Opinione scritta da Daniele Ogre
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#1 recensione -
Sono stato molto combattuto, per quanto riguarda la recensione di "...to the Bone", secondo album per i belgi/americani Macabra. Combattuto perché comunque si tratta di un buon disco Death Metal, musicalmente e nelle intenzioni, ma in un periodo storico come il nostro, dove anche con un Home Recording Studio è possibile tirar fuori un lavoro con una produzione quanto meno decente, dei suoni come quelli che si sentono qui, che siano voluti per essere volutamente underground e 90's - mi si scusi il gioco di parole - o meno, non esiste né in cielo né in terra.
Le intenzioni di Adrien "Liquifier" Weber e Mark Riddick sono da subito, e corre l'anno 2011, quelle di creare dei lavori che sembrino novantiani, tanto nel sound quanto nella produzione volutamente underground, come dicevo poc'anzi. E per quanto possa essere da un lato lodevole questa cosa, dall'altro ci ritroviamo con un album in cui ci si capisce poco o nulla, con volumi spesso - e qui mi scuso nuovamente, ma per il linguaggio - alla cazzo di cane: chitarre e batteria che compaiono e scompaiono, basso che a stento si sente, voce iper-riverberata che spesso sovrasta il tutto... Lo trovo insopportabile nelle produzioni "da cantina" del Black Metal, figurarsi nel mio genere preferito. E mi spiace, perché si può tranquillamente affermare che io sia, per l'appunto, un deathster; ma sarà ormai l'abitudine a tutta la magnificenza che è possibile ascoltare oggi, non sono riuscito a trovare nulla che riuscissi a salvare nei Macabra.
Questo ovviamente è un discorso del tutto soggettivo, sia chiaro. Ci saranno di sicuro ragazzi a cui un sound simile ancora piace e a cui quindi "...to the Bone" potrà anche piacere. Ma spiacente, io non sono tra questi.
Ultimo aggiornamento: 22 Luglio, 2016
#1 recensione -
I russi Bestial Deform sono nati, potremmo tranquillamente dire, un'epoca fa, fondati nel 1990 dall'allora ed attuale cantante/chitarrista Kirill Ulanenkov. In questi 26 anni di carriera hanno rilasciato una gran quantità di dischi tra EP ("Malebranche" del 1993, "We Go to Kill..." del 2005 e Severed to Pieces" del 2014) ed album: "Ad Leones, il disco in esame uscito lo scorso 15 marzo per per Satanath Records è il quinto per i deathsters di San Pietroburgo, dopo il debut "Together We'll Destroy the World" (1994), "Bellum Contra Omnes" (1996), "The Second Coming" (2006) e "Stop the Cristianity!" (2005). Già dai titoli degli album intuirete come i Bestial Deform facciano dell'anticristianità la loro bandiera. Come? Qualcuno azzarda un paragone con i Deicide? Sì, ci sta, anche se solo a livello concettuale.
Quello che ci propongono i Bestial Deform è un Death Metal di stampo floridiano nella più pura accezione del termine. Non c'è nulla d'innovativo, nulla di originale, se questo disco fosse uscito 15 anni fa invece che oggigiorno non ci sarebbe stata nessuna differenza... e c@##o, lo adoro! Per chi come me ascolta prettamente questo tipo di Death Metal, l'ascolto di "Ad Leones" è pura goduria, un quarantina scarsi di minuti di Death Metal senza fronzoli, diretto, sfrontato, tecnicamente nella media, con riff taglienti ed una sezione ritmica monolitica, il tutto con la voce di certo non da soprano leggero di Kirill. Già dall'intro "Ad Patres" si viene gettati all'interno del Colosseo dove i cristiani venivano dati in pasto ai leoni; e questo sarà il canovaccio dell'intero album: "Christianos ad Leones", "Hoc Est", "In Maxillis Bestia", "Symbol of Salvation" lasciano ben poco spazio all'immaginazione. E poi c'è "Severed to Pieces", che a mani basse è il miglior pezzo del disco: un martello pneumatico di nemmeno quattro minuti che provoca un headbanging spezzacollo. Cosa si può desiderare di più?
In conclusione: astenersi fans di Deathcore e robaccia moderna, che qui si suona Death Metal, puro, pesante, violento. Personalmente, non potevo chiedere di meglio e promuovo "Ad Leones" senza la benché minima riserva.
#1 recensione -
Debut album - edito da Bakerteam Records, sub-label della Scarlet - per i veronesi Sinphobia, interessante combo dedito ad un buon Death/Groove Metal, dal taglio sì moderno, ma in cui non mancano riferimenti ad una certa scuola Thrash europea. Nati nel 2003, solo nel 2009 i Sinphobia cominciano con i primi live, maturando un'esperienza che li porterà in primis alla firma con la Bakerteam, poi a calcare palchi anche importanti: proprio domani, al giorno in cui questa recensione sarà online, i nostri suoneranno al Fosch Fest con Fleshgod Apocalypse, Destruction, Sacred Reich, At the Gates ed Anthrax. Ed in quanto vincitori della Metal Battle Italy, ad agosto saranno a Wacken. Non male, no?
Ma veniamo a noi e a questo "Awaken", primo album per i quattro ragazzi veneti. Il problema, per quanto riguarda il Death Metal più moderno, è che è un attimo la differenza tra un buon lavoro e una palla colossale. Stando ai gusti di chi vi scrive, molto spesso la noia sopraggiunge già al secondo, massimo terzo pezzo. Ecco, con i Sinphobia questo non accade. "Awaken" è un disco compatto, magari non particolarmente originale, ma questa è ormai una cosa che non deve preoccupare, ma suonato comunque decisamente bene, con anche buonissimi picchi e spunti interessanti, come la massacrante "Respect", in cui non si può non notare il lavoro al basso di Darkoniglio: un suono da classico basso-che-ti-prende-a-sleppe-in-faccia. Colpisce anche la seguente "Face your Mirror", così come "Prayer to Warcry", che ha l'ingrato compito di essere l'opening del disco (dopo l'intro "Fearless Horde"), quindi fondamentalmente quello che è, in ogni disco, il pezzo più importante. Il merito dei Sinphobia è quello di riuscire a coniugare bene le due anime del proprio sound. Basta ascoltare la già citata "Face Your Mirror" e come i nostri riescano a passare con naturalezza da un buon Death Metal a momenti prettamente Groove.
Dalle info che accompagnano "Awaken" leggo che il messaggio dei Sinphobia è che la paura, in tutte le sue forme, è la maggior limitazione dell'essere umano; e da qui il loro "motto": assalta le tue paure. Ed è ciò che i Sinphobia fanno con questo loro debut album: assaltano, senza paura. Con una produzione magari più corposa in termini di suoni, magari ci sarebbe stato un mezzo punto in più nel voto finale, ma ciò non toglie che questo disco d'esordio passa decisamente l'esame
#1 recensione -
La sorte mi è stata benevola se due recensioni su due che mi son toccate vanno a riguardare un genere che adoro come il Death/Doom. Ma con i norvegesi Among Gods ed il loro "Ghost Empire", uscito meno di una decina di giorni fa per Argonauta Records, andiamo ad ascoltare un altro modo di intendere il genere. Gli Among Gods infatti, a differenza dei già recensiti The Pete Flesh Deathtrip, hanno un modo più classico d'intendere il Death/Doom, riuscendo a dare anche una certa varietà al loro sound, cosa che, diciamocelo, non è proprio semplicissimo in questo genere.
Questo perché con gli Among Gods i classici suoni pesanti e lenti vengono intervallati da buone parti più marcatamente Death Metal, di stampo scandinavo/centreuropeo s'intende (tant'è che tra le influenze sono menzionati anche Entombed e Asphyx). Questo fa sì che l'ascoltatore rimanga sempre attento per cogliere le varie sfumature di un disco che non ha alcun punto debole. Pezzi come la lunga, ma ben variegata, "Pandemonium" o la seguente "Wolves" sono le punte di diamante di un 8-tracks (6 + intro e outro) mai noioso. Il songwriting, diciamolo, è stato particolarmente ispirato per tutte le canzoni che compongo l'album ed è qualcosa che, se andiamo a vedere, si può denotare soprattutto sui due pezzi dalla durata più lunga, la già citata "Pandemonium" e "Tundra": dove sarebbe stato facile provocare una vera e propria rottura di scatole, i nostri hanno saputo, giocando con le varie influenze del loro sound, dare un'impronta decisa anche a due pezzi più "a rischio".
Insomma, facendo una somma finale, "Ghost Empire" è un album promosso senza riserve. E anzi vi dirò che mi spiace di aver conosciuto gli Among Gods solo grazie a questa recensione, seppur siano nati nel 2010. I non pochi fans di gruppi come Entombed, Asphyx, Paradise Lost avranno con questo pane per i loro denti.
#1 recensione -
Per chi segue la scena Death Metal svedese il nome di Pete Flesh, al secolo Peter Karlsson, non sarà di certo nuovo. L'unico membro di questo progetto, a nome The Pete Flesh Deathtrip (d'ora in avanti TPFD per comodità), è stato infatti chitarrista, tra gli altri, dei Maze of Torment. E' dal 2009 che mr. Karlsson ha tirato su questo suo solo project dal sound che varia tra l'Old School Death ed il Death/Doom, genere che vede proprio in Svezia il proprio apice (basti pensare ad esempio agli October Tide, massima espressione del Death/Doom per chi vi scrive). Nel 2013 esce il primo lavoro di TPFD, "Mortui Vivos Docent", rilasciato da Pulverised Records per poi essere ristampato in vinile da Critical Mass Recordings, attuale label dell'artista svedese. E' difatti Critical Mass Recordings a produrre "Svartnad", l'album che andiamo qui a recensire. Per dovere di cronaca va detto che TPFD è il secondo nome di questo progetto, nato nel 2004 come Flesh, con cui Pete Flesh ha rilasciato ben tre dischi: "Dödsångest" nel 2005, "Temple of Whores" nel 2006 e "Worship the Soul of Disgust" nel 2008.
Il sound proposto da TPFD è un Blackened Death/Doom dalle forti tinte Old School. Dimentichiamoci quasi del tutto le atmosfere malinconiche che siamo abituati a sentire in questo genere quindi, per lasciarci invece trasportare da un mix di ferali accelerazioni e sapienti rallentamenti, su cui si staglia la 'marcissima' voce di Pete Flesh. Le otto tracce che compongono "Svartnad" sono tutte, nessuna esclusa, di pregevole fattura. Un songwriting particolarmente ispirato è infatti il punto di forza di un disco che ha l'effettivo pregio di non risultare mai noioso per l'intero arco della sua durata. Le 'anime' che compongono questo progetto sono ascoltabili soprattutto nella sesta traccia, "The Winter of the Wolves", in cui si passa da taglienti riff Black Metal a parti più lente ma nondimeno pesanti, ricordando per certi versi taluni lavori dei Mayhem. Nient'affatto male, poi, anche "The Sun Will Fail" e il pezzo a cui è dato il compito di chiudere degnamente questo disco, la title-track, "Svartnad", pezzo dal flavour Black Metal norvegese che ha però l'highlight nell'incedere marziale della batteria, per poi 'aprirsi' verso la metà.
Come detto in apertura di recensione, siamo lontani da quelli che ormai sono considerati i canoni del Death/Doom. Ma anche se non ci sono le atmosfere plumbee dei già citati October Tide, tanto per fare di nuovo un nome a caso, ciò nonostante, dicevo, "Svartnad" è senz'altro un gran bel disco, che potrà sicuramente piacere sia agli amanti del genere che dell'Old School Death. E da un artista poliedrico come Pete Flesh non ci poteva aspettare niente di diverso.
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