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Opinione scritta da Ninni Cangiano

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    01 Novembre, 2024
Top 10 opinionisti  -  

Tornano a farsi sentire i texani Ignitor, con il loro ottavo studio album, intitolato “Horns and hammers”; il disco è composto da 11 tracce per circa 48 minuti di durata totale. Anche in questo full-length sostanzialmente non è cambiato nulla rispetto al passato, dato che la band propone sempre lo stesso heavy metal old-style che avevamo avuto modo di ascoltare nei precedenti lavori. Evidentemente gli americani non hanno la benché minima voglia di rinnovarsi o di modificare il loro stile vintage, fregandosene abbondantemente delle mode e del tempo che passa; loro suonano solo la musica che amano, con buona pace dei maniaci dell’originalità o dell’innovazione. Come fatto notare nella recensione del precedente “The golden age of black magick” non convince più di tanto nemmeno il cantante Jason McMaster; sia chiaro, c’è molto di peggio in giro (anche di meglio obiettivamente), ma questa volta ha contribuito a non convincere anche il suo approccio sempre uguale, quasi monocorde, mentre forse un po’ più di versatilità ed espressività non avrebbero guastato; il vocalist, infatti, sostanzialmente dall’inizio alla fine si limita ad utilizzare le note più acute ed isteriche, mentre sono rari i passaggi più “meditati” (come, ad esempio, in “Imperial bloodlines”) che mostrano capacità che altrimenti non si riuscirebbe nemmeno ad immaginare. Sono protagoniste del sound le due chitarre di Stuart “Batlord” Laurence e Robert Williams con i consueti muri di riff ed assoli, ben sorretti dal basso di Billy “Chainsaw” Dansfiell, mentre da Pat Doyle alla batteria mi sarei atteso di più, più brillantezza, ritmo ed energia (come fa invece, ad esempio, in “Cyber crush”). Oltretutto il rullante è anche registrato in maniera non eccelsa, risultando un po’ troppo secco all’ascolto, il che non aiuta certamente il risultato finale. Ho ascoltato più e più volte l’album, ma ogni volta terminavo con l’amaro in bocca, forse anche a causa della mancanza di una hit che valga da sola l’acquisto del cd; fatto sta che non sono riuscito a lasciarmi conquistare dalla musica e da nessuno degli 11 brani (nemmeno dalla cover dei mitici Saxon, presente solo sulla versione edita dalla nostrana Metal on Metal Records) che si lasciano ascoltare senza particolare difficoltà, ma non convincono più di tanto e non sono riusciti a far breccia nel cuore di un vecchio metalhead come questo umile recensore. Se avete avuto modo di apprezzare gli Ignitor nei loro precedenti dischi, allora anche questo “Horns and hammers” potrà piacervi, dato che sostanzialmente non aggiunge né toglie nulla rispetto al passato; se, invece, ascoltate questa musica da circa 35/40 anni e vi aspettavate di meglio dal gruppo texano, allora questo disco non strapperà consensi particolari.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    29 Ottobre, 2024
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Gli Speedrush si sono formati ad Atene in Grecia nell’ormai lontano 2005, ma sono arrivati al debut album solo nel 2016 ed hanno rilasciato il loro secondo disco solamente ad inizio ottobre di quest’anno, grazie alla svedese Jawbreaker Records, in edizione limitata a 300 copie. Il full-length si intitola “Division mortality”, ha un artwork che non fa impazzire ed è composto da 9 tracce per la durata totale di circa 41 minuti. Il sound è un classicissimo thrash/speed metal, con ritmi velocissimi imposti dalla batteria dell’ottimo Andreas Disco Destroyer (non è noto il vero nome) con le due chitarre di Nick Ratman (alias Nick Demiris) e Tasos P. (all’anagrafe Tassos Papadopoulos) che intessono muri di riff affilatissimi come rasoi ed assoli al fulmicotone; si sente bene anche il basso di Spiros S. (all’anagrafe Spiros Spiliotakos) che ricama in sottofondo come si deve. C’è poi lo screamer Nir Beer (soprannome di Nir Palikaras) che urla la sua rabbia senza soluzione di continuità, ma sa essere anche versatile, tirando fuori ogni tanto anche un approccio meno incazzato. Tutta la band pesta per bene, anche se raramente fa sentire di saper anche comporre linee melodiche che non dispiacciono per niente. Le canzoni si assomigliano un po’ tutte tra loro (fatta eccezione per la conclusiva outro strumentale ed acustica “Fate to flames”), ma i vari ascolti dati a questo album sono sempre stati sicuramente piacevoli e capaci di infondere energia e voglia di sbattere il capoccione su e giù in furiosi headbanging. Se non ci addentriamo in inutili discorsi su originalità ed innovazione (argomenti di cui gli Speedrush credo se ne freghino ampiamente), ma ci limitiamo a parlare di intrattenimento e gusto nell’ascolto, energia e passione, è indubbio che questo “Division mortality” degli Speedrush faccia centro e strappi un risultato più che lusinghiero.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    28 Ottobre, 2024
Ultimo aggiornamento: 28 Ottobre, 2024
Top 10 opinionisti  -  

Per celebrare i 20 anni del meraviglioso “Tales of wonder”, i Mesmerize hanno fatto un concerto il 16.07.2018 nei pressi di Milano; a 6 anni di distanza, rilasciano quel live album intitolato “20 years of wonder… live!”, con l’aggiunta di una bonus track che è un remix realizzato quest’anno della mitica “Children of reality”. Il concerto si apre, dopo l’intro, con l’unica traccia non facente parte del primo album della band lombarda, quella “It happened tomorrow” che apriva il loro ultimo full-length, “Paintropy”, ormai risalente ad oltre 10 anni fa. Per il resto, ci sono quasi tutti i pezzi di “Tales of wonder”, con l’eccezione di “Sea of lies” (e me ne dispiace un sacco, dato che era una delle mie preferite!), “Danse macabre” e “Flatliners”. Già l’accoppiata iniziale è di quelle che stenderebbe chiunque: le fantastiche “The werewolf” ed “Hell on wheels”, esattamente le stesse che aprivano l’album da studio. La scaletta del concerto ripercorre quasi pedissequamente quella dell’album, con la sola “Ragnarök” che, invece di essere al centro della tracklist, viene spostata alla sua conclusione. La formazione dei Mesmerize è la stessa da circa 30 anni, con il solo Belbruno che è nel gruppo dal 2003, quando subentrò a Paolo Chiodini; l’amalgama è quindi invidiabile e si sente eccome! La prestazione del gruppo, infatti, è semplicemente strepitosa; Orlandini è come il buon vino che, invecchiando, migliora anche se da sempre la sua voce è eccezionale (lo ritengo uno dei migliori vocalist italiani in assoluto!); la sezione ritmica di Tito e Garavaglia è semplicemente esplosiva, mentre Belbruno e Paravadino alle chitarre si scambiano assoli e muri di riff. Detta sinceramente, mi dispiace un sacco non aver potuto partecipare a quella serata del 2018, perché lo spettacolo offerto deve essere stato strepitoso, almeno a quanto sento da questo cd. Come detto, il full-length si chiude con una versione remix, registrata in questo 2024, della sempre splendida “Children of reality” che anche in questa nuova veste (comunque non particolarmente differente dall’originale, eccezion fatta per le parti canore) è in grado di convincere e conquistare. I Mesmerize fanno parte della storia dell’heavy metal italiano ed hanno scritto pagine memorabili, come con “Tales of wonder” a cui questo live è un sacrosanto tributo; inutile prolungarsi ulteriormente, questo “20 years of wonder… live!” sarà sicuramente tra i migliori live album in assoluto del 2024! Ed ora non resta che sperare che i Mesmerize riescano a tornare in studio e regalarci qualche nuova perla di roccioso heavy metal…

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    28 Ottobre, 2024
Top 10 opinionisti  -  

I Leatherhead arrivano da Larissa in Grecia dove si sono formati nel 2022; in questo mese di ottobre 2024, grazie alla greca No Remorse Records, è stato pubblicato il loro debut album omonimo, composto da 10 tracce (compresa la solita inutilissima intro ed un breve intermezzo strumentale subito prima del brano conclusivo), per una durata totale di circa 37 minuti. Canzoni brevi e concise dunque, come lo speed metal richiede, genere i cui stilemi sono tutti inclusi nel sound dei greci: una voce acuta ed isterica che non può non ricordare quella del maestro John Cyriis, riff di chitarra taglienti uniti ad assoli velocissimi, batteria sparata a mille all’ora e basso che pulsa e ricama in sottofondo. Chi insomma ama lo speed metal di gruppi come gli Agent Steel (quelli dei primi dischi per intenderci) o i vecchi Savage Grace, qui troverà pane per i propri denti! I Leatherhead hanno imparato la lezione impartita dai maestri del settore e l’hanno tramutata in canzoni una più bella dell’altra, pezzi che infondono energia a profusione e voglia di sbattere il capoccione (più o meno crinito) in headbanging trita-cervicali. L’unica che non mi ha entusiasmato particolarmente coincide con la traccia meno ritmata, che è quella “When death is near” che non riesce a decollare mai e si piazza a livello qualitativo un gradino sotto le altre, anche per una lunghezza forse un attimo eccessiva. Per quanto riguarda i testi, ci troviamo davanti ad un concept basato su una storia horror, come lo è anche l’artwork (ben fatto) che ritrae una specie di pellerossa-zombie in un cimitero di notte. Inutile dilungarsi ulteriormente, se siete fans dello speed metal della scuola americana degli anni ’80, questo debut album omonimo dei greci Leatherhead farà sicuramente al caso vostro; per quanto mi concerne, mi rimetto nuovamente all’ascolto molto volentieri, dato che il disco mi è proprio piaciuto!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    28 Ottobre, 2024
Top 10 opinionisti  -  

Un anno dopo l’ottimo “Dark mother rises”, tornano a farsi sentire i tedeschi Lankester Merrin con il loro terzo album “Dark mother’s child”, disco che segue la falsariga del precedente lavoro e non solo nel titolo. Il sound, infatti, ripercorre quello del secondo full-length, anche se è leggermente più melodico; resta la meravigliosa voce dell’affascinante Cat Rogers, sensuale e maligna nella sua espressività che costituisce quell’arma in più che permette alla band della bassa Sassonia di distinguersi dal resto delle band che rientrano nel calderone del female fronted melodic power metal. Molto importante anche il ruolo del batterista Shawn Layer che impone ritmi sempre frizzanti e brillanti, rendendo i componimenti scorrevoli e ricchi di energia. Anche l’altro membro fondatore Florian Schulz si fa apprezzare con parti soliste di chitarra di gran gusto, sempre sorretto alla grande dall’altro chitarrista ritmico, il neo-entrato Steffen Vorwald che ha preso il posto di Chris Müller. Da annotare anche un cambio al basso con Jan Philipp Merten che è uscito dalla band per far posto a Benjamin Offeney. Ho ascoltato più volte queste 9 canzoni (durata totale di nemmeno 38 minuti) ed è sempre stato un piacere premere nuovamente il tasto “play” e rimettermi gradevolmente all’ascolto. Le qualità della band, del resto, sono ben note, Cat Rogers non è mai stucchevole, ma sempre estremamente espressiva e versatile, mentre tutti i musicisti fanno il loro compito egregiamente; il songwriting non è mai esagerato, ma sempre conciso, convincente e ficcante; la produzione è di qualità elevata e permette di assaporare degnamente ogni istante della musica più che godibile suonata dal gruppo tedesco. Una dopo l’altra scorrono hit che contribuiscono all’ottima riuscita di questo “Dark mother’s child”, in cui sembra che tutto sia al posto giusto e nel momento giusto, a conferma del grande talento dei Lankester Merrin!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    28 Ottobre, 2024
Ultimo aggiornamento: 28 Ottobre, 2024
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I Lay of the autumn sono una nuova band, formatasi in questo 2024 per iniziativa del leader e compositore Davide Scuteri (anche nei Ravenword, Embrace of Souls, ecc.) che ha reclutato la vocalist ucraina Iryna Boyarkina ed altri musicisti esperti. Quando ho letto il nome di Michele Olmi alla batteria, mi sono detto che sicuramente sarei andato a recensire qualcosa di estremamente valido, dato che un batterista del genere è sinonimo di qualità elevata. Purtroppo non è stato così e cerco di spiegarne bene le motivazioni. In primis il sound: abbiamo a che fare con un canonico female fronted melodic symphonic metal, genere estremamente inflazionato che ritengo abbia ormai detto quasi tutto da quando hanno iniziato a suonare tanti anni fa gente come Nightwish, Epica & C.; il gruppo italiano cerca di entrare in questo carrozzone con 10 tracce estremamente melodiche e con la voce acuta e lirica della Boyarkina che arriva a volte ad essere finanche stucchevole. A lei si aggiunge in un paio di canzoni anche la voce in growling del semisconosciuto ospite Andrea Gambaro ad aumentare i cliché tipici di questo genere, con la voce eterea della cantante e quella cattiva e dura della parte maschile; personalmente non ho mai amato questa scelta iper-abusata da tanti, ma ormai è diventata una specie di tradizione di questo particolare genere musicale. Mi aspettavo un po’ di ritmo sostenuto dalla batteria e maggiore protagonismo, ma sembra quasi che Michele Olmi si limiti al compitino per il quale è stato reclutato, senza aggiungere sentimento e la potenza e velocità per le quali è ben noto nell’ambiente (il ritmo obiettivamente è spesso e volentieri alquanto blando). Strumento protagonista, come è normale che sia, è la tastiera del leader che si esalta in numerose parti soliste; avrei gradito però anche un po’ più di presenza del basso e soprattutto di riff più pesanti della chitarra; invece sembra quasi che tutti gli strumenti siano solo di contorno al leader ed alla vocalist. Ho ascoltato e riascoltato più e più volte questo disco, intitolato “Of love and sorrow”, alla ricerca di qualcosa che potesse convincermi e conquistarmi, ma ogni volta arrivavo alla fine con l’amaro in bocca, anche per la mancanza di una hit che faccia saltare dalla sedia o sbattere il capoccione e che da sola valga l’acquisto del cd; l'unica traccia che mi ha convinto pienamente è la strumentale e molto ritmata "Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie" (per la quale è stato intelligentemente realizzato anche un video), ma forse è troppo poco. Non aiuta nemmeno il minutaggio abbastanza elevato di tutti i pezzi (il disco dura quasi 55 minuti) che rende il tutto di non semplice fruibilità ed orecchiabilità. Forse i Lay of the autumn hanno avuto troppa fretta, a pochi mesi dalla loro creazione hanno già fatto uscire questo debut album, quando magari sarebbe stato necessario un po’ più di tempo per raggiungere una maggiore coesione ed un songwriting di migliore qualità; fatto sta che questo “Of love and sorrow” non ha convinto e strappa solo una sufficienza d’incoraggiamento per far meglio in futuro!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    27 Ottobre, 2024
Ultimo aggiornamento: 27 Ottobre, 2024
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Gli Hatchet si sono formati nel 2006, quando dei teenagers di San Francisco in California decisero di mettere in musica il loro amore per bands che avevano costituito l’ossatura del Bay-Area sound negli anni ’80, come Testament e soprattutto Exodus. Non a caso lo stile canoro del chitarrista Julz Ramos ricorda molto da vicino quello del mitico Steve “Zetro” Souza (10 minuti di vergogna per chi non conosce questo mostro sacro del metal mondiale!). A livello di sound il gruppo, piuttosto che agli Exodus (di cui ha comunque un approccio tutt’altro che leggero), si avvicina maggiormente ai predetti Testament, grazie all’ottimo lavoro alle chitarre dello stesso Ramos e di Clayton Cagle in fase solista ed, in tal senso, andrei a scomodare anche i primissimi Annihilator (di cui è presente una meravigliosa cover della mitica “Human insecticide”). Il lavoro della sezione ritmica è poi notevole, con il basso di Devin Reiche che si fa sentire eccome e la batteria dell’ottimo Ben Smith che impone ritmi spesso forsennati. Qui, insomma, c’è tutto quello che si può cercare in un grande disco thrash e personalmente mi sono sentito catapultato magicamente alla seconda metà degli anni ’80, quando uscivano capolavori come “Alice in hell”, “Bonded by blood”, “The legacy” e “The new order” (solo in puro ordine alfabetico!), dischi che hanno scritto la storia del thrash e che sono semplicemente imprescindibili per ogni thrasher degno di tal nome. Questo EP, intitolato “Leave no soul”, è composto da 5 pezzi per circa 22 minuti di thrash metal di qualità superiore alla media, si lascia ascoltare e riascoltare a ripetizione in maniera estremamente piacevole, donando energia a profusione e probabilmente finirà per essere la migliore uscita del 2024 in questo specifico genere. Cari vecchi thrashers, se ancora non l’avete capito, questo degli Hatchet è un disco che non può e non deve sfuggirvi per nessuna ragione!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    20 Ottobre, 2024
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I Decimator arrivano da Sydney in Australia, dove si sono formati nel 2021; a marzo di quest’anno si autoproducono il loro debut album “’Til the enemies are gone”, poi rilasciato dalla nostrana Wormholedeath Records ad inizio ottobre. Il disco ha una copertina con legionari romani zombie che promette una certa violenza sonora, mentre il “parental advisory” ci fa capire che i testi sono tutt’altro che edulcorati; ed, infatti, gli 8 pezzi (durata totale di circa 36 minuti) sono estremamente tosti, con un thrash che non concede nulla alla melodia, ma si concretizza in un assalto sonoro dal primo all’ultimo istante. Purtroppo la voce del chitarrista Lance Holland-Keen (fondatore della band) è tutt’altro che aggraziata e, ascolto dopo ascolto, finisce per essere anche fastidiosa tanto che verrebbe da chiedersi come sarebbe stato questo disco con un cantante migliore e più capace… il nostro Lance urla la sua rabbia senza soluzione di continuità, ma lo fa senza incidere in maniera particolare, proprio per i limiti che vengono evidenziati con lo snocciolarsi della tracklist. Non aiuta nemmeno la produzione, con la batteria che non ha un suono profondo, ma finisce per essere troppo secco, soprattutto sul rullante e le chitarre che creano una specie di impasto sonoro; se poi teniamo presente che la voce è registrata ad un volume più alto degli strumenti, capirete il perché i vari ascolti dati a questo disco non sono mai stati particolarmente esaltanti. Va apprezzata sicuramente la passione di questi musicisti verso il thrash, nonché l’energia che ci mettono, ma tali fattori non bastano per permettere a questo “’Til the enemies are gone” di raggiungere anche una risicata sufficienza; per il futuro i Decimator dovranno darci dentro per sperare di farsi notare in positivo, partendo dal cercare un cantante migliore.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    20 Ottobre, 2024
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Uno splendido artwork con una caravella in un mare tempestoso ci introduce a “Voyager”, secondo full-length dei liguri Stormwolf, dopo l’esordio “Howling wrath” del 2018, dal sottoscritto recensito su queste pagine. Rispetto al precedente disco, dobbiamo annotare il cambio di bassista con Davide Scatassi entrato al posto di Francesco Gaetani e soprattutto il cambio di frontwoman, con Irene Manca subentrata ad Elena Ventura. L’album è composto da 2 cd, un primo di 8 inediti della durata di oltre 52 minuti, mentre il secondo è composto da 6 cover per circa 32 minuti. Partiamo dal primo disco, l’heavy metal dei vari pezzi è sicuramente piacevole e la voce della Manca non fa rimpiangere troppo la Ventura, penso anzi che la nuova entrata sia un po’ più adatta all’heavy metal rispetto a chi c’era in precedenza. Ciò nonostante si sentono ancora un po’ di echi hard-rockeggianti qua e là lungo tutto l’album, quasi che le musiche fossero realizzate da menti differenti e stilisticamente lontane. Ciò che non fa decollare l’album è però una lunghezza di fondo eccessiva un po’ di tutti i brani che fa perdere parecchio in efficacia, tanto che praticamente tutti i pezzi funzionerebbero meglio se durassero almeno 2-3 minuti in meno! Cerco di spiegarmi meglio: all’altezza degli assoli pare che la band perda di vista la struttura dei singoli componimenti ed i vari musicisti si esaltino nell’esibire la propria tecnica individuale, nessuno escluso (batterista compreso!), trascurando l’efficacia del singolo pezzo che così viene slegato in più parti poco omogenee tra loro. E questo difetto finisce per appesantire parecchio l’ascolto del primo disco che, invece, poteva essere sicuramente più piacevole e scorrevole, tarpando le ali e compromettendo il risultato finale. Il secondo cd, invece, ha cover di vari gruppi, dai Kiss agli Accept, passando per gli Anguish Force e gli Iron Maiden; ecco, ritengo di dovermi soffermare proprio su questi ultimi, dato che fa un certo effetto (non proprio piacevole, per essere sinceri!) ascoltare una voce femminile su “Two minutes to midnight”…. Personalmente avrei scelto gruppi con cantante donna per le cover, magari White Skull, Doro, Vixen, Crystal Viper, primi Dark Moor o comunque qualcosa di più affine alle caratteristiche della voce della Manca, ma si tratta di idee puramente personali. Tirando le somme questo “Voyager” ha alcuni problemi, come precedentemente evidenziato, che ancora una volta non permetteno agli Stormwolf di raccogliere i consensi che la loro evidente passione ed il loro talento meriterebbero; per il futuro si spera che la band si impegni per avere un songwriting più efficace, limitando la smania dei vari musicisti di esibire le proprie indubbie capacità.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    20 Ottobre, 2024
Ultimo aggiornamento: 20 Ottobre, 2024
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Con un artwork che sembra tratto da un videogioco arcade degli anni ’80, tornano a farsi sentire gli americani Lords of the trident per un EP intitolato “V.G.E.P.”, composto da 5 pezzi per circa 21 minuti di durata totale. Avevo conosciuto la band del Wisconsin nel 2015 all’epoca dell’ottimo “Frostburn”, a cui è seguito nel 2018 il meraviglioso “Shadows from the past”; da allora avevo perso le tracce del gruppo che ho scoperto aver autoprodotto altri 3 full-lengths ed alcuni singoli, prima di questo EP. I Lords of the trident usano nomi di fantasia e vestono con costumi di scena (un po’ come i Gloryhammer) ma, sin da quando li conosco, sono sinonimo di ottimo power metal ed anche questa volta non si sono smentiti! A caratterizzare il disco (acquistabile, come tutti gli altri, sul sito della band) è indubbiamente la cover di “Valerie” dell’artista inglese Steve Winwood, resa in maniera superlativa e metallizzata a dovere. Ci sono poi altri 4 pezzi sicuramente piacevoli, dall’opener “To kill a God”, velocissima ma con un occhio sempre attento alle linee melodiche ed all’orecchiabilità (come tradizione), passando per “Master of speed” e le sue ottime parti di chitarra, “Jet set city” che è forse la più moderata, fino alla conclusiva “The ballad of Jon Milwaukee” che chiude l’EP con i suoi 6 minuti abbondanti, che forse potevano anche essere leggermente ridotti per puntare maggiormente sull’efficacia del componimento. A livello strumentale i Lords of the trident sono dei musicisti di livello qualitativo più che eccellente, così come lo è la voce di Fang vonWrathenstein, da sempre ottimo vocalist, versatile e poliedrico, oltre che potente a dovere. Gli ingredienti per un ottimo risultato finale ci sono insomma tutti e questo “V.G.E.P.” non fa che confermare tutte le qualità ed il talento fuori dal comune dei Lords of the trident!

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