Opinione scritta da Daniele Ogre
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Ultimo aggiornamento: 08 Settembre, 2017
#1 recensione -
L'Italia è decisamente diventata una delle nazioni principali in fatto di Death Metal. Ormai nulla abbiamo da invidiare a paesi sempre ritenuti più blasonati in questo campo, grazie ad un grandissimo numero di gruppi capaci di tirare fuori lavori eccezionali, in alcuni casi anche dei veri e propri capolavori. Tra i tanti gruppi in questione sono da annoverare senza dubbio alcuno anche i reggiani Logic of Denial, band che dopo due ottimi album ("Necrogenesis" e "Atonement"... sì, stesso titolo dell'album degli Immolation, ma quattro anni prima), si consacra definitivamente con questa terza fatica. Come i precedenti, titolo secco composto da una sola parola: "Aftermath", un macigno di 3/4 d'ora prodotto, come "Atonement", dalla celeberrima Comatose Music.
Ciò che risalta subito all'orecchio è che i Logic of Denial proprio non ci tengono a guardarsi alle spalle. Non cercano di proseguire il discorso del precedente disco, ma anzi scelgono (saggiamente?) di dare nuova forma al proprio sound. Un sound che diventa in "Aftermath" ancora più violento, irruento, selvaggio, il tutto suonato con una perizia tecnica a dir poco invidiabile. Altra cosa che risalta è che a differenza di molti gruppi della sfera Technical/Brutal, i Logic of Denial non hanno alcuna intenzione di dare il benché minimo spazio a qualsivoglia armonia: il loro è un attacco frontale e diretto portato senza un solo attimo di respiro. Prendete pezzi come "Miroir", "Assenza (The Sufferance Overture)" o la suite "The Decaying Drama" con le sue due parti - "Quietus" e "Antinferno" -: il malcapitato ascoltatore viene trascinato sul fondo da un vortice di violenza primordiale da pezzi che tolgono letteralmente aria ai polmoni nota dopo nota, dandoti quel senso di disagio e claustrofobia che solo i grandi album Death sanno darti.
Ci sono nomi della scena Death italiana che sono in pratica sulla bocca di tutti, e non solo qui da noi. Con "Aftermath" i Logic of Denial dimostrano che non hanno alcun timore reverenziale verso chicchessia e che un posto al tavolo dei grandi spetta loro di diritto. Anche perché stiamo parlando di quella che, ad oggi, è probabilmente la band più violenta che possiamo esportare. Per gli amanti del Brutal/Technical Death senza compromessi, quelli che rigettano ogni minima melodia, un disco da avere assolutamente.
Ultimo aggiornamento: 08 Settembre, 2017
#1 recensione -
Originario degli States ma trasferitosi in Olanda, Luciferian Insectus è una One Man Band dedita ad un Death/Black figlio degli insegnamenti della leggendaria scuola polacca. Ad occuparsi di tutto, voce e tutti gli strumenti, è lo stesso Luciferian Insectus (al secolo Darren Peterson, americano, in forza anche nei Grim Reality), che con questo "Godless", uscito per Apollyon Entertainment, arriva alla pubblicazione del secondo album.
Un album che a quanto pare ha avuto diverse difficoltà in alcune nazione, essendo stato bannato per motivi religiosi: ho il sospetto che parte della "colpa" risieda nella traccia che chiude il disco, "The Fall ov Allah". Va da sé che l'intera opera copre tematiche occulte e fortemente antireligiose, il che contribuisce a quello che è l'unico neo di quest'opera. Peccato però sia un neo che prende più punti contemporaneamente: "Godless" manca totalmente di originalità. A partire dalle tematiche, passando per lo stile, fino a titoli che sembrano fin troppo abusati o comunque sia simili a centinaia di altri... Tutto purtroppo dà la sensazione di già visto e già sentito innumerevoli volte. Ed è anche un peccato, perché tutto sommato i pezzi non sono nemmeno tanto male, pur avendo una produzione poco meno che sufficiente ed alcuni colpi "a vuoto" della batteria, che è quasi sempre lo strumento che ne risente di più quando si ha a che fare con un artista che suona tutto.
Mi spiace per Luciferian Insectus, ma quando già dopo pochi minuti della prima traccia, dal fantasiosissimo titolo "666", già ci si è scocciati di ascoltare e ti viene voglia di skippare appresso, qualcosa non va. E qualcosa non va per tutta la durata dell'album: a costo di ripetermi, tutto già visto e tutto già sentito. Centinaia e centinaia di volte.
Ultimo aggiornamento: 08 Settembre, 2017
#1 recensione -
A un anno di distanza da "Monument", tredicesimo album della loro carriera, tornano per la gioia dei loro fans i Crematory, ormai leggendaria band teutonica che molto ha saputo dire nel corso della propria carriera, affrontando anche un netto cambio di stile che poteva essere rischioso, ma che invece è risultata essere una carta vincente che portò nuova linfa vitale alla band. Tornano, dunque, i Crematory e lo fanno con un Live Album, il secondo della loro carriera: dopo "Live Revolution", uscito nel 2005, è la volta ora di "Live Insurrection", in cui è presente l'intera esibizione della band al prestigioso Bang Your Head Festival.
Un live album che gode di una produzione ottima, basilare per la buona riuscita del CD/DVD, anche per via del genere proposto ora (e da un bel po' d'anni ormai) dai nostri: un Gothic/Industrial che comunque, a distanza di tempo, ancora porta con sé tracce del passato Death della band, specie con il cavernoso growl di Felix Stass. Ovviamente spazio maggiore viene dato proprio ai pezzi di "Monument" - il kick-off al live viene dato con "Misunderstood" ad esempio -, ma non vanno certo a mancare capatine nel passato più o meno recente, con la traccia che più aspettavo di ascoltare che possiamo trovare al No.13: una canzone che nonostante abbia 17 anni - è compresa infatti nell'album "Believe" del 2000 - continua ad essere, per me, spettacolare. Mi riferisco, ovviamente, a "The Fallen"... quale altra se no? Canzone in cui ottimo è l'intercambiarsi vocale tra la voce pulita di Tosse e quella più dura di Felix. Il punto forte di quest'uscita è comunque, come dicevo già, la produzione; sia quella audio - con suoni ben distinti, chiari, che danno benissimo l'idea della prova offerta dai Crematory -, sia quella video. Anzi, vero che il CD è a dir poco soddisfacente, ma lasciatemi dire che l'esperienza migliore è quella d'inserire il DVD nel vostro lettore e VEDERE i Crematory all'opera su uno dei palchi più ambiti del Vecchio Continente.
Ventisei anni di carriera e non sentirli per nulla. Complice anche, ne sono sicuro, il cambio di genere nel corso della carriera: se i Crematory avessero continuato con il Gothic Death degli esordi, probabilmente adesso staremmo parlando di una band il cui fattore "rischio-noia" potrebbe essere alto. Lo stile di ora, invece, continua a dare slancio ad una band che appare in forma smagliante nonostante il passare del tempo. Per i fans dei Crematory e più in generale di queste sonorità gotico-industriali un'uscita raccomandatissima, assolutamente da non perdere.
Ultimo aggiornamento: 07 Settembre, 2017
#1 recensione -
Avete presente quando si dice "se non son matti non li vogliamo?". Ecco, ora ditemi se non sono completamente matti i Cannabis Corpse! Quando Phil "Landphil" Hall dei Municipal Waste mise su questo progetto parodistico - a partire dal nome -, la mia prima sensazione è stata che sarebbe durato un paio di dischi, giusto di dare il tempo a Phil e soci di divertirsi un po'. Come mi sbagliavo... Sono passati undici anni da allora e con "Left Hand Pass" (già!) arrivano alla pubblicazione del QUINTO album, secondo sotto lo stendardo della Season of Mist.
In primis va detto che questo side-project è a tutti gli effetti un supergruppo, dato che al fianco di Landphil troviamo personaggi come Ray Suhy dei Six Feet Under e Brandon Ellis dei The Black Dahlia Murder (purtroppo quest'ultimo assente in questo lavoro). Come sempre, la parodia si ferma ai titoli delle canzoni, come dell'album, ed alle liriche, perché musicalmente i Cannabis Corpse continuano a essere quello che sono sempre stati: un'enciclopedia del Death Metal. Un riassunto vero e proprio del Death da trent'anni a questa parte, con un sound (modernizzato, vero) che sembra uscire dall'epoca d'oro del genere, quando irruppero sulle scene gruppi come Cannibal Corpse, Suffocation, Obituary, Death... Quindi se da un lato si sorride vedendo titoli come "In Dank Purity", "In Battle there is no Pot", "Effigy of the Forgetful" e, soprattutto, "Papyrus Containing the Spell to Protect its Possessor Against Attacks from He Who is in the Bong Water" (ma seriamente fate?!?, n.d.r.), il sorriso ci pensano proprio i Cannabis Corpse a togliertelo. A craniate nei denti. Proprio la song dal titolo chilometrico e che rimanda ai Nile è tra gli highlights del disco, così come "Final Exhalation" con i suoi solidi rallentamenti alternati ad accelerazioni bestiali. Il lavoro dei Cannabis Corpse possiamo definirlo anche un lungo omaggio (e sono cinque album ormai), ma anche il lavoro di una band che nonostante le influenze palesissime - vedasi "The Fiends that Come to Steal the Weed of the Deceased" col suo incessante mix Slayer/Suffocation - riesce a non essere MAI banale.
Irriverenti come pochi al mondo, i Cannabis Corpse saranno anche una band parodia, ma una band parodia che ne ha fatta di strada e che soprattutto musicalmente picchia in maniera spropositata. Il loro Death Metal novantiano, riportato però con una produzione moderna, cristallina e potente, è probabilmente una delle cose più innovative che possiamo sentire ai giorni nostri. E so che può far strano, ma è proprio così. Io non so quante canne si fanno questi ragazzi per partorire quello che ci fanno ascoltare. Ma se questi sono i risultati non sarò certo io ad invitarli alla moderazione!
Ultimo aggiornamento: 07 Settembre, 2017
#1 recensione -
Non ci sono mezze misure, quando si parla di un disco proveniente dalla Russia. O si di tratta qualcosa di magnifico (e mi vengono in mente ad esempio il mastodontico "Gravenous Hour" dei Katalepsy o "Cerberus Millenia" dei Back Door to Asylum), o dischi dimenticabili, se non dei veri e propri obrobri (qui la mia mente non può che andare a due album recensiti in passato, ossia "Anticipattern" degli Arbor Inversa ed il pessimo, molto più che pessimo disco degli Abyssphere). A cosa ci troviamo di fronte con questo "Execution", debut album degli Slice of Sorrow? Questa è la prima domanda che mi sono posto nel momento di premere play e cominciare l'ascolto di quest'opera, una domanda figlia di quel pensiero iniziale. Ebbene, posso dirvi che abbiamo tra le mani un disco che supera ampiamente la sufficienza con agilità.
Mi ci sono avvicinato in primis per curiosità, visto che gli Slice of Sorrow venivano presentati come Atmospheric Death Metal. Cito dalle info: "Dieci variopinte tracce con melodie malinconiche (eh?), chitarre da headbanging, tastiere atmosferiche ed espressive vocals estreme". E già leggendo questo... Poi comincia il disco e... in poche parole? Sì, è atmosferico, ma alla fine della fiera abbiamo qui una band Melodic Death che fa un massiccio uso di tastiere per dare, per l'appunto, un'impronta più atmosferica al proprio sound. Quindi, tralasciando l'inutile etichetta, andiamo a concentrarci su "Execution".
E questo disco è bello, senz'ombra di dubbio. Un Melodic Death che riesce a mischiare sia la più dura scuola svedese (At the Gates, primissimi In Flames) al più malinconico ed atmosferico stile finlandese (Insomnium, Wolfheart). E c'è un momento preciso nell'album che può essere preso a manifesto di quanto detto: la parte centrale di "Pay for Pain", in cui abbiamo in contrapposizione alle granitiche chitarre uno splendido suono di piano. Sono queste contrapposizioni stilistiche il leitmotiv di quest'album; il gusto per la melodia degli Slice of Sorrow non sarà magari originale, ma "fa il suo" potremmo dire ed "Execution" risulta un disco compatto e soddisfacente, con la sola "Only Whisper" che in certi frangenti appare poco convincente, ma è un piccolo peccato veniale che tutto sommato si può far passare. Un'ultima nota a margine: tutto il comparto strumentale si comporta egregiamente e la prova al microfono di Roman Nemtsev è più che buona, seppur mancante di un "timbro personale", nel senso che spesso sembra di sentire una copia di Alexi Lahio.
Siamo lontani dalla magnificenza dei dischi di Katalepsy e Back Door to Asylum che ho nominato ad inizio recensione. Ma fortunatamente siamo lontanissimi anche dallo schifo perpetrato dagli Abyssphere! "Execution" degli Slice of Sorrow è un album che potrà piacere agli amanti del Melodic Death a tutto tondo, visto che questa commistione di stili difficilmente lascerà scontento qualcuno.
Ultimo aggiornamento: 07 Settembre, 2017
#1 recensione -
Formatisi nel 2009 e con all'attivo un EP ("Blizzard of the North", 2011) ed un album ("Manifesto", 2014), i polacchi Northern Plague tornano con il loro secondo lavoro su lunga distanza, "Scorn the Idle", uscito autoprodotto lo scorso luglio. Sembra quasi inutile dirlo, ma come sempre una band che proviene dalla Polonia e che suona Death/Black non delude.
Devoti a quel che ormai possiamo definire il classico stile della scuola est-europea, i Northern Plague ci regalano con quest'album nove nere gemme di violenza inaudita, pur non mancando atmosfere cupe ed asfissianti, che raggiungono il proprio culmine nell'ottima terza traccia, "Crown the Fools", di cui è apprezzabilissimo anche l'arioso solo. Il riffingwork è tagliente ed è unito ad una sezione ritmica schiacciasassi - e qui complimenti vanno fatti allo scatenato drummer Damyen -, la prestazione dietro al microfono di Fen è a dir poco ottima, col suo scream ferale e dotato anche di una certa espressività: se sulle tracce più veloci e violente - tipo "Rites of the Devourer", "Crown for Fools" e "Workphetamine" - il cantato è "on your face " e, potremmo dire, incazzato come pochi, si fa in un certo senso "sofferente" nei pezzi più ragionati, quali possono essere "The Day After" e "Man of Glass". L'ascolto scorre via facilmente, anche grazie alla non eccessiva durata dei pezzi - quasi tutti nella media tra i 3 ed 4 minuti e mezzo, con la sole opening track e le due conclusive leggermente più lunghe -, che fa sì venga meno il rischio di poter cadere in una certa monotonia, un rischio che, in determinati generi, è purtroppo sempre dietro l'angolo. Ma, diciamolo, il merito è anche dei Northern Plague, capaci di scrivere pezzi particolarmente ispirati.
Con alle spalle già due tour europei, anche di spalla a bands come Vader, Unearthly e Negura Bunget, questa band originaria di Białystok e stabilitasi a Varsavia ha dalla sua già una discreta esperienza ed un grado di maturità artistica già elevato pur essendo solo al secondo album. "Scorn the Idle" è un disco Death/Black a tutto tondo, completo, in cui possiamo apprezzare sia la violenza primordiale di "Workphetamine" sia la più lenta e "sentita" "The Day After", fino ad arrivare al gioiello della corona, ossia quella "Drowned" che a mani basse risulta essere la canzone migliore del lotto. I Northern Plague hanno seminato moltissimo in questi anni e con "Scorn the Idle" è arrivato per loro il momento di raccogliere il dovuto. Non sarei per nulla sorpreso se si sentisse parlare di più di loro in futuro, né tanto meno che un prossimo disco possa essere la consacrazione per questi quattro ragazzi. Altamente raccomandato.
#1 recensione -
Formatisi nel 2015 - seppur un primo avvio c'era già stato nel 2006 - gli americani Winds of Leng rilasciano il loro album di debutto, a titolo "Horrid Dominion". Un debutto sorprendente, incredibilmente massiccio, che proietta il trio di Phoenix tra le migliori sorprese del 2017. Ma direi sia il caso di andare con ordine. Dopo l'assestarsi della line up, i Winds of Leng creano il loro proprio studio, dove hanno avuto luogo le registrazioni di "Horrid Dominion", il cui mixing e mastering sono stati però affidati al leggendatio Dan Swano. E la sua mano si sente, eccome se si sente!
Death/Black violento all'inverosimile che ricorda i Belphegor di inizio-metà anni 2000, questa la proposta dei WoL. Quasi 3/4 d'ora di colpi inferti senza pietà all'ascoltatore. Un martellare continuo che comincia con la mastodontica doppietta iniziale (togliendo l'inutile Intro): "Beneath Unhallowed Earth" e, soprattutto, "Audrey". Il chiaro intento dei nostri è pressoché raggiunto al primo colpo: creare il sound più feroce e brutale possibile. Il riffingwork - di cui si occupano tutti e tre, così come per le linee di basso - è ispirato, seppur non innovativo essendo chiarissime le influenze della scuola scandinava, ed estremamente tagliente, supportato da una sezione ritmica che fa del blast beat forsennato l'unica religione. Non c'è un pezzo che sia uno che si possa definire brutto o quanto meno più debole degli altri. Prendete l'esplosiva "Devourer": appena tre minuti bastano ai WoL per perpetrare un vero e proprio massacro sonoro. Un massacro che perdurerà nel resto del disco, da "Chaosborn", che sorprende col suo riff Melodic Death, fino alla conclusiva "Lord of the Dead".
Con tanti gruppi praticamente inutili che ci sono in giro, perché i Winds of Leng ancora non hanno un contratto? Perché "Horrid Dominion" ha avuto sinora solo una distribuzione digitale autoprodotta e non ancora fisica? Fossi in qualsiasi etichetta mi lancerei senza pensarci troppo su questa band per produrre il loro incredibile album di debutto. Non sarà innovativo, ok, ma comunque è e resta una mazzata assurda tra capo e collo, quindi che qualcuno abbia le palle di far qualcosa.
Ultimo aggiornamento: 05 Settembre, 2017
#1 recensione -
Sono ben lontani, lo so, i tempi di "Blutsabbath", "Necrodaemon Terrorsathan" e "Lucifer Incestus", terzetto d'album che ci consegnò uno dei più feroci e violenti gruppi in ambito estremo: gli austriaci Belphegor, con il loro Death/Black blasfemo e fortemente anticristiano. Una band, quella capitanata dal carismatico cantante/chitarrista Helmuth, che non si è mai seduta sugli allori e anzi tende ad ogni album a sperimentare qualcosa di nuovo; ed anche questo loro undicesimo studio album, che con la solita sobrietà dell'act austriaco s'intitola "Totenritual", ha infatti elementi diversi che lo caratterizzano rispetto ai predecessori.
Forti di un nuovo drummer, Simon "Bloodhammer" Schilling (ex-Paragon Belial), i Belphegor hanno in un certo senso "adattato" il songwriting al drumming tecnico e più votato al Death del neo-entrato. Ce ne siamo resi conto tutti, credo, già all'uscita del primo singolo, "Baphomet": i Belphegor hanno sensibilmente abbassato i toni delle chitarre, rendendo il proprio sound più cupo, più orientato, appunto, verso la componente Death Metal, avvicinandoli come sonorità, a mio avviso, ai colleghi polacchi Behemoth; anche l'uso massiccio da parte di Helmuth di growlin' vocals dà maggior risalto a questa scelta stilistica. Un pregio dei Belphegor, comunque, è sempre stata l'accuratezza con cui vengono fatti i lavori di ricerca che andranno a comporre le loro liriche; un'accuratezza che possiamo ritrovare in "The Devil's Son", canzone che parla della vita dell'Artista del Diavolo, il violinista italiano Niccolò Paganini. E quasi come fosse un doveroso omaggio al più grande violinista di tutti i tempi, "The Devil's Son" è un pezzo dalla velocità allucinante, nel quale di nuovo non si può non notare l'ossessivo drumming di Simon: diciamolo, la sua entrata non ha fatto che giovare ai Belphegor. Comunque sia, come il titolo dell'album stesso suggerisce, c'è qualcosa che non cambia mai: ogni singolo pezzo dei Belphegor ha un qualcosa di ritualistico, una sensazione che qui si fa forte ascoltando le varie "Spell of Reflection", "Apophis - Black Dragon" (col suo coro monastico che contrasta il growl in tedesco di Helmuth) e "Totenbeschwörer". E non manca, ovviamente, un attacco diretto alle istituzioni ecclesiastiche con la rabbiosa "Swinfever - Regent of Pigs".
In fatto di violenza applicata alla blasfemia, i Belphegor sono ormai 25 anni che non sono secondi a nessuno. "Totenritual" è quello che possiamo definire tranquillamente "un disco dei Belphegor", mi spiego: nonostante la svolta stilistica più Death-oriented, il sound più cupo e tecnico rispetto al passato, c'è sempre quel qualcosa che ti fa capire immediatamente che stai ascoltando loro. Forse un po' contorto come l'ho messa giù, ma credo abbiate capito il concetto. I Belphegor possono sperimentare nuove cose ad ogni album, cambiare leggermente o di tanto il loro stile, ma come da 1/4 di secolo a questa parte restano sempre fedeli a loro stessi. E già solo per questo meritano tutto il rispetto possibile.
Ultimo aggiornamento: 04 Settembre, 2017
#1 recensione -
Ci sono gruppi che vengono inspiegabilmente ignorati dalle masse, cui viene precluso l'ingresso in quello che potremmo definire "giro del mainstream". Ma che comunque la sua in ogni caso enorme fetta di pubblico se la fanno, diventando delle leggende nell'underground Metal mondiale. E' questo il caso degli inglesi Akercocke, band londinese che torna nell'anno del ventesimo anniversario dalla formazione - a cui bisogna togliere il quadriennio 2012-2016 nel quali sono stati fermi - con l'ennesima prova sontuosa. A ben dieci anni di distanza dall'ultimo album, l'ottimo "Antichrist", è uscito infatti in questi giorni "Renaissance in Extremis", sesto studio album per Mendonça e soci.
Ritornati dalle ceneri nel 2016 dopo 4 anni di pausa, quindi, gli Akercocke si ripresentano con una nuova line up, comprensiva di due nuovi elementi. Agli storici Jason Mendonça, Paul Scanlan e David Gray, si vanno ad aggiungere le due new entries, ossia il bassista Nathaneal Underwood ed il tastierista Sam Loynes. Quest'ultimo probabilmente portato in dote da Gray, vista la loro militanza comune nei The Antichrist Imperium.
Rompiamo subito gli indugi dicendo che "Renaissance in Extremis" è un album grandioso. E questo nonostante non sia privo di qualche difetto, di cui parleremo dopo. Il sound è quello che ci si aspetterebbe: un Death/Black ferino abbinato ad ottimi rallentamenti dal flavour Prog, il tutto con belle atmosfere date soprattutto dal buonissimo lavoro di Loynes alle tastiere. Incredibilmente difficile scegliere un pezzo da preferire rispetto agli altri, anche se possiamo dire che il perfetto biglietto da visita di "Renaissance in Extremis" è la traccia No.3: ancor più che nel singolo "Disappear" - traccia che apre il disco -, in "Insentience" possiamo ascoltare tutto quanto hanno da offrirci gli Akercocke, con pregi e difetti. Difetti che alla fine risiedono tutti nel lavoro vocale di Mendonça: Jason è incredibilmente a proprio agio col suo cavernoso growl, mentre offre luci e ombre nel momento dell'usare la voce pulita, non sempre perfetto anche se non è il caso di "Insentience", visto che qui la spettacolare parte Progressive è accompagnata da delle ottime clean vocals; il problema grosso è quando viene usata una sorta di "via di mezzo", con una voce sporca su cui si cerca di utilizzare una tecnica tipica per le voci pulite: lo possiamo sentire nella già citata terza traccia, ma ancor più, ad esempio, nella seguente "First to Leave the Funeral", pezzo musicalmente ineccepibile ma con parti vocali in questo stile che posso solo osare definire bruttissimo.
Normalmente questo sarebbe un gran bel brutto difetto per un disco, ma per fortuna musicalmente gli Akercocke tirano fuori una prestazione mastodontica, con pezzi talmente belli che si tende a perdonare la defiance vocale di cui sopra. Ascoltate le canzoni che ho già menzionato, oppure "Unbound by Sin", o la magnifica "Familiar Ghosts"... Ma comunque, credetemi, è un discorso che si può applicare a tutti i 9 pezzi che compongono quest'album.
Ci sono voluti dieci anni per riavere indietro gli Akercocke, ma se il risultato finale è un album talmente ispirato come è "Renaissance in Extremis", allora amen: è valsa la pena aspettare. Il come back del quintetto londinese è senz'ombra di dubbio uno di quelli che finirà nella mia top10 di fine anno, al netto di quell'unico difetto che, per me, c'è in quest'opera. Che è anche il motivo del mezzo voto in meno che do al voto finale. Ma in ogni caso, "Renaissance in Extremis" è uno di quegli album su cui c'è stampato sopra l'avviso "MUST HAVE!".
Ultimo aggiornamento: 04 Settembre, 2017
#1 recensione -
A tre anni di distanza dall'album di debutto, "A Monument to the End of the World", tornano gli spagnoli The Hole, band di Las Palmas, Isole Canarie, che a discapito del nome che potrebbe ricordare lo schifosissimo gruppo di quella minus habens bionda che non nominiamo nemmeno, suona un discreto Thrash/Death Metal.
Le cinque tracce che compongono "The Wrath" - questo il titolo dell'EP - ci mostrano una band che, nonostante non suoni nulla che non abbiamo già sentito e risentito più volte, sa decisamente il fatto suo. Messi totalmente da parte gli ipertecnicismi, il powertrio iberico spinge sull'acceleratore dal primo secondo col suo Thrash/Death rapido e granitico, con pezzi che promettono di essere, in sede live, promotori di moshpits infiniti e headbanging sfrenato, vedasi ad esempio la ferale "Messianic". Non tutto va per il verso giusto però, visto che in fase di produzione si sarebbe potuto fare un po' meglio: se i suoni degli strumenti fossero stati equilibrati maggiormente con la voce, avremmo avuto per le mani un EP che non avrebbe brillato per originalità, ma sarebbe stato quanto meno un piccolo gioiellino, nel suo piccolo.
"The Wrath" è però un dischetto che passa agilmente l'esame. Poco più di 20 minuti suonati con passione ed attitudine e che rendono The Hole una band da tenere sott'occhio, che potranno darci qualche soddisfazione maggiore in futuro. Però oh: questo nome...
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