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Opinione scritta da Daniele Ogre

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Opinione inserita da Daniele Ogre    03 Aprile, 2017
Ultimo aggiornamento: 03 Aprile, 2017
#1 recensione  -  

Gli Evil Never Dies (da qui in avanti per comodità E.N.D.) sono uno dei più longevi gruppi della scena Metal partenopea. Fondati nel 1990, infatti, hanno rilasciato due demo durante gli anni '90, per poi avere una certa continuità dal 2008 in avanti col lancio dell'EP "Today is the Day", seguito poi da "De Maleficis" (2011) e "Sulphur Paintings" (2014). E nella tradizione del disco ogni 3 anni, nel 2017 arriva "Ekpyrosis", quello che è, a tutti gli effetti, il primo album della band napoletana.

Il Thrash degli E.N.D. ha forti influenze sia dagli 80's che dai 90's, cosa che può esser vista come un'arma a doppio taglio. Se da un lato c'è il pregio che i tantissimi amanti di quelle sonorità avranno sicuramente pane per i loro denti con questo lavoro, c'è anche il difetto che non suoni del tutto "attuale". Non è certo un album privo di difetti questo "Ekpyrosis", a partire dalla produzione non ottimale per gli standard odierni (ma questo è un difetto riscontrabile in praticamente quasi tutti i gruppi napoletani), passando per pezzi che magari funzionano poco, come la semi-doomeggiante "Epitaphs", ma d'altro canto ha anche i suoi punti a favore. E mi riferisco a pezzi come l'opener "Holy Mountain", o "It's Alive", o "Land with no Future" (il riferimento a Napoli è velato, eh?), che sono sicuro in sede live avranno la loro presa. Proprio "It's Alive" è, secondo il mio parere, il punto da cui partire in vista di lavori futuri: dimostra come gli E.N.D. ci sappiano fare quando si lasciano andare senza freni.

Luci ed ombre, quindi, per "Ekpyrosis" degli Evil Never Dies. In un'analisi riassuntiva, direi che è un album cui si può benissimo concedere un ascolto, che di sicuro ha il pregio di non annoiare. Lo si deve fare, però, con la consapevolezza che si ha davanti un disco che rientra "nella media". Sufficiente, quindi, ma che non farà gridare al miracolo.

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3.5
Opinione inserita da Daniele Ogre    26 Marzo, 2017
Ultimo aggiornamento: 26 Marzo, 2017
#1 recensione  -  

Settimo album per i Nightrage, band Melodic Death metal greca, anche se ormai trapiantata definitivamente in Svezia. Una band, i Nightrage, che ha saputo ritagliarsi il proprio spazio nel corso degli anni e che è sempre riuscita a far uscire lavori ben sopra la sufficienza. "The Venomous", in uscita questo prossimo 31 marzo per Despotz Records, è presentato, a quanto leggo dalle info che accompagnano il promo in mio possesso, come il miglior album della carriera per la band greco-svedese, anche grazie agli innesti di Magnus Söderman (chitarra) e Lawrence Danimarca (batteria), che vanno ad aggiungersi al fondatore Marios Illiopulos, al bassista Anders Hammer ed al cantante Ronnie Nyman, anch'egli entrato recentemente in formazione (2014).

A mio avviso il punto vincente dei Nightrage è che questo "The Venomous" suona maliziosamente "catchy", grazie ad una per niente nascosta influenza Heavy che va ad intrecciarsi col sound Melodic Death della band, soprattutto per quanto concerne gli orecchiabilissimi refrain e le parti di solo. Quando invece decidono di spingere sull'acceleratore, possiamo ascoltare una band che potrebbe ricordare benissimo sia i Soilwork che gli In Flames. Prima che le due bands svedesi impazzissero e cominciassero a suonare 'sta roba ignominiosa che fanno ora. Anyway, abbiamo diversi esempi che perfettamente calzano con quanto dicevo poc'anzi riguardo il sound dei Nightrage: per quanto siano influenze riscontrabili su tutto l'arco dell'album, l'opener "The Venomous", "In Abhorrence" ed "Affliction" rendono perfettamente l'idea di quanto affermato. Soprattutto quest'ultima, grazie al refrain ed alla parte centrale con un arpeggio che tanto ha il flavour di In Flames, seguito da un solo in puro Heavy style. Manifesto dell'album, però, è la bellissima "Catharsis": dal bello e "tranquillo" intro passando per la schizofrenica accelerata quando i Nightrage decidono di "partire", "Catharsis" è in assoluto il pezzo che gode maggiormente di un songwriting ispirato e di un arrangiamento particolarmente curato.

Una nota a margine, è che da cantante e fruitore di tale stile, ho particolarmente apprezzato le screamin' vocals di Ronnie Nyman. Per il resto, "The Venomous" è un album che si lascia ascoltare con piacere, "catchy", come ho avuto già modo di dire, arioso ma comunque con i suoi momenti di possenza. Un'ottima commistione che rende quest'album decisamente molto, molto interessante

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Opinione inserita da Daniele Ogre    26 Marzo, 2017
#1 recensione  -  

Già tornati attivi nel 2014 con l'EP "Serving Two Masters", i deathsters americani tornano a colpire anche sulla lunga distanza con "Wounds Deeper than Time", quinto album in totale per i maestri dell'old school Death di Milwaukee, primo a 20 anni da "Surface", uscito un anno prima dello scioglimento. A rilasciare l'album è l'etichetta "storica" dei Morta Skuld, la Peaceville Records.

Quest'ottimo album è un premio alla costanza del chitarrista/cantante David Gregor, unico membro originario in line up ed autore principe della rifondazione di una band che, negli anni '90, era riuscita a farsi valere in un genere già pieno di grandi nomi. E infatti, per quanto mi riguarda, i Morta Skuld non hanno raccolto, in fin dei conti, quanto meritassero davvero. Erano una band ben conosciuta ed apprezzata, ok, ma non credo sia un'eresia dire che avrebbero meritato di esser messi sullo stesso piano di Morbid Angel, Cannibal Corpse ecc. ecc.

Comunque sia, dopo anni di silenzio, Gregor rimette su la sua vecchia band coadiuvato da Scott Willecke all'altra chitarra, AJ Lewandowski al basso ed Eric House alla batteria. E soprattutto torna, con i suoi Morta Skuld, sul mercato in grande stile, con un album che suona maledettamente old school, ma che ha dalla sua una produzione attuale che mette in risalto l'incessante martellare di questo "Wound Deeper than Time". A differenza di altre bands qui recensite, nonostante il rimanere ancorato ai suoni "marci" della vecchia scuola, i Morta Skuld hanno fortunatamente puntato quindi su una produzione che giovasse all'economia del disco; ed è così che ci si può lasciar colpire dalle nove mazzate continue che la band americana ci propina, con riff belli pesanti e una sezione ritmica paragonabile ad un rullo compressore. Abbiamo l'incedere più lento ma enormemente pesante di pezzi come "Against the Origin", le incessanti sfuriate à là "In Judgment", pezzi che miscelano ottimamente le due cose con "My Weakness"... e poi abbiamo una doppietta di canzoni assolutamente spaccacollo che corrispondono ai nomi di "Scars Within" e "Devour the Chaos", i pezzi che maggiormente mi hanno convinto di questo lavoro.

Lasciatemi dire che è una vera fortuna che mr. Gregor abbia deciso di riportare in vita i Morta Skuld. Chi è un po' più in là con gli anni come me può godere dei nuovi lavori dell'act del Wisconsin, mentre i giovincelli potranno non solo ascoltare il martellante "Wounds Deeper than Time", ma hanno anche l'opportunità (e l'obbligo morale) di andare a pescare anche i loro vecchi lavori. I Morta Skuld hanno rilasciato un album pressoché senza difetti: non possiamo che dar loro il bentornato!

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Opinione inserita da Daniele Ogre    25 Marzo, 2017
Ultimo aggiornamento: 25 Marzo, 2017
#1 recensione  -  

Debut album per gli Ad Vitam, band di Sant'Antioco fondata nel 2010 e che ha all'attivo anche un EP autoprodotto, "Edge of Memory", rilasciato nel 2014. Una band, gli Ad Vitam, che riesce a fondere nel proprio sound un discreto Melodic Death Metal à là Dark Tranquillity con elementi - e tecnica - prevalentemente Prog.

Ed è la preparazione tecnica del quintetto sardo a risaltare lungo le tredici tracce che compongono "Stratosfear", album lunghetto - si è poco sopra i 50 minuti -, ma che riesce nell'intento di non annoiare, seppur non è proprio tutto oro quel che luccica. L'unica cosa che, personalmente, ha fatto storcere un po' il naso è la presenza quasi costante di tastiere, anche in punti dove, probabilmente, senza ne avrebbero guadagnato, come ad esempio nelle parti iniziale di "Under a Cypress Root". E fosse solo lì... Ma a parte questo, i nostri riescono a tirare su un lavoro già sufficientemente maturo, soprattutto essendo un debutto su lunga distanza. Ottimo il lavoro, in fin dei conti, per quel che concerne il lato compositivo, il che rende questo disco degno di un'attenzione alta dall'inizio alla fine. Altro punto a favore degli Ad Vitam è che riusciranno ad avvicinare anche chi ascolta roba più moderna, grazie ad alcuni sprazzi più, per l'appunto!, moderni, che possono ricordare i milanesi Destrage. Tutti di ottima fattura i pezzi, tra i quali spiccano, imho, "Six Feet Under my Sins", "Join me in Farewell" e la lunga "Plagues of Nothing" (su quest'ultima pregevolissimo il lavoro al basso di Federico Raspa, così come bellissima è la parte centrale acustica). Ma... c'è un ma. Spesso le tastiere, gli inserti orchestrali, quel che sono, risultano essere davvero troppo presenti e quello che poteva risultare, usato nella giusta dose, un arricchimento alle sonorità dell'album diventa, dopo un po', praticamente un peso.

Nel complesso, comunque, "Stratosfear" degli Ad Vitam è un album che va ben oltre la sufficienza: non sorprende che a loro sia arrivato l'occhio lungo della Revalve Records. Aiutato da una produzione buona - e non oso immaginare cosa sarebbe uscito fuori se a metterci mano fossero stati i 16th Cellar - "Stratosfear" è un album che piacerà sicuramente tanto ai fans di gruppi quali Dark Tranquillity ed Opeth quanto agli amanti (meno intransigenti) del Prog. Riassumendo in una sola esclamazione, insomma: buona la prima!

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Opinione inserita da Daniele Ogre    23 Marzo, 2017
Ultimo aggiornamento: 23 Marzo, 2017
#1 recensione  -  

Mi sa tanto che mi trovo in disaccordo con la collega che ha recensito, qualche tempo fa, il debut degli americani Vorzug. Nell'ascoltare l'EP "Three" non ho trovato, in tutta sincerità, nulla di così entusiasmante, anzi... Ma procediamo con ordine. Fondati nel 2014 a Phoenix, Arizona, da quattro "old guys" con la voglia di suonare old school Blackened Death, i Vorzug rilasciano il debut album, "Call of the Vultures" poco dopo, tornando poi alla carica nel gennaio di quest'anno con l'EP che abbiamo qui in esame.

Nel titolo parlo di luci ed ombre, ma più nello specifico? Constatando in primis che solitamente mi trovo un po' in difficoltà a recensire prodotti così esigui ("Three" è infatti composto da, guarda un po'?, tre soli pezzi), posso comunque dire che sul piano musicale i Vorzug mi hanno in parte convinto. In parte perché strumentalmente, pur non avendo qualcosa che faccia gridare al miracolo, qualcosa di buono c'è. Però c'è l'effetto di "già sentito". Che poi, trattandosi, di un genere, come detto, old school, magari ci si può anche stare, ma ciò non toglie che già al secondo dei tre pezzi l'effetto di cui sopra è ampliato all'ennesima potenza. Ma se pure vogliam esser buoni e passarci sopra, quello che non va del tutto risiede nella produzione. Come ho avuto già modo di dire in passato, "old school" non significa che un disco debba uscire con una produzione insufficiente, ma ahimè due su due mi sono ritrovato con questa situazione. Già la prestazione vocale di Anthony Hoyes, il cui lungo soprannome omettiamo, l'ho trovata ampiamente deficitaria, se poi va a sovrastare in maniera netta il comparto strumentale... Poi non so se è fatto apposta o meno, ma comunque: so cosa vuol dire respirare di diaframma e come si fa, ma compito del produttore è far sì che non si senta sul disco, quindi quel respiro che si sente fin troppo spesso non mi fa pensare a qualcosa di propriamente tecnico, ma ad uno asmatico. E per dovere di cronaca, aggiungiamo le parti in "scream" (virgolette d'obbligo) assolutamente insufficienti.

Insomma, ho approcciato questo EP, quando mi è stato mandato per recensirlo, con entusiasmo, visto che in fondo io di metal estremo ci campo, in pratica. Purtroppo è bastato il primo ascolto per far scemare del tutto l'entusiasmo iniziale e ad ogni nuovo ascolto - ricordo che non sono pochi per disco, ad ogni recensione - ha lasciato sempre più il posto ad una bruciante delusione ed un "vago" senso di noia. E riguardo quest'ultimo punto, per una volta mi sento di dire: ma meno male che i pezzi son solo tre! Se volete dar loro una possibilità ascoltando questi pezzi, fate pure; io, personalmente, non mi sento di consigliarlo. Ma cosa c'avrà trovato la collega, nello scorso disco?

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Opinione inserita da Daniele Ogre    23 Marzo, 2017
Ultimo aggiornamento: 23 Marzo, 2017
#1 recensione  -  

Sin dalla loro fondazione, i Dark Lunacy sono stati uno di quei gruppi che si è sempre constraddistinto tra tutti gli altri, forti del fatto d'aver inserito in maniera stabile un quartetto d'archi da unire al loro Melodic Death Metal. Già dal debutto datato 2000 con "Devoid", la band del carismatico singer Mike Lunacy ha dimostrato di essere tra le più interessanti ed importanti realtà della scena Metal nazionale, confermandosi di volta in volta soprattutto con due incredibili capolavori come "Forget.Me.Not" e l'ultimo album, fino ad ora, "The Day of Victory". A soli due anni di distanza dal più incredibile lavoro della loro carriera, almeno per me, la Symphonic Melodic Death band emiliana torna con una nuova, meravigliosa, fatica.

"The Rain After the Snow" ha un tema portante che si protrae per tutto il disco, un significato profondo che fa da colonna a dieci preziosissime gemme che vanno ad impinguare il numero di canzoni a dir poco bellissime dei Dark Lunacy. L'introspettivo "The Rain After the Snow" parla infatti della crudeltà della vita, l'inesorabilità del tempo; lo spirito dell'album è raccolto nel metaforico titolo: la neve e la pioggia, viste come dono e privazione di quest'ultimo, rappresentano le cose belle che la vita concede per poi togliere. Come, per l'appunto, la pioggia che scioglie la neve.

Al pronti-via capiamo immediatamente a cosa ci troviamo davanti. "Ab Umbra Lumen" è il "biglietto da visita" che "The Rain..." ci concede e si nota come i Dark Lunacy sapientemente continuino sulla strada aperta da "The Day of Victory", con orchestrazioni ancor più complete rispetto agli archi dei primi lavori (seppur ancora grandi protagonisti), più presenti ma che sono perfettamente miscelate con tutto il resto; non c'è una sovrabbondanza, non ci sono momenti in cui i suoni sinfonici, così come i cori, risultano ridondanti: il tutto è perfettamente equilibrato. Non mancano poi componenti da sempre importanti per il sound dei Lunacy, quel pathos che solo loro riescono a dare - e sfido chiunque a dire il contrario -, così come quella ricerca al saper colpire nelle emozioni più profonde, di pezzo in pezzo. E a colpire maggiormente, in questo senso, oltre ai due singoli da cui son tratti i due video, "Gold, Rubies and Diamonds" e la bellissima "Howl", è la title-track, perfetta summa in un singolo pezzo di quello che è il tema dell'album; archi e cori accompagnano la sofferente voce di Mike Lunacy in uno straziante giro nel proprio animo post-privazione: "Rain fell/Rain kissed me/Snow died/Back to my Earth/Springtime, what takes me?/I'm here, but my drapes". Non mancano, ovviamente, momenti più furiosi: mi riferisco, soprattutto, a "Tide of my Heart", che è forse la traccia che più riesce a centrare l'obiettivo dei Lunacy, ossia rendere attuali le sonorità degli esordi. Ecco, "Tide of my Heart" è la perfetta congiunzione tra le sonorità dei primi album e i Dark Lunacy attuali.

Ma comunque sia, come scritto precedentemente "The Rain After the Snow" è composto da dieci gioielli, dieci canzoni da ascoltare non solo con le orecchie. I Dark Lunacy sono fra quei pochi gruppi che riescono, con i loro lavori, a parlarti al cuore. Ed è soprattutto con quello che dovete ascoltare quest'ultimo capolavoro della band parmense: lasciare che siano le emozioni a guidarvi attraverso questo viaggio lungo dieci, meravigliose, tappe.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    17 Marzo, 2017
Ultimo aggiornamento: 17 Marzo, 2017
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"Noi siamo gli Obituary. Noi siamo il Death Metal".

E' questo quello che sembrano dire i fratelli Tardy e soci dall'ormai lontano 1988, anno in cui ha preso vita la loro marcissima creatura. Una creatura i cui primi vagiti corrispondono ai nomi di "Slowly We Rot", "Cause of Death" e "The End Complete", ossia tre pietre miliari all'interno della storia del Death Metal, capolavori inarrivabili (anche per gli stessi Obituary, sia chiaro). Ma a parte questo, i signori assoluti del Death Floridiano non hanno mai, durante la loro carriera trentennale con dieci album rilasciati, cambiato di una virgola il loro stile. Sono e resteranno riconoscibili tra migliaia e migliaia di bands grazie al loro sound e soprattutto, diciamocelo, all'inconfondibile voce di John Tardy. Insomma, avrete capito che per me sarà altamente arduo restare imparziale trattandosi di loro. E non faccio nemmeno finta di provarci: E' IL NUOVO DISCO DEGLI OBITUARY, CAZZO!

Ordunque, avevamo lasciato la band americana qualche mese fa con il live album "Ten Thousand Ways to Die", che ci è servito da antipasto per questo decimo disco della loro carriera, intitolato semplicemente "Obituary". E le attese sono state pienamente soddisfatte. "Obituary" suona esattamente come ci si aspetterebbe dal quintetto di Gibsonton, confermando quella formula che, per quanto mi riguarda, risulta sempre vincente. Niente sfuriate esagitate di blast beats, niente iperboli tecnicissime: del puro, semplice Death Metal come lo facevano negli album degli esordi, diretto, senza fronzoli, con atmosfere pesanti e in qualche modo oscure. Da "Brave" alla già citata "Ten Thousand Ways to Die", passando per "Lesson in Vengeance", "It Lives", "Turned to Stone", "End it Now", questo "Obituary" è da ascoltare tutto d'un fiato per tutti i di 33 minuti circa di durata. E poi rimetterlo da capo. E ancora. E così via. Particolarmente azzeccata, tra l'altro, la settima canzone dell'album, "Betrayed", grazie soprattutto ad un riff portante che ti entra praticamente nel cervello.

Poco altro da aggiungere, alla fine. Per i fans degli Obituary e, in senso più largo, del Death, questo è un album da prendere a scatola chiusa e da avere in collezione. Ma vero è che, per me, lo sono tutti gli album dei Tardy & Co. D'altra parte loro sono gli Obituary. E sono il Death Metal.

Nota: se volete farvi delle sane risate, guardate uno di fila all'altro i video di "Violence" e "Ten Thousand Ways to Die". Ne viene fuori un corto animato horror/comico spettacolare

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Opinione inserita da Daniele Ogre    11 Marzo, 2017
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Formatisi nel 2011 e dopo aver rilasciato un primo demo CD, omonimo, nel 2013, i bresciani Crypt of the Whisper trovano una line up stabile quando al fondatore Beppe (batterista, ex-Ulvedharr), si unirà il chitarrista Claudio, anch'egli ex-Ulvedharr. Con loro due, più Fabio alla voce e Luca al basso, la band lombarda pubblica questo secondo demo CD, "Forgotten in Rotting Ground".

Leggo dalle info che, con questo lavoro, i COTW abbiano cambiato la loro proposta rispetto al Death Old School degni inizi (influenzati da Asphyx, Incantation e Morbid Angel). Non posso ovviamente fare il confronto tra i due lavori, ma su una cosa devo concordare su quanto ho letto: i pezzi sono ben strutturati, denotando un songwriting già discreto ed una tecnica niente male. Per quanto, l'influenza degli Incantation resta, a mio avviso, onnipresente. In poco meno di 1/4 d'ora i COTW riescono a presentare un biglietto da visita sufficiente a far drizzare le orecchie. In certi punti, tra l'altro, specie nella conclusiva "Devoured by Ancient Spirit", possono anche ricordare un'altra band lombarda di cui, personalmente, sento ancora la mancanza: i purtroppo sciolti Vomit the Soul.

Sono sinceramente curioso di poterli sentire su una distanza ben più lunga di quella di un EP. Messi nelle giuste mani, i COTW potrebbero anche togliersi un po' di soddisfazioni. E quando dico "messi nelle giuste mani", intendo apertamente la Everlasting Spew Records. Attendiamo... e staremo a vedere.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    11 Marzo, 2017
#1 recensione  -  

Non c'è niente da fare. Per quanto ci siano tantissime nuove leve, nella scena estrema, che dicono la loro benissimo, ora come ora sono ancora le "vecchie volpi" a lasciare puntualmente a bocca aperta. Ne abbiamo avuto diversi esempi recentemente e gli Immolation sono solo l'ultimo in linea temporale. Dopo quasi 30 anni di carriera, a 26 anni di distanza da quel capolavoro assoluto che fu il loro debut "Dawn of Possession", la leggenda del Death Metal newyorkese raggiunge il traguardo del decimo studio album, terzo per Nuclear Blast, con "Atonement". Un disco nel pieno spirito del quartetto di Yonkers: Death Metal della vecchia scuola, con zero spazi per modernità o passaggi ariosi.

I quasi 50 minuti di "Atonement" sono un macigno, una wrecking ball inarrestabile che distrugge qualsiasi cosa gli si pari davanti. E' un disco che trasuda Death in ogni suo passaggio, in ogni nota e nell'atmosfera claustrofobica che il sound degli Immolation riesce a dare. Aiutato da una produzione sontuosa, quest'album risulta essere estremamente lineare dall'inizio alla fine; cosa, questa, che potrebbe esser croce e delizia, dipende da come la si prende: per chi, come me, adora questo genere così com'è non può che essere un punto a favore, ma ci sarà sicuramente qualcuno che, dopo qualche ascolto, potrebbe trovare "Atonement" un album monotono. A ognuno il suo giudizio. Il mio è che pezzi come "Destructive Currents", la spettacolare "Lower", "Fostering the Divide" o "The Power of Gods" non mi stancherebbero mai - e non mi stancano -. Riff taglienti come accette, soli ferali e, soprattutto, rapidi - non sono un fan di assoli troppo lunghi, li trovo tritap.... vabbe', ci siamo capiti -, sezione ritmica incessantemente spaccacollo e il growl cupo e profondo di Ross Dolan: insomma, cos'altro si potrebbe volere di più, se non 50 minuti di massacro sonoro dal primo all'ultimo secondo?

Per fortuna ci sono ancora gruppi che, col passare del tempo, non accettano alcun compromesso e continuano per la loro strada imperterriti. Come, appunto, gli Immolation. Dopo 29 anni la loro leggenda continua, imperitura, con l'ennesimo disco nel loro stile più classico. E per quanto mi riguarda è così che deve essere. Mica come degli angeli morbosi a caso...

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Opinione inserita da Daniele Ogre    08 Marzo, 2017
Ultimo aggiornamento: 09 Marzo, 2017
#1 recensione  -  

Formati nel 2010, i ravennati Hierophant si sono sempre contraddistinti per una certa prolificità. In sette anni di carriera, infatti, la Death Metal band romagnola ha rilasciato ben quattro album - "Hierophant" (2010), "Great Mother: Holy Monster" (2013), "Peste" (2014) e "Mass Grave" (2017) - ed un EP - "Son of the Carcinoma" (2013) -. Se già coi due precedenti album gli Hierophant avevano definitivamente settato il loro sound, soprattutto con "Peste", in cui elementi Sludge andavano ad intrecciarsi alle sfuriate Death e Black, con "Mass Grave" i nostri arrivano a consacrarsi come una delle realtà più interessanti del panorama estremo nazionale.

C'è molto, moltissimo in quest'album, non solo lo Sludge/Death che ci si aspetterebbe, almeno per quelli che conoscono già il quartetto ravennate: è ad esempio tranquillamente riscontrabile un'attitudine prettamente Hardcore, non tanto come sonorità, dove invece si affaccia un'ombra Grind, quanto più nel modo di colpire straight on your face con ogni pezzo, che sia quello più rapido e ferale, come "Forever Crucified", "Execution of Mankind" e "Crematorium", o che sia quello dove l'anima Sludge compare più nettamente, e penso alla spettacolare "In Decay". L'high-light dell'album viene subito dopo però: mi riferisco alla claustrofobica "Sentenced to Death", col suo incedere lento ma comunque pesantissimo, riff rocciosi e una sezione ritmica monolitica, che ai più potrebbero far venire in mente, per certi versi, i Morbid Angel più in forma (o i Portal, ma qui andiamo più per gli intenditori). Grandiosa anche la conclusione con "Eternal Void", altro pezzo pesante quanto un cazzotto alla bocca dello stomaco.

Dicevamo a inizio recensione della prolificità degli Hierophant, ma non è solo questo. Ci sono altre bands che, sotto il profilo delle produzioni, sono anche più prolifiche dei deathsters romagnoli, ma per un disco buono che cacciano, ne escono anche tre di merda. Con gli Hierophant questo non succede: dal 2010 loro non sbagliano un colpo. E per quanto mi riguarda, "Mass Grave" è anche un pelo superiore a quel disco della madonna che era "Peste", fosse anche solo che questo è uno degli album più musicalmente nichilisti che abbia mai ascoltato.

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