slayer, la coerente e bruciante proposta di Flegias e Co. continua a perpetrarsi attraverso album quasi rituali come i più efferati omicidi commessi da un serial killer che si rispetti.
Tutti i solchi di questo full-lenght trasudano malevolenza, al punto che – a tratti – sembra che abbiano rievocato la buonanima di Jeff Hanneman per venirli ad ispirare nel realizzare le otto tracce dannate di cui si compone.
Ne vien fuori un figlio, ancor più degenere della prima versione, di Reign in Blood a livello di intensità e di violenza sonora (e non solo) degni di una masnada di torturatori professionisti, il cui sadismo è pari solo alla loro tecnica, non sopraffina ma concepita nella sola ottica del dolore senza fine.
Insomma, questi blacksters liguri si ergono, ancora una volta, a baluardi posti ad imperitura difesa dell’oscuro genere metallico, massacro sonoro dopo massacro sonoro.
Max “Thunder” Giangregorio

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    30 Marzo, 2019
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Ho scelto di recensire insieme queste tre bands perchè molto orientate al power metal, inteso come quel metallo tradizionale tanto gradito ai puristi, agli integralisti dell’hard & heavy ortodosso.
Inoltre, perché hanno rappresentato (nell’ultimo scorcio dell’appena trascorso anno 2018) una delle più convincenti prove fornite dal metalrama italico, nello specifico settore.
Metallo possente, di quel metal che ti entra subito nelle vene con ardore e senza chiederti il permesso, che scaglia la tua testa direttamente verso le quattro pareti della stanza che sta mettendo letteralmente a ferro e fuoco!
*****
Dei felsinei Crying Steel ho avuto modo di recensire piuttosto di recente, esattamente il 3.11.18 a proposito della loro release “Stay Steel”.
Questa “Steel Alive” ripropone le fatiche “Crying Steel” ed “On the Prowl” rimasterizzate, più un vero e proprio “pugno” (nel senso di cazzotto in faccia) di performances on stage dei veterani metalbangers bolognesi: il tutto per l’ulteriore riprova (semmai ve ne fosse bisogno) che l’acciaio urla ancora e urla potentissimamente!
****
Gli anconetani Gunfire li conosco anch’essi dagli esordi (1981) ed all’epoca acquistai il loro EP in vinile, dopo che ebbero modo di inviarmi il loro demo, che sparai all’impazzata durante le mie trasmissioni radio.
Il riff del mitico pezzo che prende il nome dalla stessa band, che anche gli Omen avrebbero forgiato volentieri, ancora ce l’avevo nei padiglioni auricolari, sepolta in qualche remoto angolo della mia unità centrale: è bastata qualche frazione di secondo perché riaffiorasse tipo Transformers e riprendesse a devastare tutto!
Power senza requie, che ti trascina via come un treno in pieno derragliamento verso destinazioni sconosciute, con quel retrogusto di epic che non guasta mai.
*****
I savonesi Powedrive sono di formazione più recente (2016) ma il loro primo full-lenght “Rusty Metal” mette subito le cose in chiaro: questa è gente che mangia pane e Motley Crue, Twisted Sister e compagnia brutta, ovviamente innaffiato da birraccia come se piovesse!
Rock’n’Rollaccio ruvido e stradaiolo molto “catchy”, quasi da party sfrenato ma guai e ritenerlo frettoloso, buttato lì giusto per far casino: i binari del classico metal ortodosso anche nel caso della band ligure sono ben piantati per terra e vengono percorsi all’impazzata ma con perizia tecnica à la Airbourne, pagando però l’ineluttabile tributo ai mostri sacri del genere, AC/DC in primis.
Che l’adrenalina sia con voi, con questo micidiale trittico tutto tricolore!
Max “Thunder” Giangregorio

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    16 Marzo, 2019
Ultimo aggiornamento: 16 Marzo, 2019
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Grandiosi, come sempre!!! Una delle monolitiche certezze tra noi adoratori del Dio Metallo!!! È dai primi anni ’80 che questi inossidabili statunitensi della West Coast sono tra gli incontrastati Grandi Ministri del culto metallico, offrendo la propria chiesa come tempio in cui celebrarne i fasti!
Questa è la loro dodicesima release in studio come full-lenght, ma la loro biografia è costellata da demos, EP, singoli etc. che si fondono in un unico, potentissimo, infinito rito tutto dedicato al metal vecchia scuola, quello che ti fa partire l’headbanging fino a che ti si stacca la testa, che continua a vibrare imperterrita sul pavimento!
La sontuosa opening/title track mette subito le cose in chiaro: stai approcciando i Metal Church. E ti farai mooooolto male!
A mio parere, il meglio viene con la seguente “The Black Thing”, che sembra scritta dal mitico Jaz Coleman dei Killing Joke, solo molto più rabbioso ed oscuro.
I bei tempi di “Beyond the Black” sono tutt’altro che andati: qui si continua al galoppo infuriato con una sequela di pezzi, l’uno più adrenalinico dell’altro!
Ti senti come un pugile che sta subendo una raffica di micidiali pugni nello stomaco, con la differenza che ha pure le orecchie che sanguinano ed il secondo che non può nemmeno gettare la spugna, perché già da tempo perso nel moshpit!
Gli assoli sempre saettanti del duo dei Gran Maestri d’Ascia ti portano alle soglie dello stordimento, ma non riesci a fermarti, ormai sei catturato in una pogata senza requie, che cesserà solo quando l’ultimo solco di questo disco sarà sacrificato.
“Guillotine” è proprio la traccia che ti fa staccare la testa, come profetizzato (e non poteva essere altrimenti) con la sua reminiscenza “Metallica” mentre maledici di non poter alzare ancora di più il volume ma hai la sensazione che tanto, dopo, le casse le dovrai buttar via bruciate!
L’inossidabile ugola del redivivo frontman Mike Howe continua a massacrarci i padiglioni auricolari con quel suo essere un mix mortale tra Bobby “Blitz” Ellsworth e Udo Dirkschneider.
E si prosegue alla grande, fino al decimo e letale pugno in pieno stomaco che pone fine al tuo tarantolamento: la perdita di controllo è totale.
Il rito è compiuto, la Chiesa del Metallo chiude i battenti, ma solo fino alla prossima celebrazione.
Questo esplosivo come-back dei Metal Church è rigorosamente da ascoltare in una stanza di contenimento con le pareti imbottite!!!!
Aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaarrrrrghhhhh!!!
Max “Thunder” Giangregorio

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    02 Marzo, 2019
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Formatisi in quel di Charlotte, North Carolina, U.S.A., nel 2014 questi quattro horsemen in black hanno già all’attivo l’EP "Funeral Chic" nello stesso anno in cui si sono formati (con una misconosciuta line up) e l’album di debutto (targato 2016) "Hatred Swarm".
Nel 2018 I Funeral Chic sono tornati con questo nuovo cd "Superstition".
Chiariamo subito che non si può certo gridare al capolavoro, ma, se ciò con cui volete farvi male è del sano, genuino ed onesto mix di grindcore/thrash/black, questo è il disco che fa per voi!
Sembra di tornare indietro nel tempo: le vocals devono molto a Cronos (con un po’ più di eco) ed i primi Venom, almeno come concept; come il sound, del resto: brani brevi (vedi “Jump” con il suo minuto e ventidue secondi), velocissimi e rabbiosi mutuati dal punk/hard core della prima ora (vedi simpatici coretti), con una spruzzatina di thrash della Bay Area (specie nei guitar-solos) e accelerate blast drumming a profusione tipiche del new black metal.
Quattordici tracce altamente corrosive, da maneggiare con la stessa cura con la quale si maneggia dell’acido solforico perché rischiate seriamente di sfigurarvi, una volta che vi siete lanciati alla velocità di un proiettile dopo aver spinto il tasto “play”!
“Decorated” mi ricorda un po’ i mai troppo compianti Zoetrope, fillers compresi.
Alla lunga, si ha la netta sensazione che i nostri quattro “ceffi” abbiano voluto un po’ strafare, infarcendo i pezzi con troppi cambi (anche di tempo) facendone sortire una sorta di zibaldone metallico.
Certamente devono ancora maturare molto e devono riordinare le idee (oltre che focalizzare e veicolare la loro furia incontenibile) ma, nel complesso, meritano un bel 3 e mezzo di incoraggiamento.
Max “Thunder” Giangregorio

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