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Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    28 Marzo, 2021
Ultimo aggiornamento: 28 Marzo, 2021
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Debuttano su The Artisan Era gli statunitensi Aronious con il loro primo full-length "Perspicacity". Un album monolitico partorito a distanza di 6 anni dal precedente Ep del 2014 -l'album è uscito nel 2020, ci scusiamo per il ritardo-. Un disco che, fin da subito, denota il più grande difetto dell'act del Wisconsin: troppe idee, troppa carne sul fuoco... troppo tutto. "Perspicacity" è un lavoro che si fa fatica ad ascoltare fino alla fine, perchè la quasi ora di durata si spalma in 12 tracce eccessivamente macchinose e fin troppo piene di elementi che, alla fine della questione, confermano il proverbiale "il troppo stroppia". Se da un lato la band ci sbatte in faccia un technical/progressive death di tutto rispetto - e tecnicamente ci siamo eccome- dall'altro l'esecuzione risulta eccessivamente esagerata e i brani non si sa dove vogliano andare a parare. Il risultato è solo un caotico impasto, pesante e difficile da digerire. Se a ciò si aggiunge quasi un'ora di ascolto, ecco che nemmeno a metà ci si scorda completamente di tutto e si tira un sonoro sbadiglione. Ciliegina sulla torta: le tracce sono strutturate in modo da sembrare un'unica grande suite. Ragazzi, volevo spararmi nei cosiddetti! Nulla da dire sulla qualità audio e sulla bontà dell'esecuzione. Il problema è proprio il come quest'ultima sia stata usata: a volte sembra di ascoltare gli Ulcerate, a volte i Beyond Creation, a volte ancora i Spawn of Possession... non si sa dove si voglia andare a parare e ciò che rimane è solo un grande senso di confusione ed un mal di testa causato dai riff arzigogolati, infiniti e senza senso. Insomma, un ingarbugliato volo pindarico che, alla fine, non porta a niente. Sufficienza politica solo per l'ottima qualità audio e per l'indiscutibile tecnica e bravura. Il mio consiglio è alleggerire tantissimo la proposta e cercare di capire dove voler andare a parare.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    26 Marzo, 2021
Ultimo aggiornamento: 26 Marzo, 2021
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Ne "Il Crepuscolo degli Idoli", Nietzsche scriveva: «Ciò per cui troviamo le parole è spesso già morto nel nostro cuore. Vi è sempre una sorta di disprezzo nell'atto di parlare». Ecco, in maniera quasi paradossale, in quanto una recensione necessita di parole, lo stesso succede in questa sede quando si hanno tra le mani capolavori di inenarrabile bellezza come il qui presente "Solar Paroxysm", quinto album della one man band americana Mare Cognitum. Semplicemente perché le sole parole non bastano per descrivere questo album: esse limitano la bellezza contenuta in questo disco e non rendono giustizia alle infinite sensazioni che si provano durante l'ascolto. Qui bisogna solo ascoltare con il cuore. In maniera molto limitata, quindi, cerchiamo di entrare di più nel merito.
Il progetto Mare Cognitum (il cui nome latino deriva da un mare lunare che significa "mare conosciuto") nasce nel 2011 ad opera del musicista Jacob Buczarski. Tramite un Black Metal atmosferico e super evocativo, il progetto tratta temi quali oscurità, misticismo cosmico e, per l'appunto, lo spazio. Dopo un già colossale quarto album nel 2016, "Luminiferous Aether", Jacob Buczarski ci ha fatto letteralmente rivivere l'orrore lovecraftiano dello spazio più profondo grazie a delle sonorità oniriche, evanescenti ed ipnotiche. Il tutto, infine, portato all'ennesima potenza nel qui presente "Solar Paroxysm", ad oggi il capolavoro dei capolavori della band e uno degli album rivelazione degli ultimi 10 anni almeno. Sulla falsariga del Black Metal dei francesi The Great Old Ones o dell'Atmospheric Black degli islandesi Auðn, i Mare Cognitum fanno dell'ipnosi e del sentimento bruciante i loro punti focali. Cinque lunghissime tracce per un totale di quasi un'ora di viaggio astrale attraverso i meandri più profondi e lontani dell'universo. Il tutto alternando costantemente sentimenti di ira e terrore puro a momenti più calmi, caratterizzati da sonorità melodiche e sognanti. Attraverso questo costante ossimoro grazie al quale l'album gioca con la mente dell'ascoltatore, i Mare Cognitum portano all'estremo il concetto di musica viva. Già, perché quello che andrete ad ascoltare non è la semplice somma di strumenti e di tecnica eccelsa - e fidatevi, tecnicamente siamo su livelli mastodontici -, ma è qualcosa di più. Stiamo parlando della messa in musica dei meandri più bui dell'animo umano. Quei cassetti sigillati nel subconscio che racchiudono gli istinti più veri e primordiali ormai dimenticati da tempo. Esattamente come Lovecraft aveva immaginato un universo governato da entità ancestrali impensabili ed inconcepibili per la ristretta razionalità umana, allo stesso modo il Black Metal dei Mare Cognitum sfugge a qualunque tipo di etichetta. Cercare di spiegarlo - e qui mi ricollego all'introduzione di questa recensione - significherebbe solo tentare di limitare qualcosa di inafferrabile ed evanescente. "Solar Paroxysm" è un album che si apprezza solo quando ogni orpello materiale intorno a noi viene meno, al buio, nel silenzio di una foresta dove possiamo restare soli con i nostri incubi più reconditi. Solo allora la magnificenza del disco emerge in tutto il suo splendore - o orrore, fate voi - trasportandoci su dimensioni fuori da ogni spazio e da ogni tempo. Questo è l'enorme potere evocativo della musica di Jacob Buczarski, che qui tocca il suo apice massimo. Dopo si ciò esiste solo l'annichilimento.
Un album che sicuramente finirà tra le migliori uscite di quest'anno come una delle più grandi rivelazioni del 2021. Grazie.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    26 Marzo, 2021
Ultimo aggiornamento: 26 Marzo, 2021
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Ci eravamo lasciati a fine 2020 con "Dawn of Corruption", il primo EP degli olandesi Distant dopo il debut album capolavoro del 2019 "Tyrannothopia". E ci ritroviamo a marzo 2021 con il qui presente "Dusk of Anguish", secondo EP che, sulla falsariga del precedente, continua il concept inaugurato dal primo album, portando ancora più in profondità le sonorità marcissime e devastanti della band. Un lavoro di sei tracce malate e pesanti che, come del resto si poteva già intuire nel 2019, confermano i Distant come la miglior band deathcore/downtempo europea, e ormai un nome di primaria importanza nel panorama del metal estremo.
Nonostante il cambio di line-up che vede Jan Mato alla batteria (ex-Shrill Whispers) e Eise Smit alla chitarra (ex-Rising Conflict), il sound della band non è stato minimamente intaccato; semmai migliorato. Già perché se da un lato il debutto del 2019 era già qualcosa di totalmente diverso ed esponenzialmente più malato di tante altre proposte, è altresì vero che con i due EP i Distant hanno evoluto maggiormente la loro proposta. Il risultato è un comparto tecnico e compositivo nettamente più ampio e orrorifico. Una componente, quest'ultima, che è il vero marchio di fabbrica dei nostri. Ad uno slam deathcore pesantissimo come un'incudine subentrano le sonorità elettroniche e dissonanti in sottofondo che letteralmente spaventano l'ascoltatore gettandolo in un abisso di terrore lovecraftiano. Il tutto restando sempre a dei livelli che non superano mai la linea sottile tra un lavoro pieno di innesti e molto curato a livello di produzione e un sound eccessivamente lavorato e pomposo. I Distant riescono sempre rimanere al limite, non sfociando mai nell'autoreferenzialità e nella noia. Un segno che ci fa capire come il gruppo abbia trovato la propria strada all'interno di una proposta musicale piena di tanti lavori, dai più mediocri ai più meritevoli. Un brano dei Distant riusciresti a riconoscerlo tra mille e si può essere certi che non deluderà affatto le aspettative. Certo, stiamo comunque parlando di un genere piuttosto di nicchia e ricercato se vogliamo. Ma vi posso garantire che una bomba atomica del genere difficilmente la si trova da altre parti.
I miei personali compimenti alla band e non vedo l'ora di ascoltare un secondo album completo.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    26 Marzo, 2021
Ultimo aggiornamento: 26 Marzo, 2021
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Avevamo già parlato nel 2019 degli inglesi Bound In Fear, quando la Slam Deathcore band debuttò su Unique Leader Records con il suo primo album. Un lavoro piuttosto interessante che mostrava un quintetto super agguerrito ed in linea con la proposta moderna che ultimamente sta prendendo sempre più piede. Dopo un paio di anni ci ritroviamo tra le mani il qui presente "Eternal", EP di cinque tracce sempre licenziato da ULR e che presumo sia da apripista per un futuro secondo album.
Ma, al di là delle congetture, cosa c'è da aspettarsi dalla nuova creaturina partorita dai Bound In Fear? Beh ad essere sincero un po' sono rimasto deluso, o comunque dopo l'ascolto mi son detto "ma c'era davvero bisogno di questo EP?". Già, perché se come sempre ci troviamo di fronte ad una produzione di eccellente qualità - ULR è sempre ULR -, dall'altra il disco non apporta chissà quali novità nel sound dei nostri. Da qui il titolo della recensione, con il quale ho voluto sottolineare proprio come la band si sia adagiata sugli allori seguendo troppo quanto fatto di buono nell'album di debutto. Il risultato sono cinque tracce godibili e mastodontiche ma che, a conti fatti, sembrano dei pezzi estratti dall'album di debutto. Quindi sulla carta nulla di nuovo: riffoni pesantissimi e cadenzati, che spesso sfociano nel downtempo degli olandesi Distant, ma nulla di più. Inoltre, rispetto al primo album, qui ho sentito un po' meno grinta, come se le tracce non riuscissero ad esprimere tutto il potenziale del quintetto inglese. Le sezioni slam/downtempo non mi hanno gasato come nel precedente lavoro, ma anzi, tendono ad essere quasi stantie e monotone.
Un EP che, personalmente, credo si potesse evitare. Confido quindi in un secondo full-length più in linea con il potenziale di questa band.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    21 Marzo, 2021
Ultimo aggiornamento: 21 Marzo, 2021
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Parte con un sonoro cazzotto sulla faccia la demo proposta dai nostrani Enforces, "Electromagnetic Annihilation". Quattro tracce di purissimo death/thrash vecchia scuola ma che strizza l'occhio anche a passaggi più moderni e di tanto in tanto melodici. Stop. Questo il biglietto da visita della band di Viterbo, che dopo un ottimo full length nel 2016, ha partorito un lavoretto di tutto rispetto che costituirà il materiale per una nuova produzione completa.
Nuova line-up, con il solo Paolo Nevi rimasto della vecchia guardia, ma sound ancor più aggressivo per i nostri. Il tutto suonato con una certa maestria che fa di questo "Electromagnetic Annihilation" un antipasto più che gradito e sicuramente un ascolto molto interessante. La formula, dicevamo, è semplice ma di grande effetto: nulla di rivoluzionario sulla carta, ma a noi ce ne frega poco. Qui è la grinta e l'attitudine che fanno la differenza, e le quattro tracce proposte ti arrivano sulla faccia nude e crude come un sonoro ceffone. Tanto basta a rendere la demo promossa a pieni voti. Alla fine, può uscire male un death/thrash ispirato alla scuola tedesca e americana? Esatto non può. Questo è uno di quei casi in cui l'ignoranza allo stato puro - in senso buono ovviamente - e l'assenza di fronzoli si rivelano delle carte più che vincenti. Consigliatissimi!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    21 Marzo, 2021
Ultimo aggiornamento: 22 Marzo, 2021
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Niente, nemmeno dopo più ascolti questo "Eternal Cycles", terzo album dei francesi Treyharsh, è riuscito a dirmi qualcosa. Dispiace sempre dover bocciare un gruppo o comunque dare una sufficienza politica, ma quando quella proposta si rivela essere musica noiosa e già sentita un milione di volte, ahimè lo sbadiglio è l'unica cosa che ne viene fuori. Il death/thrash proposto dai nostri è quanto di più standard ci si possa aspettare, il che in sé non sarebbe neppure un problema. Ma se per undici tracce - di cui una pare mancante nel promo -, i pattern proposti sono sempre gli stessi e per di più senza una vera e propria impennata, beh capite bene come sia stata dura ogni volta arrivare a fine ascolto senza rischiare di addormentarsi. Peggio, nemmeno me ne sono reso più conto. I brani si susseguono uno dopo l'altro, ma sono talmente impostati allo stesso modo che sembra di ascoltare la stessa traccia. Tecnicamente parlando ci siamo anche, seppur, come già detto, non c'è nulla che faccia urlare al miracolo. Ma tutto suona troppo piatto e stantio, con delle soluzioni sentite più e più volte, a partire dalla voce che più standard non si può.
Un terzo album, questo "Eternal Cycles", che fa della mediocrità il suo nucleo principale e che finirà nella miriade dei tantissimi altri dischi tutti uguali fra loro. Potete tranquillamente passare oltre.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    21 Marzo, 2021
Ultimo aggiornamento: 21 Marzo, 2021
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Giungono al loro secondo EP gli inglesi Wolvencrown, il qui presente "A Shadow of What Once Was", a due anni di distanza dall'album di debutto. Tre tracce per quasi 20 minuti di durata in cui i nostri si tuffano all'interno di un oscuro vortice di atmospheric black metal suonato a mestiere e veramente evocativo. Figlio anche delle sonorità depressive alla Xasthur e dei riff ripetuti fino allo sfinimento come Burzum ci ha insegnato, il lavoretto si destreggia a meraviglia regalando un ascolto meditativo ed al contempo elegante. Le orchestrazioni in sottofondo e le lunghe sezioni strumentali, come la terza traccia "Coming To An End", fanno dell'EP, e del sound in generale della band inglese, un prodotto veramente interessante e molto personale.
Una nota in favore, inoltre, è data dallo scream di Nick, il quale ricorda molto da vicino le urla strazianti di Nattramn dei leggendari Silencer. La sua voce riesce perfettamente a dare l'idea di una voce agonizzante che sembra provenire da lontano, quasi poi sciogliendosi all'interno del sound.
Ascolto super consigliato!

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4.5
Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    14 Marzo, 2021
Ultimo aggiornamento: 14 Marzo, 2021
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C'è poco da fare quando si parla dei mostri olandesi Korpse, se non inchinarsi di fronte alla loro furia omicida. Ad oggi il quartetto è sicuramente tra i nomi più importanti del panorama slam/brutal death europeo, al pari di band come Katalepsy, Ingested, Kraanium e Extermination Dismemberment. E di certo in questo nuovo e marcissimo parto, "Insufferable Violence", i nostri non si sono risparmiati in fatto di violenza e pesantezza. Anzi, possiamo tranquillamente affermare che il quartetto abbia tirato fuori dal cilindro il suo miglior lavoro, e non tanto per il sound proposto, quanto per la brutalità e la ferocia con cui i Korpse si scagliano nei confronti dell'ascoltatore. L'album sembra quasi spaventare dal tanto che è furioso, proponendo un brutal death che molto deve alla vecchia scuola, essendo la vena vintage ben percepibile durante l'ascolto. A coronamento di ciò interviene anche la ben evidente influenza slam che fa da sfondo rendendo lo sberlone in faccia ancora più imponente e distruttivo.
L'incipit di "Insufferable Violence" è a dir poco annichilente. L'opener "PTSD" è l'equivalente di un treno merci che ti investe in pieno a tutta velocità. L'attacco è ferale ed esplosivo, tanto che si fatica a credere che dietro ci sia solo una chitarra, un basso ed una batteria. Raramente ho sentito così tanta bestialità e distruzione così concentrati in un album. La prova del riff maker Floor van Kuijk è da encomio, soprattutto perché il chitarrista non si ferma all'impostazione slam death, ma spazia anche con innesti più thrash e martellanti quando rallenta. Il risultato è la messa in musica di una frana che colpisce e distrugge tutto ciò che gli si para davanti, come succede in "Callousness" e "Vital Transaction". Nessun orpello o ghirigoro tecnico, ma violenza allo stato puro fatta di accordi pesantissimi sorretti da un comparto ritmico imponente e monumentale. Se da una parte la chitarra gioca sull'immediatezza, dall'altra, quasi in contrasto, basso e batteria ruotano attorno a soluzioni molto più complesse ed articolate. I giri di accompagnamento di Robin van Rijswijk si incastrano con la furia omicida di Marten van Kruijssen dietro alle pelli. Quest'ultimo, poi, non si pone limiti, nel senso che tentare di fermarlo significa andare incontro a morte certa. Il suo drumming è frenetico, micidiale e tellurico, ma mai autoreferenziale o monotono. Tutt'altro, c'è un'insolita eterogeneità nei passaggi, ma tutti accomunati da una sola ed unica componente: distruzione allo stato puro. Andare oltre significherebbe lasciar cadere direttamente una bomba atomica sull'ascoltatore.
Insomma, gli olandesi questa volta non hanno badato ai freni inibitori ed hanno confezionato la loro miglior prova, portando all'estremo, ma con grandissima maestria, il concetto di brutal death. Il risultato è un disco mastodontico esagerato ma mai, e dico MAI, noioso o eccessivo. Complimenti!

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    14 Marzo, 2021
Ultimo aggiornamento: 14 Marzo, 2021
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Nasce nel 2017 il trio russo Insect Inside, e con una proposta semplice ma di fortissimo impatto: slam/brutal death purissimo per i fan incalliti del genere. Pescando direttamente nel panorama dei grandi nomi del genere, tra cui i norvegesi Kraanium e i vicini di casa Abominable Putridity, i nostri hanno confezionato un interessante album di debutto, il qui presente "The First Shining of New Genus", licenziato dalla Gore House Production.
Per la band russa si tratta della prima produzione importante, dopo una demo nel 2019, e devo dire che ci troviamo di fronte ad una proposta veramente allettante, seppur, e ci tengo a sottolinearlo, sarà apprezzata solamente dai cultori del genere.
Quello proposto dai nostri è, né più né meno, un pesantissimo slam death che fa dei riffoni super pesanti e cadenzati, accompagnati da un blast beat tiratissimo, i suoi cavalli di battaglia. Tuttavia sono rimasto felicemente colpito dall'ottima scorrevolezza dei pezzi che non superano mai la linea sottile tra un brano cadenzato e martellante ben fatto ad un'accozzaglia di bombe atomiche buttate tanto per distruggere le orecchie dell'ascoltatore. Complice di tutto ciò è sicuramente la scelta di proporre dei pezzi mai troppo lunghi che si attestano sui 3 minuti di durata di media, salvo un paio di quasi 5. Anche la produzione ha fatto la differenza. Mi spiego. Solitamente i dischi slam tendono ad avere - almeno per me - un grosso difetto: suonano fin troppo pastosi e appiccicati - vedasi ad esempio i Kraanium -. Da una parte la pesantezza viene accentuata, ma dall'altra si rischia di annoiare. Ecco, fortunatamente il trio russo non rientra in questa categoria, perché l'album presenta una produzione pulita e non eccessivamente pomposa. Da questo punto di vista i nostri hanno trovato un ottimo compromesso che permette al disco di risultare pesante ma scorrevole.
Inutile parlare della prova canora, perfetta per il contesto ma comunque in linea con i dettami dello slam/brutal death: growl super cavernoso mono tono come se piovesse (l'opener ne è l'esempio perfetto).
In generale "The First Shining of New Genus", passa la prova a pieni voti, mostrandoci una band perfettamente conscia di ciò che fa, seppur, come detto ad inizio recensione, si tratti comunque di un prodotto di nicchia che incontrerà il plauso degli estimatori e forse lo sdegno degli ascoltatori di passaggio. A detta nostra il disco merita, soprattutto perché è l'ennesima dimostrazione di come l'est Europa stia sviluppando un'importante quanto prolifica scena metal.

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Opinione inserita da Luigi Macera Mascitelli    14 Marzo, 2021
Ultimo aggiornamento: 14 Marzo, 2021
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Quello che affronteremo oggi sarà un viaggio quasi spirituale nei meandri più bui e ancestrali dell'uomo. Ci ritroveremo soli in una gelida e fittissima foresta di notte, con i soli nostri pensieri come compagni e attraverseremo il confine tra questo mondo e quello delle anime, come fossimo trasportati da Caronte. E no, non è un'esagerazione, perché questo "Forhist", album di debutto dell'omonima one man band, è veramente un capolavoro con una potenza evocativa che raramente ho sentito. Del resto c'era da aspettarselo dato che si tratta del solo project di Vindsval, geniale ed eclettica mente dei Blut Aus Nord, avant-garde/atmospheric black metal band tra le più apprezzate del genere.
Quello dei Fohrist tuttavia, è un album di debutto che si discosta dalle produzioni della band principale di Vindsval, seppur i chiarissimi riferimenti ed influenze siano ben percepibili. Se nei Blut Aus Nord le sperimentazioni, l'avanguardia e gli innesti progressive sono la linfa vitale del sound, qui siamo su altri lidi. Il black metal atmosferico dell'album è molto più grezzo, diretto e crudo, ispirato direttamente alla Norvegia degli anni '90. Il tutto condito da una potenza evocativa che fa letteralmente venire la pelle d'oca. Non è un'esagerazione dire che l'ascolto di "Forhist" equivale a guardare dentro uno specchio che riflette le vostre paure più recondite ed ancestrali, quasi spogliandovi di tutto e lasciandovi nudi di fronte all'orrore del nulla. Poco più di 40 minuti, distribuiti in otto tracce intitolate con i numeri romani (come fanno anche i polacchi Mgła), di intensa e bruciante passione, ma anche di gelo totale. Un continuo ossimoro che crea l'atmosfera di questo grandissimo capolavoro. Perfino la voce di dell'artista si scioglie all'interno dei brani, riecheggiando come un lontanissimo lamento proveniente dalle viscere della terra. Qui è la musica al suo stato primordiale a farla da padrona: cruda, selvaggia, indomabile come una bestia. Un album frenetico da inizio a fine, che non lascia spazio ad un singolo respiro investendovi con tutta la sua furia.

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