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Opinione scritta da Daniele Ogre

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Opinione inserita da Daniele Ogre    05 Dicembre, 2016
Ultimo aggiornamento: 05 Dicembre, 2016
#1 recensione  -  

Come per gli Zora, recensiti qualche giorno fa, lo steso discorso va fatto per gli abruzzesi - e miei ex concittadini, almeno per qualche tempo - No More Fear: anche loro sono una di quelle bands che seguo praticamente da sempre e ne ho potuto seguire, nel corso degli anni, l'evoluzione. Con "Malamente" i NMF proseguono il percorso cominciato con "Mad(e) in Italy", in cui al classico Melodic Death, genere da sempre suonato dai nostri, si sono aggiunti elementi tipici della tradizione italiana, sia in quanto a tematiche che nel comparto strumentale. E tematica preponderante in quest'ultimo disco della band raianese è il tristemente noto crimine organizzato made in Italy - Mafia, 'Ndrangheta... -.

Sono solo sette le canzoni che compongono "Malamente", per una durata complessiva che supera di poco i 27 minuti. Un album che dimostra come l'evoluzione dei NMF ancora continui. Ancor più rispetto al passato gli elementi sonori italici si fanno sentire, che sia musica tradizionale sicula, vedi "The Boss Letter" e "Conferimento della Santa", o generalmente meridionale, come in "Lady 'Ndrangheta", il tutto con su l'ombra della più classica musica western del Maestro Morricone ("Morte e Orazione" e, di nuovo, "Conferimento della Santa"). Senza però mai dimenticare il sound che i nostri hanno dalla nascita; quindi abbiamo quello che è sempre stato un marchio di fabbrica dei NMF: una sezione ritmica granitica, in cui scopro ora l'uscita di Gianluca Orsini, sostituito da Marco Cardone, ed un riffing work sempre ispirato, devoto al Guthenburg Sound. Particolarmente in forma sembra poi il cantante, Gianluca Peluso, autore di una prova che potremmo definire quasi teatrale in questo disco, specie nelle ottime parti spoken.

Col tempo i No More Fear sono riusciti a trovare la loro dimensione. Per loro la definizione Italian Melodic Death Metal assurge ad un nuovo significato, non solo per quel che riguarda la provenienza geografica quindi: italianissimi sono loro, italianissime le loro tematiche ed il loro sound. Una band nel pieno della propria forma capace di sfornare un disco interessantissimo. La cui unica pecca è quella di durare troppo poco.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    05 Dicembre, 2016
Ultimo aggiornamento: 05 Dicembre, 2016
#1 recensione  -  

Nati un annetto circa fa, i napoletani Beerzerker si sono fatti da subito un nome nell'underground della scena partenopea. E non solo perché la band è stata fondata da Corrado "K" Pignalosa (voce) e Marco "Khaff" Mignola (chitarra), le menti del programma radio Headbanger in onda su radiosiani.com, ma anche e soprattutto per il genere proposto. Già, il genere: cosa suonano i Beerzerker? Ecco, qui è un bel casino. Autodefinitisi Alcoholic Metal, i Beerzerker possono puntare su un sound altamente vario: dall'Hard Rock allo Stoner passando per un certo flavour di Thrash tedesco, ognuno sente influenze diverse nel loro sound. Di certo c'è una cosa, ossia che l'attitudine "drunkard" non può che richiamare i leggendari Tankard. E su questo non c'è alcun dubbio.

Venendo all'EP, "Beer, Blood and Blasphemy": composto da cinque canzoni per diciotto minuti scarsi di musica, il debut EP dei Beerzerker supera, a conti fatti, ampiamente la sufficienza. Il sound così vario - voluto o ancora non hanno bene in mente cosa fare? - riesce a dare ampio respiro al cd, che parte in sordina con due pezzi che colpiscono un po' meno rispetto agli altri: la title-track e "From Behind". La sensazione, ascoltando l'EP, è che i Beerzerker abbiano piazzato la tracklist con l'ordine in cui i pezzi sono stati scritti. Difatti le cose vanno migliorando già con "Beerzerker" e raggiungono l'apice con "Slam Drunk", passando per la buonissima "Slapper". Insomma, songwriting che è migliorato man mano col tempo, o per lo meno questa è la mia personale impressione. Un'unica vera pecca la si ha con le voci, non per colpe di Corrado però. La produzione non è propriamente ottimale e spesso la voce di Corrado passa sottotono rispetto alla parte strumentale.

I Beerzerker, come si suol dire, la buttano in caciara. E più che un difetto, come può esser spesso, questo è il vero e proprio intento della band napoletana. Un ascolto a "Beer, Blood and Blasphemy" è da darlo di sicuro, poi ovviamente potrà piacere come no. Per il futuro, sarà da vedere come saranno i nuovo Beerzerker dopo il cambio al microfono, con il growler Francesco "Ultragore" Monte al posto di Corrado. A marzo circa lo si scoprirà, almeno per quanto mi riguarda.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    04 Dicembre, 2016
#1 recensione  -  

Usando un termine cinematografico: buona la prima! Il debut EP dei turchi Carnac, infatti, diventa di diritto tra le migliori scoperte di quest'annata, grazie al sound proposto dalla band di Ankara: un Progressive Death Metal che, grazie anche ad un massiccio uso di riff derivativi della scuola svedese, risulta essere un ottimo mix tra Gojira ed At the Gates.

Con 1/4 d'ora di musica i Carnac riescono a farsi decisamente notare; e non a caso adesso fanno parte del roster della Sliptrick Records, etichetta statunitense che ha tra le proprie fila moltissime realtà della scena italiana, come ad esempio Gory Blister, V-Anger, Scum e Funeral Mantra. Le quattro tracce dell'EP, la cui partenza è affidata alla granitica "Servant to the Void", scorrono via che è un piacere, con quello che è un vero e proprio crescendo. Ogni canzone, infatti, risulta essere più articolata e con un songwriting sempre più ispirato rispetto la precedente. Dunque se già la title-track va a risultare ottima, vi lascio immaginare il resto. Ciò che colpisce dei Carnac è, come dicevo anche poc'anzi, questa perfetta unione tra una tecnica sopraffina, che ricorda appunto i francesi Gojira, al cui servizio viene messo un assalto frontale, ma melodico, che non può che richiamare alla mente la band di "Tompa" Lindberg e soci. E per quanto anche "Hericide" e "Menhirs of Enmity" facciano per bene il loro lavoro, è con la finale "Dabaser" che abbiamo l'highlight di questo purtroppo breve disco.

La mia speranza, a questo punto, è che la band turca, forte del deal con l'etichetta statunitense, sia già all'opera e faccia uscire quanto prima il primo album. Dopo questa buonissima prima prova su disco, sono estremamente curioso di ascoltarli su una più lunga distanza. Per ora, per quanto breve sia la durata di "The Frail Sight", è un dischetto di cui consiglio caldamente l'ascolto.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    29 Novembre, 2016
#1 recensione  -  

Come moltissimi altri gruppi della scena italiana, i calabresi Zora sono una di quelle bands che ho visto praticamente nascere e che ho seguito sia dal primissimo demo - nel caso loro "Dismembered Human Race" del 2004 -. E col tempo il rapporto webzine/band è poi tramutato in una grande stima reciproca che, complice anche l'aver poi condiviso il palco, ancora oggi si protrae. Tutto questo lungo preambolo per farvi capire quanto sia contento del nuovo disco degli Zora, quel "Scream Your Hate" che abbiamo oggi in esame.

Forti di una line-up rinnovata, che vede il fondatore Tat0 occuparsi anche delle voci oltre che del basso ed esser coadiuvato da Glk Molè (Glacial Fear) alle chitarre e Giampiero Serra (Deathcrush ed ex-Necromessiah... ne deduco sia sardo!) alla batteria, e dell'essersi liberati da impegni con qualsivoglia Label, indipendenti e fieri gli Zora rilasciano un album che, stando anche alle tematiche prettamente sociali che i nostri usano, potremo tranquillamente definire rabbioso. Titoli come "Slave of Mind", "Outcast" o "Abracadacab" lasciano in effetti ben poco spazio all'immaginazione, così come quell'Urla il tuo Odio che dà il titolo all'album. Sul piano più prettamente musicale, per una volta potete dimenticarvi il sound ipertecnico che imperversa ormai in ambito Brutal: gli Zora sono per il puro e semplice attacco frontale, con uno stile che facilmente può ricordare i Disgorge (i messicani, soprattutto) ed i primi Gorgasm.

Per l'ennesima volta mi è capitato tra le mani un disco cui i tanti ragazzini che ascoltano Deathcore staranno alla larga. Il lavoro degli Zora è mirato essenzialmente ad un pubblico che ascolta Brutal Death senza il benché minimo compromesso. E, sinceramente, è così anche la mia visione del Death Metal (e sottogeneri vari).

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Opinione inserita da Daniele Ogre    29 Novembre, 2016
#1 recensione  -  

Nati nel 1998 per mano del chitarrista Jörg M. Knittel, i tedeschi My Darkest Hate arrivano con "Anger Temple" alla pubblicazione del quinto studio album. Edito da Massacre Records, quest'opera segue di 10 anni il precedente, ottimo album "Combat Area" e si presenta come una quarantina di minuti circa di puro e "semplice" Death Metal. Nove tracce che sono, citando la biografia allegata al promo arrivatomi, nove inni d'odio e rabbia.

Senza alcun intro i MDH partono in quarta con "You Shall Know Them" e subito ho potuto notare le differenze rispetto ai passati dischi, la maggiore delle quali è data dalla buonissima prova del vocalist Claudio Enzler, che per nulla fa rimpiangere i suoi predecessori. L'ascolto prosegue spedito grazie ad un songwriting particolarmente ispirato della band teutonica, capace di offrirci un album che, alla fine dei conti, non aggiunge o non toglie nulla al genere, ma che semplicemente suona come deve suonare: Death Metal compatto ed incazzato, senza orpelli e fronzoli. Per cui ecco susseguirsi una bordata via l'altra: "My Inner Demons", "Rise and Rise Again", "Me, the Cure", "Division Zero"... ognuno di questi pezzi segue pedissequamente il discorso della canzone che lo precede e non dev'essere per forza un difetto questo. Stesso discorso si può fare per le tre canzoni finali del disco - "Awaken from Slumber", "Master of Lies" e "My Anger, my Temple" - che chiudono con la potenza di uno schiacciasassi un disco che non presenta momenti di stanca o passaggi a vuoto.

Ce ne hanno messo di tempo i My Darkest Hate per ritornare sul mercato, ma per i deathsters più incalliti è un'attesa che non è stata vana. "Anger Temple" è un album ampiamente sopra la sufficienza, suonato egregiamente e con una gran bella produzione. Come mi capita di scrivere spesso quando si tratta di recensire prodotti Death: niente di nuovo sotto il sole, ma in questo genere va benissimo così.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    21 Novembre, 2016
Ultimo aggiornamento: 22 Novembre, 2016
#1 recensione  -  

Non giriamoci attorno: "Hardwired... to Self Destruct" dei Metallica è il disco più atteso di tutto il 2016. E il motivo non può che essere che uno: andiamo, sono i Metallica, ragazzi! Sono anni ed anni che ogni cosa che viene rilasciata dai Four Horsemen viene letteralmente passato sotto la lente d'ingrandimento, a partire dal più che controverso "Load", seguito poi da tutte le uscite seguenti, fino a quella presa per il culo che corrisponde al nome di "St. Anger" e al non ben precisato cosa volessero fare "Death Magnetic".

I 'Tallica hanno dimostrato come YouTube può essere IL canale promozionale perfetto quando fai musica, attraverso un rilascio continuo e programmato di anteprime. E se il primo pezzo rilasciato, "Hardwired", sembrava confortare chi si aspettava un ritorno alle classiche sonorità Thrash di Hetfield e soci, già con i due seguenti, "Moth into Flame" e "Atlas, Rise!" i fan di vecchi(issim)a data hanno iniziato a storcere il naso. Perché se da un lato magari come sonorità sembra che ci siamo, c'è sempre un qualcosa di fondo che "disturba". E ormai non si sa nemmeno più cosa possa essere. Ed è una sensazione che colpisce durante tutto il lungo ascolto di "Hardwired... to Self-Destruct"; abbiamo pezzi che sono veramente degni di nota, come la già citata "Hardwired" o l'ultima traccia del CD2, "Spit Out the Bone", a mio avviso il migliore in assoluto del disco, o "Am I Savage?", pezzi che convincono solo a metà, leggasi "Moth Into Flame", "Atlas, Rise!", "Murder One"... ed infine abbiamo quelli che, ma vi parlo secondo il mio gusto alla fine sia chiaro, sono delle vere e proprie cadute. Canzoni che le ascolti e ti chiedi: "Aspetta, ma questi sarebbero i Metallica? Ma che c@##o è questa m...?". E fanno parte di questo lotto le varie "Now That We're Dead", "Dream No More", "Halo on Fire". Un discorso a parte va fatto per "ManUNkind". La canzone in sé non è nemmeno male, se comunque non si pensa che dai 'Tallica ci si aspetta tutt'altro sound da due decenni ormai, ma il video? Ecco, se si fa un giro sui vari social quasi non si parla d'altro se non di quest'ultimo album dei Metallica e negli ultimi giorni a dividere le opinioni è soprattutto il video di "ManUNkind", con i Metallica che "Giocano a fare i Mayhem! Vergogna!". Ragazzi miei, datevi una calmata su! La verità, alla fine, è questa: il video di "ManUNkind" serve come spot al film di prossima uscita "Lords of Chaos", del regista (ed ex batterista di Bathory) Jonas Åkerlund. Tant'è che Hetfield, Ullrich, Trrujillo e Hammett nemmeno compaiono nel video in questione, essendoci gli attori impegnati nel film di Åkerlund.

Infine un discorso en passant sul terzo CD di "Hardwired... to Self-Destruct", bonus per il mercato giapponese. I primi 4 pezzi sono in studio, con una nuova versione della comunque non male "Lords of Summer" e tre cover: un medley dei Rainbow, "When a Blind Man Cries" dei Deep Purple ed una sufficientemente riuscita "Remember Tomorrow" degli iron Maiden. Per il resto possiamo sentire un ritorno al passato con molti pezzi live, soprattutto dal concerto al Rasputin Music (grande catena di negozi di dischi di San Francisco). Sono ascoltabili quindi pietre miliari come "Fade to Black", "For Whom the Bell Tolls", "Creeping Death", "Hit the Lights", "The Four Horsemen"... Ma sono pure sempre i Metallica attuali, quindi dimenticatevi la furia che li contraddistingueva in passato. Vero è, però, che la connessione col proprio pubblico rimane di livello assoluto.

Considerazioni finali. C'è ben poco da aggiungere a tutto quanto detto finora, quindi tirando le somme: com'è "Hardwired... to Self-Destruct"? E' un gran disco? No, decisamente no. E' un brutto disco, allora? No, nemmeno questo. E' un album che presenta luci ed ombre, con canzoni che sono passabili e momenti tutti da dimenticare. Il mio voto quindi sta nel mezzo, un classicissimo "6 politico". Poi, va da sé, ognuno avrà la propria opinione. Su questo disco se ne stanno sentendo e leggendo di ogni tipo ormai. Di certo, però, c'è che "Hardwired... to Self-Destruct" è decisamente un miglioramento rispetto le ultime uscite. E, per chi segue i Metallica da tutta la vita, è già almeno un qualcosina.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    18 Novembre, 2016
Ultimo aggiornamento: 18 Novembre, 2016
#1 recensione  -  

Interessantissimo l'EP di debutto dei Burning in Deception, Symphonic Death metal band internazionale nata dalla collaborazione del cantante brasiliano Ruan C. Elias ed il chitarrista e produttore italiano Vincenzo Avallone, cui si unirà un paio d'anni dopo la tastierista greca Georgia Damigou, che andrà ad occuparsi degli arrangiamenti orchestrali. Sono della partita anche dei guest: l'italiano Fabrizio Santini (basso in "First Blood") e i greci George Constantine Kratsas e Alexandros Despotidis (solos rispettivamente in "Asylum" e "Unholy Sight").

Ciò che rende ancor più interessante questo debutto, soprattutto ai miei occhi, è che è un concept, anche molto ben strutturato. Protagonista è Edgar, che dopo anni di abusi subiti all'interno di un manicomio prega di morire, preghiere non ascoltate fin quando un'Ombra non appare nella sua cella; dopo oniriche visioni dell'Inferno, Edgar scopre d'aver scritto sui muri, col sangue, degli strani segni, ed alla successiva sessione di esperimenti il nostro protagonista accetta l'aiuto dell'Ombra: dopo un vero e proprio massacro, riesce a scappare dalla struttura; Edgar ha pochi ricordi delle uccisioni compiute, anche perché l'Ombra ha praticamente preso controllo del suo corpo, così che sente anche altre voci nella propria mente; circondanto dalla polizia cerca rifugio in una vicina città, dove, una volta perso di nuovo il proprio controllo, uccide una ragazza, prima di rapire un uomo, la cui fortuna è l'arrivo della polizia che uccide Edgar prima che lui uccida l'uomo. Nella morte Edgar sarà libero e l'Ombra scappa via dalla sua bocca.

Questo è il concept di "Madness Arises", riassunto il più possibile, ma musicalmente? Musicalmente il lavoro dei Burning in Deception è altamente valido. Ognuno dei tre componenti c'ha messo del proprio: Ruan coi testi, Vincenzo le musiche, Georgia gli arrangiamenti orchestrali ed il tutto è perfettamente amalgamato in un sound compatto e mai scontato o noioso. Le orchestrazioni malinconiche e decadenti segnano il lento perdere il controllo del protagonista, il cui contraltare è dato dai taglienti riff di chitarra, segno della furia dell'Ombra; disperazione e furia che si fondono invece nell'incredibile parte vocale di Ruan C. Elias: un continuo scambiarsi tra furiose parti in growl/scream e splendide parti clean.

Un disco da ascoltare tutto d'un fiato che può essere apprezzato conoscendo la storia di cui parla e seguendo passo passo, pezzo dopo pezzo, l'evolversi, ed il cui highlight lo abbiamo con la bellissima "First Blood", una delle più belle canzoni che ho sentito quest'anno tra i gruppi emergenti. Ma è anche vero che i Burning in Deception sono tra le più interessanti novità a livello underground di questo 2016. Se manterranno questa vena compositiva, sentiremo parlare di loro. E molto, anche.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    10 Novembre, 2016
Ultimo aggiornamento: 04 Luglio, 2017
#1 recensione  -  

Nati nel 1991 gli olandesi Cremation hanno, durante i poco più di 10 anni di carriera, rilasciato quattro demo ed uno split EP, prima dell'uscita, nel 2002, di "Retalition", primo ed unico full della band capitana dal cantante/chitarrista Paul Bayaans, quest'ultimo un nome che risulterà familiare in quanto è attualmente il chitarrista di Asphyx, Hail of Bullets e Thanatos. Quattordici anni dopo l'uscita di "Retaliation" ecco che l'album torna di nuovo sugli scaffali grazie alla sempre attenta Vic Records, che ci regala un'altra ristampa proveniente dalla scena Death olandese dei 90's, con l'aggiunta, in questo caso, di un ricco parco di bonus tracks, con canzoni provenienti anche dai demo precedenti.

Tra le bands avute finora in esame, i Cremation sono quelli che più fra tutti si discostano dal classico "Dutch Style", visto che il Death Metal della band è quasi del tutto influenzato dallo stile floridiano. Quindi, a differenza di molte altre bands, qui abbiamo un sound più diretto e brutale, che molto deve, per l'appunto, alle sonorità nate dalle parti di Tampa. Già dalle prime note di "Vanished into Oblivion" s'intuisce come la musica sia diversa rispetto ai dischi che ho avuto già modo di recensire provenienti dall'etichetta olandese: un attacco frontale e ferale, riff e sezione ritmica violenti, il growl cupo e cavernoso di Paul Baayens a completare il tutto. Non ci sono momenti che vanno a ricadere nel Death/Doom di matrice centro-europea, ma i Cremation scelgono, invece, la strada del devasto più totale. Si susseguono così, senza soluzione di continuità, bordate assurde come "Stain of Purity", "Veil of Secrecies", la conclusiva "Deceptive Felicity" o "Sempiternal Hatred". Della stessa pasta, a livello di sonorità, sono anche le bonus tracks, tutti pezzi presi dai precedenti demo della band. Differente è invece la produzione: all'epoca i demo non ricevevano propriamente la stessa attenzione che ricevono ora. Ma comunque sia, anche questa seconda parte del disco presenta qualcosa d'interessante, e mi viene da pensare soprattutto a "Waiting for the Sun", tratta dal primissimo, omonimo demo del 1995.

Una piacevole riscoperta per una band che è andata perdendosi nelle pieghe del tempo. Personalmente ricordavo solo vagamente il nome, ma quasi per nulla quale fosse la loro proposta musicale. I Cremation erano una di quelle bands che avranno di certo colpito i fans del Death Metal più intransigenti, ed è soprattutto a loro che è indirizzata questa ristampa, in modo da rimettersi in contatto o, per chi è più giovane, scoprire un'ottima band che ha avuto anche il pregio, tra le altre cose, di far conoscere quello che è oggi il chitarrista degli Asphyx.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    09 Novembre, 2016
Ultimo aggiornamento: 09 Novembre, 2016
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Mai titolo fu più azzeccato: "Reborn from the Ancient Grave". E rinati da un'antica tomba sono gli olandesi Dead End, band nata sul finire degli anni '80 e che fino ai primi anni dei 90's si era fatta un certo nome nell'underground olandese grazie al proprio Death/Doom e grazie alla pubblicazione di due demo ("Tales" nel 1991 e "Purity" un anno dopo) e all'EP "Wartime in Eden" del 1993. Nonostante l'aver condiviso il palco con grandi nomi della scena olandese, tra cui Gorefest e Pestilence, proprio nel 1993 la band si scioglie. Per riunirsi nel 2014, ed è dell'anno dopo il ritorno su disco, seppur con una compilation opera della Vic Records, stessa etichetta che ha rilasciato questo "Reborn from the Ancient Grave", come back vero e proprio per i Dead End di Alwin Roes, bassista ed unico membro della formazione originaria.

Per quanto solitamente poco sopporti le produzioni sporche, trovandole per lo più dozzinali, non è questo il caso. La produzione non del tutto cristallina riesce a rendere giustizia al Death/Doom Old School dei Dead End. Un sound che piacerà ai fans della prima ora di bands quali Anathema, Paradise Lost, My Dying Bride ed Asphyx. Ma com'è quest'album? Discreto, alla fine dei conti. Abbastanza vario da non renderlo noioso, ma comunque fedele a quella che è la proposta musicale dei Dead End. Si passa ad esempio da pezzi più Death Metal come l'opener (dopo l'intro "Davids Theme") "Dead End (Reborn)", o "Haze of Lies", alla più marcatamente doomeggiante "Mea Culpa", cadenzata, pesante, quasi marziale nel proprio incedere: una song interessante, per quanto il cambio di tempo a metà pezzo non è propriamente ben eseguito. Altro pezzo interessante è "Wither", quello che meglio fonde i due generi che compongono le sonorità dei nostri.

Comunque sia, questo stile.. come lo vogliamo chiamare?, old school, retrò, vintage?, fate voi.. dicevo, che questo stile, quello dei Dead End, probabilmente non piacerà a tutti. "Reborn from the Ancient Grave" è un album soprattutto per chi è un po' più in là con gli anni, dai 30 a salire per lo meno. I molti ragazzini abituati ai suoni pultii e cristallini d'oggigiorno, soprattutto nella sfera "-core", difficilmente riuscirebbero a capire a pieno un lavoro simile. Per cui, in ultima analisi, i Dead End sono consigliati soprattutto a chi la musica dei 90's piace o, ancor meglio, l'ha vissuta.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    04 Novembre, 2016
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Ai più il nome dei Pleurisy dirà ben poco ed è un peccato. La band di Utrecht (o giù di lì) è infatti una delle prime nate in Olanda, seminale quindi per la nascita di quello che è diventato il celeberrimo stile del Death Metal centro europeo. Abbiamo oggi in esame la ristampa, uscita recentemente per Vic Records, di "Experience the Sacrilege", primo (di tre) album per l'act olandese. Spiccano nella line up i nomi degli ex Desultory Johan Wesdijk (voce) ed Alex Seegers (chitarre), cui s'unirono il chitarrista Axel Becker, il bassista Bas van der Bogaard ed il batterista Edwin Nederkoorn.

Pressoché lapalissiano che il Death Metal dei Pleurisy è fondamentalmente Old School, visto che in origine "Experience the Sacrilege" è uscito nel 1998. Composto da 9 tracce per poco più di 3/4 d'ora di durata, l'album in questione è un buon viatico per poter scoprire (o riscoprire) il sound Death di fine anni '90, in una terra dove questo genere andava per la maggiore, un po' come l'Italia oggigiorno. Poco spazio per fronzoli nell'opera dei Pleurisy, band votata all'assalto totale, come si evince già dalle prime note di "Mission Transformed". Un certo flavour Death/Black traspare nei pezzi di "Experience the Sacrilege". In alcuni punti, come ad esempio nell'ottima "Gone from the Sun", mia preferita del lotto, non è nemmeno un'eresia dire che per certi versi i Pleurisy potrebbero ricordare i migliori Dissection. Altra canzone degna di nota è "Ineluki", dove a farla da padrone è un tempo molto più lento ma altresì pesante, in cui alla perfezione si stagliano le screamin' vocals di Johan. La parentesi strumentale di "Divinity in Decay" è un'atmosferica pausa prima delle mazzate finali, con una tripletta di tutto rispetto lanciata in una sfrenata corsa finale: "Witchcraft", "Trail of Destination" e "In Darkness / Mortification of Flesh" chiudono un album che, fosse uscito oggi, non avrebbe sfigurato affatto tra le tante uscite Black/Death dei giorni nostri. Anzi...

Come detto, un buon modo per i vecchi ascoltatori come me di riscoprire una band che a cavallo tra gli anni '90 e i primissimi anni del nuovo millennio ha saputo dire la sua. Per i più giovani, avvezzi però alle sonorità estreme, c'è la possibilità di conoscere una band di cui probabilmente ignoravano l'esistenza. Tra le tante ristampe rilasciate da Vic Records nel mese di settembre, quella dei Pleurisy è forse la migliore. Son passati 8 anni da quando questa band si è sciolta, ed oggi come allora posso solo dire che è un vero peccato

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