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Opinione inserita da Virgilio    12 Giugno, 2022
Ultimo aggiornamento: 12 Giugno, 2022
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I Visions Of Atlantis, come si ricorderà, avevano iniziato un nuovo corso della loro storia con una line-up in buona parte rinnovata a partire dall'album "The Deep & The Dark" del 2018, per poi giungere con il successivo "Wanderers" alla formazione attuale, in seguito all'ingresso in formazione di Michele Guaitoli. Dopo il bel live "A Symphonic Journey To Remember", arriva adesso l'ottavo studio album, per il quale la band si ripropone in versione corsara, con un disco tematico tutto dedicato ai pirati. Il lavoro prosegue sulla scia appunto di "Wanderers", proponendo un Metal dai tratti sinfonici, dove i brani sono costruiti attorno al duo vocale composto da Michele e dalla cantante storica Clémentine Delauney. L'unione tra le loro vocalità è ancora più in sintonia e ben calibrata, alla ricerca di suoni eleganti e diretti, moderni ma anche un po' teatrali, talvolta con qualche incursione da parte della Delauney nel cantato lirico. La tracklist cerca peraltro di essere anche alquanto varia, per cui possiamo notare la presenza di tracce Power Metal ("Pirates Will Return", "Mercy"), altre ricche di cori e orchestrazioni ("Master The Hurricane", "Legions Of The Seas", "In My World"), canzoni di puro Metal melodico ("Melancholy Angel") e autentiche ballate ("Freedom" e "Heal The Scars", quest'ultima interamente interpretata da Clémentine), ma anche qualche traccia un po' più Dark come "Darkness Inside" (che un po' ci ha fatto pensare a qualcosa della Dark Wave ottantiana). Da evidenziare, inoltre, la presenza di una certa vena Folk, enfatizzata, in vari brani, dai flauti e dalle cornamuse, curati da Ben Metzner dei Feuerschwanz. Certo, in fin dei conti, non si può dire che i Visions Of Atlantis propongano nulla di particolarmente innovativo e sono forti le influenze di tante band, tra cui potremmo citare, ad esempio, Nightwish, Within Temptation o Kamelot. I punti di forza di "Pirates", tuttavia, oltre al grande feeling tra le voci dei due cantanti a cui abbiamo in precedenza accennato, sono rappresentati da un'ottima cura per cori e orchestrazioni e da uno squisito gusto per le melodie, tale da rendere ogni canzone subito trascinante e diretta sin dai primissimi ascolti. L'ottimo lavoro di produzione, peraltro, è stato completato dal mixaggio e dal mastering a cura di Jacob Hansen, assoluta garanzia di qualità. Buon disco, dunque, che conferma come il rinnovato affiatamento e la passione dimostrati da questa line-up, stiano effettivamente ripagando con dei risultati davvero apprezzabili.

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Opinione inserita da Virgilio    10 Mag, 2022
Ultimo aggiornamento: 10 Mag, 2022
Top 10 opinionisti  -  

Sono trascorsi ben cinque anni dalla pubblicazione di "Der Rote Reiter", ultimo full-length (se si esclude la parentesi di un disco di jam session come "The Divine Horseman") e anche uno dei lavori di maggior successo dei Die Apokalyptischen Reiter (addirittura entrato nella Top 10 dei dischi più venduti in patria). Il nuovo album, intitolato "Wilde Kinder", ci presenta come di consueto una band con il suo trademark in grado di cavalcare ed inglobare diversi stili. Il cantato (talvolta in chiaro, talvolta in extreme) di Fuchs è sempre particolare, con la sua voce roca e gutturale e le sue interpretazioni ai limiti del teatrale, ben assistito dalle chitarre taglienti di Ady; si riscontra, inoltre, anche una presenza un po' più importante di programming ed effetti sonori: peraltro, a tal riguardo, si nota come il tastierista Dr. Pest, pur collaborando in alcuni brani, non sia più un membro ufficiale della line-up. Le canzoni sono aggressive, ma sappiamo che la band tedesca non disdegna le melodie e così non mancano refrain alquanto accattivanti come nel caso di "Alles Ist gut" o "Nur Frohen Mutes"; "Leinen Los", poi, è praticamente una ballata, ma anche "Blau" è un pezzo più leggero, per quanto comunque alquanto vivace e con begli inserti di violino. Particolare "Euer Gott Ist der Tod", con le sue atmosfere gotiche, accentuate da organi da chiesa, venature black e voci femminili. In generale, Die Apokalyptischen Reiter sono comunque bravi a mescolare vari generi metal creando un mix efficace, inserendo, tra potenza e melodie, passaggi che esaltano un certo mood atmosferico, così come ritmi veloci di grande intensità o parti delicate seguite da altre aggressive e irruente: insomma, ogni traccia è una piccola storia a sé, che la band riesce a far illuminare di luce propria, grazie alla propria versatilità e all'intensità delle proprie performance. Va detto che dopo cinque anni ci saremmo forse aspettati pure qualcosa di più particolare, ma tutto sommato va bene così, perché "Wilde Kinder" è un buon disco, nel quale la band ha saputo imprimere tutte le caratteristiche del suo stile e il proprio marchio di fabbrica.

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Opinione inserita da Virgilio    03 Mag, 2022
Ultimo aggiornamento: 03 Mag, 2022
Top 10 opinionisti  -  

"Parallel Minds" è il titolo di uno storico album dei Conception, ma è anche il moniker scelto da questa band francese che con "Echoes from Afar" giunge al suo terzo full-length. Ascoltando il disco, sicuramente possiamo notare come siano forti le influenze di act come Dream Theater, Symphony X e Pain of Salvation, ma, come di consueto, il gruppo transalpino ha riempito il lavoro di tanti spunti e tante idee, che si concretizzano in una serie di brani alquanto complessi e molto articolati. Nella tracklist troviamo così, ad esempio, alcune tracce con venature Djent/Metalcore ("No Fate" e "Monkey on My Back"), altre che si avvicinano più al Power ("Angel's Battle", "Our Last Resort"), un paio di ballate che si sviluppano in crescendo ("Stay", "The Hiding Place"), ma soprattutto spiccano due bellissime suite di classico Prog Metal, "Feel the Force" e "The Greater Gift", ricche di orchestrazioni e con continui cambi tematici. In particolare quest'ultima, nella quale sono presenti anche suggestive voci femminili, rappresenta davvero la summa di tutti gli elementi che compongono il complesso stile dei Parallel Minds. L'album dovrebbe essere stato pensato, se non andiamo errati, come una sorta di concept fantascientifico, anche perché ci sono alcuni temi che ogni tanto ricorrono tra un brano e l'altro: la band ha saputo comunque creare delle tracce di elevato spessore, non solo dal punto di vista tecnico ed esecutivo, ma anche per la capacità di trasmettere emozioni, in un continuo alternarsi di aggressività, potenza e passaggi più delicati e introspettivi, per non parlare dei suggestivi assoli di Grégory Giraudo. Peraltro, spesso i brani vengono arricchiti da uno spettro timbrico assai vario, con inserti di archi, arpe (alla fine di "Feel the Force") o fisarmoniche ("Monkey on My Back") e una certa versatilità anche a livello vocale. Un disco dunque notevole, che conferma senz'altro le ottime qualità di questa band da seguire con sincero interesse.

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Opinione inserita da Virgilio    21 Aprile, 2022
Ultimo aggiornamento: 21 Aprile, 2022
Top 10 opinionisti  -  

La pubblicazione dell'album "Road to Perdition" (anticipato dall'EP "Rise Again", comprendente circa metà della tracklist) rappresenta di fatto l'inizio di una seconda vita per i Keops, formazione croata, che aveva pubblicato un paio di album tra il 2012 e il 2015. Questo loro ritorno ci presenta una line up fortemente rinnovata, dato che di quel periodo resta il solo chitarrista Bruno Mičetić e soprattutto c'è il passaggio anche linguistico dal croato all'inglese. Inevitabili sono anche significative differenze a livello stilistico, perché il gruppo oggi propone un sound che sta a metà tra un Heavy classico (Iron Maiden, Savatage) e un approccio che di tanto in tanto apre a sonorità più Alternative/Groove Metal, influenzato da act come Alter Bridge, Bullet For My Valentine, System of a Down, ecc. Questa formula potrebbe anche funzionare, anche se va pure ammesso che queste contaminazioni, a conti fatti, rischiano di scontentare un po' tutti, facendo storcere la bocca a chi preferisce un genere all'altro. I brani sono comunque alquanto veloci e dinamici, ma la band si cimenta in qualche frangente anche in intro o intermezzi più atmosferici con chitarre acustiche arpeggiate. Notevole la prestazione del cantante Zvonimir Špacapan, dotato di un range che copre più di tre ottave, con una voce alquanto versatile, davvero efficace e convincente nelle sue performance. Tra gli highlight del disco segnaliamo senz'altro le prime tracce, in particolare "Keops" (traccia il cui titolo è evidentemente ispirato al moniker del gruppo), che presenta anche belle sfumature Progressive e sonorità mediorientali, l'aggressiva "Unconscious Mind" e la magniloquente title-track, ma anche la conclusiva "Cause of You". Buon disco per quanto, per le potenzialità dimostrate dalla band, in generale, poteva pure essere lecito aspettarsi qualcosa in più.

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Opinione inserita da Virgilio    28 Marzo, 2022
Ultimo aggiornamento: 28 Marzo, 2022
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I Sabaton hanno avuto sempre una sincera passione per la storia e per racconti legati in qualche modo ad episodi bellici. Dopo aver dedicato un intero album alla Prima Guerra Mondiale con "The Great War" del 2019, forse un po' a sorpresa insistono sull'argomento con questo nuovo concept, intitolato "The War To End All Wars". La tracklist prende avvio da una sorta di intro, "Sarajevo", nella quale si fa riferimento all'assassinio dell'Arciduca Francesco Ferdinando e si conclude con un outro, "Versailles", dedicato all'armistizio che pose fine alla Grande Guerra. In mezzo, stanno una serie di brani dedicati a storie collegate alla Prima Guerra Mondiale, tra atti di eroismo, momenti atroci, episodi curiosi o persino momenti toccanti, come narrato in "Christmas Truce", quando delle truppe anglo-francesi e tedesche schierate in prima linea decisero di mettere da parte gli orrori della guerra almeno per il giorno di Natale, scambiandosi gesti di amicizia, facendo vincere la loro umanità. Certo, la pubblicazione dell'album proprio nel periodo dello scoppio della guerra in Ucraina non è stato magari proprio il massimo in quanto a tempismo, ma certamente la band aveva realizzato il disco ben prima e, del resto, come dicevamo, sono tematiche che i Sabaton hanno sempre amato trattare. Dal punto di vista musicale, la maggior parte delle tracce ruota attorno alle storie trattate, con tempi non particolarmente veloci, riff decisi, tanti cori epici e refrain molto catchy e orecchiabili. Tra i brani si mettono in evidenza sicuramente "Dreadnought", "Soldier Of Heaven" e "The Unkillable Soldiers" (peraltro una delle tracce più veloci), ma anche la già menzionata "Christmas Truce" con i suoi inserti di piano e le orchestrazioni riesce a creare delle atmosfere particolari. Diciamo che la band svedese in tale occasione ha preferito andare sul sicuro, puntando su schemi già ampiamente collaudati: "The War To End All Wars" è un disco dunque senza grosse sorprese, ma tutto sommato in perfetto Sabaton-style, ben curato in ogni dettaglio e con diverse belle canzoni.

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Opinione inserita da Virgilio    25 Marzo, 2022
Ultimo aggiornamento: 25 Marzo, 2022
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Secondo album per i greci Achelous, già ampiamente preannunciato, dato che sarebbe dovuto uscire l'anno scorso, ma la pubblicazione era stata rinviata a causa del Covid-19: una scelta dettata principalmente dal fatto che, non potendo suonare dal vivo, la band non avrebbe potuto supportarlo adeguatamente. L'anno scorso era intanto uscito un EP, nel quale veniva anticipato il brano "Northern Winds", inserito in apertura alla tracklist di questo full-length intitolato "The Icewind Chronicles", un concept album dedicato alla "Trilogia delle Terre Perdute" di R.A. Salvatore. Gli Achelous propongono un Heavy roccioso dalle venature Epic, costruito su solidi riff e sul cantato deciso del vocalist Chris Kappas, però le canzoni sono arricchite anche da intermezzi atmosferici, con inserti di chitarre arpeggiate e di piano: un ottimo esempio, in tal senso, è rappresentato da "Outcast", un brano che si sviluppa nell'arco di ben sette minuti e mezzo, per quanto di solito la band prediliga perlopiù canzoni compatte e dal minutaggio più breve; in un paio di tracce ("Mithril Hall" e l'appena menzionata "Outcast"), peraltro, ritroviamo anche voci femminili, che s'inseriscono molto bene nel contesto dei brani. Si riscontra anche qualche vena Folk, come nel caso di "Savage King" e "Mithrill Hall", oppure accostabile al Power (ad esempio in "Halfling's Gem"), tutto a conferma ulteriore, comunque, di come la band ellenica cerchi di ricreare uno stile preciso, arricchendolo però allo stesso tempo di varie sfumature. A conti fatti, "The Icewind Chronicles" non è magari un disco imprescindibile né che brilla per originalità, però gli va riconosciuto un buon songwriting e può rappresentare un buon ascolto per chi apprezza un metal genuino, che trasuda autentica passione.

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Opinione inserita da Virgilio    11 Marzo, 2022
Ultimo aggiornamento: 11 Marzo, 2022
Top 10 opinionisti  -  

I Crystal Throne sono un gruppo francese formatosi nel 2019 per iniziativa del chitarrista Max Waynn e del cantante Terry DeFire, che debuttano con questo loro primo album omonimo e autoprodotto. Lo stile della band è ampiamente influenzato dal metal ottantiano di act come Queensryche, Judas Priest e Iron Maiden, con qualche venatura progressive e un evidente tocco neoclassico, specialmente a livello chitarristico. Proprio l'axe man Max Waynn è tra i protagonisti del sound della band transalpina, dato che inserisce nei brani valanghe di riff, scanditi da una lead guitar dirompente e che si lancia spesso e volentieri in fluenti e prolungati assoli. A supporto, la ritmica veloce e tecnica del batterista Alex Gricar e del bassista Jefferson Brand, ma non è da meno il cantante Terry DeFire, con la sua voce molto alta e pronta a lanciarsi ad ogni occasione in acuti quasi irraggiungibili. Le tracce non sono niente male e riescono ad essere trascinanti e travolgenti sin dai primissimi ascolti: la tracklist peraltro comprende brani molto diretti e con un approccio melodico come "Rise To Glory" o anche più elaborati come "Foreshadowed Sands" e la conclusiva "Crystal Warrior", che si sviluppa nell'arco di quasi otto minuti e mezzo. L'unico neo che ci sentiamo di segnalare è dovuto al fatto che in un paio di tracce (ad esempio "Shades of Existence") si riscontrano dissonanze non proprio azzeccate tra la voce e la parte musicale, che potevano essere sicuramente meglio gestite. Ad ogni modo, l'album rappresenta in generale un buon debutto per questo gruppo che propone musica certamente di stampo molto classico, suonando allo stesso tempo però un metal che appare fresco e carico di energia, per cui sarebbe un peccato farlo passare inosservato.

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Opinione inserita da Virgilio    05 Marzo, 2022
Ultimo aggiornamento: 07 Marzo, 2022
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Quarto album di Slash solista, anche se quella con Myles Kennedy (Alter Bridge) e compagni assomiglia sempre di più ad una vera e propria band. La scelta particolare in questo caso è stata quella di registrare tutto in presa diretta, in modo da ottenere un sound quanto più possibile carico di groove e di grinta. Probabilmente, anche a seguito di questa scelta, le canzoni sono perlopiù molto dirette e alquanto radiofoniche: parliamo di brani orecchiabili, che si lasciano ascoltare gradevolmente ma certamente nulla di imprescindibile o destinato a fare la storia del Rock. "The River Is Rising" è il singolo apripista (che un po' ci ricorda i Soundgarden), poi la tracklist fila liscia senza neppure troppa fantasia (a tal riguardo sorvoliamo sulla scialba copertina): su "Spirit Love", Slash comunque si cimenta con il sitar (e questa ci sembra essere un'altra delle poche, autentiche, novità), mentre su "C'est la vie" ritroviamo l'utilizzo del talk box; l'arpeggio di "Fill My World", invece, addirittura appare come una variante di quello celebre di "Sweet Child O' Mine", benché di fatto sia una sorta di ballata. Qualche traccia accoglie sonorità un po' Southern Rock (ad esempio in "Actions Speak Louder Than Words" e nella veloce "Call Off The Dogs"); nella conclusiva "Fall Back To Earth", invece, c'è un approccio leggermente diverso rispetto al resto del disco, con la chitarra di Slash che esegue un tema portante (che ricorda un po' qualcosa tipo colonna sonora) che sovrasta quasi la voce. A livello interpretativo, comunque, la prova della band è impeccabile: Kennedy conferma di essere un cantante in stato di grazia, il supporto di Todd Kerns (basso), Brent Fitz (batteria) e Frank Sidoris (chitarre aggiuntive) è perfetto, mentre Slash è come sempre straordinario con lead guitar e dirompenti assoli. Disco onesto, per quanto ci saremmo aspettati almeno un paio di brani più incisivi.

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Opinione inserita da Virgilio    06 Febbraio, 2022
Ultimo aggiornamento: 06 Febbraio, 2022
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Gli Amoth giungono con "The Hour of the Wolf" al loro terzo full-length, a distanza di sei anni dal precedente "Revenge". La band finlandese, che si avvale della collaborazione di Pekka Montin degli Ensiferum per voce e tastiere, suona uno stile saldamente ancorato al Metal anni '80, con un focus particolare per la chitarra di Tomi Ihanamaki, principale compositore del gruppo. Nella tracklist ritroviamo alcuni pezzi di Heavy classico, come l'iniziale "Alice" (che, in base a quanto scrive la band, s'intitola così perché presentata in sogno al suo autore direttamente da Alice Cooper), accanto ad altri decisamente più votati al Thrash, come "Wounded Faith" e "It Ain't Over Yet" (canzone contro il bullismo); "The Man Who Watches the World Burn" è invece una canzone dedicata al personaggio del Joker (acerrimo nemico di Batman), arrangiata su tonalità ribassate; particolare "We Own the Night", dove c'è una sorta di contrasto tra la voce, che canta in modo calmo ed evocativo e la musica, invece indiavolata e molto veloce; c'è anche una ballata, "Traces in the Snow", mentre "Wind Serenade" è una strumentale suddivisa in due parti, nella quale Ihanamaki dà sfogo al suo chitarrismo. In realtà, anche la title-track, per quanto abbia una struttura un po' più complessa, lascia ampio spazio agli assoli del chitarrista. A dirla tutta, in effetti, quest'ultimo sembra un po' peccare di protagonismo, perché spesso queste sue prove di virtuosismo appaiono del tutto fini a se stesse e per nulla funzionali ad un disco che, tutto sommato, sembrava essere partito bene con i primi 2-3 brani. Alla fine, togliendo questo chitarrismo al limite della masturbazione strumentale, ci sono delle buone canzoni, ma gli Amoth sembrano rifarsi a schemi tipicamente ottantiani in maniera puramente casuale, senza che si riesca ad individuare un loro stile autentico e personale. C'è il tentativo di realizzare qualche canzone in maniera più complessa, ma in questi casi i risultati non entusiasmano. Un album decisamente nella media, però, viste le potenzialità, si poteva probabilmente fare meglio.

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Opinione inserita da Virgilio    06 Febbraio, 2022
Ultimo aggiornamento: 06 Febbraio, 2022
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I Rage Of Light sono una band formatasi nel 2015 dal tastierista/cantante svizzero Jonathan Pellet, con l'intento di mescolare musica Trance con il Metal. Dopo un primo EP del 2016 e un full-length del 2019 ("Imploder"), viene scelta come nuova cantante la vocalist polacca Martyna Halas, con cui viene registrato questo secondo album, intitolato "Redemption". Sulla base di quanto premesso, com'è facile immaginare, nella musica dei Rage Of Light ritroviamo tantissime sonorità elettroniche, che s'inseriscono su una base Metal, di stampo Melodic Death: il tutto crea un certo contrasto tra parti aggressive e altre più delicate, che viene accentuato nel cantato, mettendo insieme il growl di Pellet e la voce più soave della Halas. I pezzi sono in linea di massima molto diretti, anche se la band si cimenta pure su tracce più articolate, come l'opener "Iciness" che supera gli otto minuti di durata, nella quale si assiste anche a cambi tematici e ad un intermezzo con diversi assoli. Nella conclusiva "Beyond", invece, ad esempio, si possono apprezzare delle belle orchestrazioni. In effetti non si può dire che il songwriting dei Rage of Light sia scontato o prevedibile: al contrario, la band presenta soluzioni interessanti e riesce anche a trasmettere emozioni, in quel contrasto di rabbia e luce al quale allude il proprio moniker. Naturalmente, non a tutti piacerà un tipo di Metal pieno di contaminazioni elettroniche: questo trio elvetico però ha ottenuto buoni risultati perseguendo il proprio obiettivo e questo va loro senz'altro riconosciuto.

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