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Opinione scritta da Gianni Izzo

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Opinione inserita da Gianni Izzo    09 Giugno, 2021
Ultimo aggiornamento: 09 Giugno, 2021
Top 10 opinionisti  -  

E con questo “Mystai Keltoy” arriviamo a ben tre uscite per i friuliani Celtic Hills, due full-length ed un EP, nel giro di un anno. Non c’è che dire, la creatura del cantante e chitarrista Jonathan Vanderbilt è particolarmente prolifica. Nei precedenti lavori abbiamo trovato una band sanguigna che ci proponeva sostanzialmente un power metal, figlio degli anni ’80, con molti punti interessanti, alcuni refrain davvero ben fatti, ma con una produzione non all’altezza e qualche scelta artistica non proprio azzeccata, come quella che li voleva vedere essere ispirati allo stesso tempo ai primissimi Helloween (e questo è vero, un misto tra Grave Digger, Running Wild e gli Helloween di “Walls Of Jericho”), ma anche al metal nordico ed estremo in stile Amon Amarth (e qui iniziavano un bel po’ di problematiche a cominciare dalla prestazione vocale). Erano prove che sicuramente volevano allargare gli orizzonti musicali della propria proposta, ma che in realtà si presentavano come episodi che non rientravano a dovere nelle corde del gruppo. Diciamo che i Celtic Hills si trovano decisamente a proprio agio nel power/speed metal da strada, e “Mystai Keltoy” ne è la prova decisiva.
Sempre interessanti le tematiche, i nuovi “Misteri Elusini”, spaziano sempre tra leggende e storia del Friuli, in cui rientra anche una dose di fantascienza, tra piramidi e civilizzazioni aliene. il tutto è ben riassunto nell’artwork del disco. Registrato e prodotto al Groove Factory di Udine da Michele Guaitoli (che i più conosceranno come singer di band quali Kaledon e Visions Of Atlantis), finalmente i Celtic Hills centrano una produzione buona che dà giustizia alle composizioni. Suoni più compatti, chitarre che escono fuori con la giusta potenza, così come la ritmica, e la voce ruvida di Vanderbilt che ben si amalgama agli strumenti.
Per fortuna i Celtic Hills abbandonano le sperimentazioni alla ricerca di certo viking metal nord europeo e si concentrano su ciò che gli riesce meglio, un bel power/speed, sempre legato al passato del genere, ma il tutto suona molto meglio, non manca qualche momento orchestrale ed aperture epiche ad arricchire il piatto musicale del trio friulano, e persino qualche accenno elettronico, il passato ed il moderno che in qualche modo cercano di trovarsi. Anche se il disco ruota soprattutto intorno ad alti bpm e ritmiche serrate, i frequenti riff thrashy sanno anche farsi da parte interessanti momenti melodici.

Per quel che riguarda il songwriting, non tutto fila liscio dall’inizio alla fine, ma anche qui il risultato è sicuramente discreto e più funzionale rispetto a solo un anno addietro. L’inizio del disco è molto coinvolgente, si va dritti al punto dall’opener, a “Blood Is Not Water” e le ottime “The Tomorrow Of Our Sons” e “The Seven Heads Dragon Of Osoppo”. E' pur vero che subito dopo ogni tanto si scade in riff un po’ troppo scolastici e derivativi, in un sali scendi di qualità che comunque vede il suo punto più alto con la splendida “Eden”, dove troviamo le female vocals di Germana Noage. Per quel che mi riguarda il disco poteva finire qui, le seguenti due canzoni, di cui l’ultima in italiano (sempre gradito per quel che mi riguarda), hanno un approccio un po’ più hard rock, ma per quanto le abbia ascoltate non sono davvero riuscito a farmele piacere.
Il punto principale è che questa è la strada giusta da percorrere, avrete capito come per me “Mystai Keltoy” sia il lavoro più riuscito dei tre che ho ascoltato, i Celtic Hills per ora sono in crescita e ci auguriamo che la scalata continui in questa direzione.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    14 Mag, 2021
Ultimo aggiornamento: 14 Mag, 2021
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I norvegesi Einherjer arrivano con questo “North Star” a timbrare l’ottavo lavoro in studio. Non posso dire che la stella della band sia stata negli anni così splendente come quella dei propri colleghi, figli dei Bathory e del viking metal nord europeo, ma è anche vero che fin dai più interessanti inizi ad oggi, bene o male gli Einherjer hanno saputo mettere sul piatto, pur con qualche riserva, sempre dei dischi soddisfacenti, per gli amanti dell’extreme metal meno conservatori ed esigenti.

A sentire “North Star”, si capisce subito che i nostri vogliono continuare la strada già intrapresa da anni, quindi un extreme metal minimalista, fatto di pochi riff e ritmiche molto semplici. Per fortuna non ci sono sfondoni simil punk come è successo per l'opener del precedente album, ma dei loro esorti continua a rimanerci comunque solo il freddo screaming del frontman, e qualche riff di chiara estrazione black. Gli Einherjer puntano tutto su esecuzioni facilmente memorizzabili ed estremamente tamarre. Sono ormai un po' i Manowar del metal estremo norreno. Un po’ troppo quadrati fin dagli esordi, in “North Star” le ritmiche, per lo più mid-tempo, sono ancora più lineari del solito, fino a toccare un po’ troppo la scolasticità. Di canzoni buone ce ne sono, l’opener in particolare, non a caso scelta come singolo, così come le belle “Higher Fire”, “Echoes In Blood” (se solo ci fossero stati nel disco più duetti di chitarra come in questo brano!!!), ed ancora quella “West Coast Groove O”, che più di tutte si presenta come un classico brano da festa, sempre legata alle atmosfere nordiche e fredde della band, ma estremamente orecchiabile fin dal primo ascolto. Qui e li gli Einherjer creano momenti più cupi, soprattutto sul finale del lavoro, dove vengono aggiunte clean vocals, qualche effetto modernista, e ci si lascia con atmosfere più dilatate che vanno in contrasto al resto dell’album sempre molto roccioso e marziale, una colata di acciaio nordico, fedele alla propria immagine, ma che prova comunque soluzioni per accattivarsi un più ampio pubblico. “North Star” non rimarrà nella storia e gli Einherjer forse non riescono più a trovare le belle melodie epiche e decadenti degli esordi, ma i loro fans troveranno anche stavolta qualcosa di cui compiacersi.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    28 Aprile, 2021
Ultimo aggiornamento: 28 Aprile, 2021
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Son passati ben sei anni dal terzo disco dei Vexillum intitolato “Unum”, che vide accanto ai nostri diversi special guest a duettare con il bravo Dario Vallesi: Hansi Kursch, Mike Boals, Chris Bay e Maxi Nil. Da allora è passato così tanto che avevo pensato che i toscani si fossero purtroppo persi, e sarebbe stato davvero un brutto colpo per la scena power folk italiana. Invece i Vexillum firmano per la Scarlet Records, rendono la propria immagine più accattivante, il sound a tratti più oscuro, i propri arrangiamenti più vari e curati. Flauti e cornamuse, che son sempre stati parte integrante del sound dei nostri, vengono suonate, come già successo in passato dal guest Nick MacVicar. La ottima produzione dei suoni, ci fa subito sentire a nostro agio e pronti per salpare insieme ai canti dei Vexillum con questo “When Good Men Go to War”.
Già la title-track è un vero portento di power folk moderno, con un refrain corale che ci si pianta subito in testa. Il secondo singolo “Sons Of A Wolf” ha quel tono più oscuro, aggressivo e drammatico che spunterà diverse volte durante il disco, figlio del migliore Blind Guardian sound.
L’apertura del tutto è però affidata alla lunga “Enlight The Bivouac”, più di 10 minuti di musica che da sola vale l’acquisto del disco, e che riassume perfettamente ciò che ci aspetta durante l’ora in cui ci intratterranno i Vexillum, tra momenti speed, cavalcate metalliche, momenti acustici, e momenti corali, tutto ben bilanciato tra strumenti etnici ed elettrici. Il viaggio continua tra i cadenzati ritmi e malinconici cori di “Voluntary Slaves Army”, o quelli più incalzanti di “The Deep Breath Before the Dive”, le sfumature prog di “Prodigal Son”. “Flaming Bagpipes” sembra uscita dall’ottima penna degli Elvenking ed i continui ribaltamenti di approcci sonori tra heavy/power metal e folk fa di “When Good Men Go to War” un ennesimo ottimo lavoro della discografia dei nostri, dove la compattezza del sound ma anche la varietà dello stesso, riesce ad accompagnarci senza mai stancarci dall'inizio alla fine, facendoci canticchiare fin da subito gli undici episodi del disco, che si chiudono con la bella acustica ed italianissima “Quel che Volevo”, che fa molto Modena City Ramblers.
Un ottimo ritorno quindi, sperando di non dover aspettare così tanto per il prossimo disco, alziamo i calici e diamo un gradito bentornato ai Vexillum.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    14 Aprile, 2021
Ultimo aggiornamento: 14 Aprile, 2021
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Ci siamo occupati dei serbi Nùmenor poco tempo fa per l’uscita dell’EP “Make The Stand”, con l’ospite d’onore alla voce, Hansi Kursch, dei Blind Guardian. Vediamo adesso come i Nùmenor se la sono cavata con il full-length “Draconian Age”. Abbiamo già parlato della buona e tirata opener, che rimane tra le migliori proposte del disco, così come abbiamo accennato a “Where Battle Rages On”, quindi concentriamoci sulle altre tracce. Interessante la versione metal di “Hall Of The Mountaing King”, tratta dal “Peer Gynt” del compositore Edward Grieg. Non eccezionali le strofe, ma il piano che riprende la famosa opera, unita alle chitarre ed allo screaming di Miranovic merita, anche perché ci mostra la perizia tecnica dei musicisti serbi.

A livello di testi è sempre Tolkien al centro dell’attenzione dei nostri, tanto che anche l’artwork è ripreso dalla versione serba del 1984 de “Il Signore degli anelli”, disegnata da Dobroslav Bob Zivkovic. Abbiamo un’ottima cavalcata tra power e symphonic black intitolata “Feanor”. Rispetto ai precedenti lavori, la parte più estrema della musica dei Nùmenor sembra voler essere più protagonista questa volta, tanto da donare a "Draconian Age" un’aura più oscura del solito, ottime in questo senso “The Days Of Final Frost” e “The Last Of The Wizard”, entrambe ispirate molto alla musica dei Dimmu Borgir. Nonostante questo, ogni pezzo, dove più, dove meno, ha il suo momento heavy/power. “Arkenstone” ha persino un andazzo hard rock, nonostante non sia mai messo da parte lo screaming di Miranovic. “Mirror mirror” non ha niente a che fare con l’inno power per eccellenza dei Blind Guardian, il mix musicale tra classico ed estremo dei Nùmenor rimane inalterato, tra cavalcate e momenti epici.

“Draconian Age” è scorrevole, anche perché dieci brani alla fine hanno una durata di poco più di mezz’ora di musica, quindi niente dilungamenti, ma canzoni essenziali, che si lasciano ascoltare con piacere. Non ci sono infatti momenti sotto la sufficienza, ma qualche problema a livello di produzione rimane che non ci fa godere a pieno il disco dei nostri, insieme a qualche interpretazione un po’ troppo dilettantistica, prendete i cori ed alcune parti del cantato di “Twilight Of The Gods” ad esempio, che ci lasciano un po' interdetti. Queste imperfezioni troppo marcate non ci permettono di alzarci oltre la sufficienza, ma parliamo comunque di una sufficienza più che meritata. Dopotutto i Nùmenor non hanno mai deluso, ma continuano a portarsi appresso alcune piccole cadute di stile, che a questo punto si potrebbero tranquillamente scrollare da dosso, per poter volare più in alto.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    01 Aprile, 2021
Ultimo aggiornamento: 01 Aprile, 2021
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Aspettando il nuovo vero disco di una delle folk metal band più irriverenti della storia, i Trollfest ci deliziano con questo simpaticissimo EP di quattro brani, di cui solo uno originale, “Happy Heroes”, ottimo come singolo, bel refrain, una folk-metal song, con tutta la spavalderia che ci si aspetta da un brano del genere. Ovviamente lontani dalle più interessanti composizioni che abbiamo sentito negli album dei nostri eroi, ma un gran bella sferzata di folk metal da osteria che ci fa sorridere e scapocciare a dovere.

Poi si passa alle tre cover, ovviamente rigurgitate per bene in versione folk metal/punk, dai nostri beniamini norvegesi. La prima è la famosa hit dance degli Aqua, “Cartoon Heroes”, perfetta, con la Miriam Renvag Mulleraka Sfinx a donare la sua ugola e tirare avanti il pezzo, qualche screaming qui e lì, tante chitarre e finale con doppia cassa. Ma potremmo dire: “Ok facile così, un po’ di chitarre distorte, un po’ di batteria forsennata, alla fin fine si metallizza tutto”.

Ok allora passiamo alla super famosa “Don’t Worry Be Happy” di McFerrin. Capolavoro vero! Sembra quasi aderire all’originale, con quel ritmo in levare, poi i Trollfest ubriaconi hanno la meglio, comincia il blast beat, e potete immaginarvi tipo le immagini dei Gremlins che mettono a soqquadro la piccola provincia americana del primo film, dandosi alla pazza gioia. Ovviamente al posto dei Gremlins, ci sono i nostri i nostri Trolls fuori di testa.

Finiamo con “Happy” di Pharrel Williams, non interessante come la precedente, ma anche qui ci possiamo godere un bel coro stralunato sul finale e gli inserti di sax, che riescono a rendere un brano vietato ai diabetici, come un qualcosa di estremamente divertente e che si sa prendere poco sul serio, nonostante la bravura dei musicisti.

E' un periodo duro per tutti, ma i Trollfest nel giro di un quarto d’ora vi riusciranno a far dimenticare con un sorriso, il disastro che si sta consumando li fuori nel mondo, accompagnandovi nel loro di mondo, ubriacone, pazzo, fuori da ogni logica.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    27 Marzo, 2021
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Breve antipasto del nuovo album dei serbi Nùmenor che si intitolerà “Draconian Age”, questo “Make The Stand” ci presenta come piatto principale, non so se lo avete riconosciuto dalla copertina????? Spero di si, la power metal song che dà il nome al disco, soprattutto perché c’è l’ospite d’onore Hansi Kursch a duettare con il gruppo.
Vi ricordiamo, che i Nùmenor, non sono certo una band che ha mai voluto nascondere i suoi riferimenti musicali e non, dalla letteratura fantasy, al power symphonic dei Blind Guardian e Rhapsody, fino al symphonic più estremo, stile Dimmu Borgir. Queste sono le coordinate in cui si sono sempre mossi, e così continua il loro cammino.
La title-track è molto stuzzicante, unione tra il growling ed il metal estremo con l’inconfondibile voce di Hansi e le melodie a la Blinds sono azzeccatissime. Tra i brani troviamo anche una discreta cover proprio di “Valhalla” dei Blind Guardian, che va a chiudere il dischetto, meno irruente dell’originale, con un arrangiamento che dà più respiro alle melodie sinfoniche che allo speed dell’originale, ma davvero ben fatta, con un ottimo finale pianistico che non ti aspetti.

“Where Battle Rages On” lascia il tempo che trova, mentre i nostri ci ripropongono la loro bella “Dragon Of Erebor”, contenuta originariamente in “Sword And Sorcery”, in una versione svecchiata e una produzione migliorata.

Purtroppo proprio la produzione però, sicuramente più professionale rispetto al passato, non riesce ancora a stare al passo con i tempi. Ma tutto sommato non possiamo lamentarci, chissà che “Draconian Age” non ci stupisca con qualche altra manciata di brani nel più classico stile fantasy della band, tra black e power sinfonico. Staremo a vedere.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    26 Marzo, 2021
Ultimo aggiornamento: 26 Marzo, 2021
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Prendete il concept “1755” è mettetelo da parte. I Moonspell ci hanno ormai insegnato che da parte loro è tutto più che lecito, una volta luciferini, una volta così estremi da non riuscire a ricordarci neanche i loro primissimi lavori a quel livello di cattiveria. Poi rigirano le carte come se niente fosse, scimmiottano l’alternative rock, e ritornano ancora su coordinate che sembrano essere più pop che metal. Ecco, il concept “1755” ci aveva fatto rivedere una metal band che tra alti e bassi, sembrava volersi riprendere il proprio trono nell’extreme metal, come ci avevano già provato anni primi del buonissimo “Extinct”. Invece, niente di più sbagliato, ai Moonspell non frega niente di queste cose, e quindi se ne escono con un singolo che ammetto mi ha lasciato molto freddo, esteticamente ineccepibili, una sorta di Pink Mode, o Depeche Floyd se vi aggrada di più, una canzone super melodica, super soffusa, piena di ottimi assoli a la Gilmour, semi acustica, troppo prolissa, se “Hermitage” fosse stato tutto così, mi sarei addormentato sicuramente.
E’ vero, “Hermitage” è un album indiscutibilmente melodico, poco metal, attento al decadentismo musicale, alla sofferenza, alla malinconia, una musica rarefatta nella quale i Moonspell non scordano che dopotutto sono i fautori di “Irreligious”, quindi accanto all’eterne clean vocals, talvolta un po’ piatte, accanto alle chitarre acustiche, percussioni, i portoghesi qualche growling azzeccatissimo te lo sbattono in faccia, qualche coro gotico di quelli belli pompati te li mettono e ti solleticano il palato, ti dicono: “Si "Hermitage" non sarà un album metal, ma noi siamo ancora i Moonspell”. E quindi noi ce lo godiamo questo disco, perché a parte qualche calata di tono, a parte qualche sonnecchiata qua e la, di qualità ce n’è tanta, all’altezza proprio di quel “Extinct” che non mi dispiacque affatto, lontano da quell’ “Alpha Noir” che invece lasciò il tempo che trovava per la voglia di dividere l’anima della band in due parti ben distinte, che toglievano un po’ di qua e di la, senza riuscire a puntare al centro. “Hermitage” non sarà il disco dell’anno, ma ascoltatevi l’opener, “Common Prayers”, la stessa title-track, fino alle sperimentazioni elettroniche ma ben equilibrate verso la fine del disco. I Moonspell le cose le sanno fare dopo tutti questi anni di carriera, “Hermitage” sarà un disco dark rock e non metal? Ok, ma migliore del durissimo “1755” che aveva degli ottimi strali ma anche delle bruttezze inaudite.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    14 Febbraio, 2021
Ultimo aggiornamento: 14 Febbraio, 2021
Top 10 opinionisti  -  

Dalla Polonia arrivano I Kromheim, in realtà una one man band del musicista Mikolak Poplavski, che si occupa di tutto in questo EP omonimo di quattro tracce. Poplavski fonda i Kromheim proprio nel 2020 e, lo stesso anno, fa subito uscire questo breve lavoro autoprodotto.

Tematiche e musiche di chiara ispirazione scandinava, quello dei Kromheim è un viking metal, ben suonato e ben interpretato, che presenta quattro brani, potenti e melodici quanto basta, dosando entrambe le caratteristiche senza eccedere, Poplavski riesce ad essere vario e interessante, passando da tirate ed epiche canzoni come “Prayer” e “Revenge” (in quest’ultima i toni si fanno anche più oscuri), rientrando in atmosfere epic black, fino ad arrivare ad un brano folk e “festaiolo” come “Freedom”.

Non parliamo di spiccata originalità, gli Amon Amarth sono dietro l’angolo, ma certamente questo breve lavoro è un buonissimo biglietto da visita se amate il melodic death più epico e guerresco. Di fronte alla varietà dei brani, il growling iper cavernoso (e un pochino effettato?) di Poplavski mi è sembrato un filo monocorde e talvolta mal si sposa con la musica, ma c’è tempo per migliorare anche questo aspetto. Per ora un dischetto più che discreto per i Kromheim.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    14 Febbraio, 2021
Ultimo aggiornamento: 14 Febbraio, 2021
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I norvegesi Gaia Epicus del 2020 sono ormai, o comunque per il momento, una one man band: dietro tutti gli strumenti è rimasto il membro fondatore, Thomas Hansen. Egli avviò il progetto già all’inizio degli anni ’90, cambiando stili, nomi e loghi, passando dal thrash al power, fino ad arrivare al nuovo millennio ufficializzando la propria passione musicale con il moniker Gaia Epicus. Fin dall’inizio la band ha sofferto di continui cambi di line up, e difficoltà nel portare avanti il progetto musicale, tra dispute con la ex label, e la tragica perdita in un incidente stradale del bassista Yngve Hanssen nel 2005.
La creatura di Hansen, nonostante qualche soddisfazione personale, tra tour europei e ed ottimi special guests nei vari album, ha risentito di tutte le difficoltà del caso, tant’è che il chitarrista al momento pubblica i dischi della sua creatura con la Epicus Records, piccola label indipendente creata da lui stesso. Insomma tutto ciò che ruota intorno ai Gaia Epicus è a nome Thomas Hansen.

Da un punto di vista strettamente musicale, nonostante diverse buone idee, che troveremo anche in quest’ultimo lavoro, i dischi non sono sempre stati irresistibili dall’inizio alla fine. Gli amori musicali di Thomas sono chiari, dal thrash dei Metallica, al power degli Helloween e dei Gamma Ray, fino all’heavy dei Judas Priest, ma purtroppo in ogni disco non si è insistito su una buona amalgama dei vari sottogeneri, piuttosto l’ascoltatore ha sempre il senso di assistere ad un continuo tributo verso le varie band ispiratrici, con esiti altalenanti.

Il settimo sigillo della discografia dei Gaia Epicus, “Seventh Rising”, non si discosta molto da questo modus operandi, tanti brani in puro power metal style made in Germany, e qualcosa direttamente accostabile ai Metallica, con tanto di impostazione vocale alla Hetfield.
“Seventh Rising” è dotato di ottimi riff, Hansen è un bravo polistrumentista, ma soprattutto un bravo chitarrista, purtroppo non è un altrettanto buon cantante e, nella maggior parte dei casi, sembra non riuscire a rendere bene le linee vocali di pezzi che si presentano altrimenti molto buoni, anche se non originalissimi. “Like A Phoenix” inizia con un bel fraseggio di piano per poi esplodere in una tiratissima e melodica power metal song, “Rising” ne segue le orme, poi si cambia stile e si finisce in canzoni dall’approccio più duro e scuro, cominciano i brani melodic thrash a tenere banco, accettabili “Mr. Madman” o “Invisible Enemy”, ma per la maggiore sembrano carenti di vero mordente, né carne e né pesce, come si suol dire.
Si trotta così così fino all’anthemica “Gods Of Metal”, ed a fianco di Hansen si riconosce subito l’inconfondibile voce di Tim Owens, l’altro guest è Mike Terrana alla batteria. Il brano è convincente, la produzione non tanto, la voce di Owens non è trattata al meglio, in quanto a volumi non ci siamo. Ultimo assaggio positivo del disco è “Eye Of RA”, a parte le solite linee vocali non all’altezza, è l’unico brano che riesce a fondere al meglio le anime dei Gaia Epicus, il power, l’heavy ed il thrash, in quello che si presenta un buonissimo ed epico finale, tellurico quanto basta, con un bel ritornello che ti si ficca subito in testa.

Le idee continuano a scorrere a corrente alternata per la band norvegese, la produzione non è il massimo, una buona metà dell’album è buona, l’altra lascia il tempo che trova, e soprattutto Hansen dovrebbe trovare almeno un buon cantante che lo affianchi. Se ci fossero state almeno delle linee vocali più decise, parleremo di una sufficienza, ma così non è, “Seventh Rising” non è certo da buttare, c’è del buono, ma ha anche qualche problema di troppo.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    05 Febbraio, 2021
Ultimo aggiornamento: 05 Febbraio, 2021
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Undicesimo album per i Korpiklaani, a tre anni esatti dal precedente lavoro "Kulkija"; non c’è pandemia che tenga, i nostri, pur con tutte le difficoltà del caso, hanno deciso di osare e il risultato è “Jylhä”, un disco decisamente meno ostico del precedente da cui però ne riprende le sperimentazioni in atto, anche se i nostri, questa volta, non hanno voluto fare un forzato e solenne lungometraggio musicale, come è successo con “Kulkija”, ma hanno cercato un compromesso tra pezzi più ricercati, altri dai bpm più sostenuti e mood più allegri, aggiungendo anche un po’ di melodie - per così dire - "paracule", mi scuserete il termine.

“Jylhä” significa maestoso, ma l’album non lo è nel senso stretto del termine, qualche cedimento tutt’altro che maestoso purtroppo lo ha, ma sicuramente la band ha saputo giocare bene le carte di questo suo “nuovo corso”, lontano da quei lontani e memorabili inni all’alcol tout court.
Come al solito i finlandesi non hanno badato a spese sia per il bell’artwork, sia per i cinque video realizzati, nonché ovviamente per la produzione stessa del disco. I Korpiklaani del 2021 toccano un po’ tutto, dai ritmi mezzi reggae di “Leväluhta”, a riff più rockeggianti che metal, strizzando l’occhio a melodie che potrebbero fronteggiare le hit da classifica come succede con “Sanaton maa”, ma anche tornando ad atmosfere più classiche da pub come in “Pidot” o addirittura più cupe e rabbiose come “Nieni”, che riprende i ben noti fatti di cronaca nera accaduti al lago di Bodom, nonostante per noialtri Bodom è più che altro, il moniker dei famosi "Children" del compianto Alexi Laiho.

Alcuni passaggi del disco, sinceramente passano con una certa difficoltà e rischiano di farci rimanere indifferenti, ma i Korpiklaani sanno mettere a bada anche i momenti più sonnacchiosi, grazie a degli arrangiamenti sempre più ricercati, dove la strumentazione popolare, non solo si presenta a suonicchiare le classiche frasi melodiche dal gusto folk, ma intraprende degli ottimi ed interessanti assoli, ritagliandosi uno spazio ancor più centrale nell'economia musicale della band. Il punto forte del disco sta anche nella sua varietà ritmica, e forse di questo dobbiamo ringraziare anche il nuovo batterista Samuli Mikkonen, nonché nei mood che cercano di diversificarsi di brano in brano. Ma come è già successo per gli ultimi dischi, non tutti apprezzeranno, e guarderanno con sempre più nostalgia ai primi album dei finlandesi. Oggettivamente, sento un gran lavoro dietro “Jylhä”, minuzioso, calcolato, non sempre pienamente ispirato, ma tra i pro ed i contro, devo dire che la band ha saputo mantenersi a livelli più che soddisfacenti.

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