Opinione scritta da Gianni Izzo
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Top 10 opinionisti -
Legati ai connazionali Negură Bunget attraverso la figura del chitarrista Corb, che si cimenta anche dietro ai microfoni insieme al cantante Lycan, i rumeni Syn Ze Sase Tri in realtà trovano il loro modus sonandi in un black metal meno ambient oriented e meno intimo, ma più sinfonico e battagliero, nel quale i testi in lingua madre si muovono tra mitologie rumene e sanguinari episodi storici della propria terra. Buona la produzione, passaggi musicali nel complesso discreti ma che talvolta si ingarbugliano troppo, difficile infatti trovare un brano lineare, la band sente l’obbligo di continuare a cambiare continuamente il mood dei singoli pezzi, con il risultato di avere troppe schegge musicali, troppo brevi per essere apprezzate a pieno e che non sempre riescono a coesistere insieme. Ci si distrae un po’ troppo, rimane in testa un po’ poco, eppure basterebbe il pagan black metal di “Înaripat şi împietrit” (Alato ed Impietrito), impreziosito da passaggi sintetizzati di flauto, o il finale della sofferente “Vatra strămoşeasca“ (Il nido degli antenati) a chiarire le idee ai Syn. Approfondire un po’ una sfaccettatura della propria musica per renderla davvero interessante, senza andare a complicarsi la vita in continui riff e melodie dissonanti per creare passaggi orrorifici, che con tutta sincerità, dopo un ventennio di Dimmu Borgir e Cradle Of Filth, sembrano fin troppo canonici e adolescenziali. Eppure questo secondo album dei Syn Ze Sase Tri sa anche sorprendere, la band si inventa “In Pantecu Pamantului” (Nel Ventre Della Terra), un brano black acustico, e l’idea, interessante sulla carta, riesce a colpire. C’è insomma del buono, ma le idee vanno ancora limate e fatte lievitare per bene.
Ultimo aggiornamento: 12 Luglio, 2012
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Impeccabile per produzione e tecnica strumentale, purtroppo l’Ep di debutto degli spagnoli Jotnar si incaglia sullo scoglio della personalità… inesistente. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che la band abbia scelto come moniker quello di giganti mostriciattoli appartenenti alla mitologia norrena? Con tante cose da raccontare sulla Spagna, ci ritroviamo nuovamente con un ennesimo gruppo che riprende a piene mani il solito sound snaturato di Goteborg, lo fa proprio e ahimè si inchina a tutto ciò che ci hanno insegnato i nomi più noti, nella fattispecie: In Flames - datazione “Colony”, senza dimenticare il periodo più recente di “Come Clarity”. Per fortuna, nonostante vari sinth nei brani, i Jotnar ci risparmiano le disastrose sperimentazioni sonore degli ultimissimi album della band svedese. L’Ep “Giant”, aldilà delle stucchevoli melodie di “I Am Giant” che danno proprio noia, ed aldilà di momenti un po’ troppo metalcore, alla fine si lascia ascoltare, non sempre le clean vocals corrispondono a refrain catchy, si gioca un po’ a sviare l’ascoltatore, ma anche a tirarlo subito in ballo, grazie a riff azzeccati e brani tirati e pompati. Insomma i Jotnar sono nella media di chi non può proprio a fare a meno di questo tipo di sonorità. Da parte mia, mi chiedo quante cavolo di volte dovrò ancora recensire lo stesso album, proponendo continuamente le stesse parole per descrivere quello che una volta era il glorioso melodic death: grande tecnica, grande produzione, personalità poca o assente, clean vocals, Goteborg, In Flames…e che palle!
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Nonostante il taglio musicale e il moniker stesso siano provenienti dal lontano nord, per inciso parliamo di una pagan metal band di matrice black il cui nome è un miscuglio tra il Sinarin, la lingua elfica di Tolkien nella quale Draug significa “lupo”, ed il nome di non-morti mitologici di origine norrena chiamati Draugr, la band autrice di questo lavoro musicale è abruzzese. “De Ferro Italico” è stato un ottimo disco autoprodotto, la To React Records se ne è accorta ed ha dato fiducia al gruppo ristampando l’album. Per farvi capire il livello di produzione vi basti sapere che, dopo aver registrato i brani negli ACME Studios di Davide Rosati, il mastering è stato curato ai Finnvox Studios di Helsinki da Mika Jussila, già con Amorphis, Stratovarius, Moonsorrow e via dicendo. “De Ferro Italico” è il secondo album autoprodotto dei Draugr che segue a ben 5 anni di distanza “Nocturnal Pagan Supremacy”. Il concept ruota intorno alla resistenza contro l’editto dell’imperatore Teodosio I che mise al bando i culti pagani, ufficializzando il cristianesimo come unica religione dell’Impero Romano. L’album ha un suono molto pomposo che può piacere agli amanti dell’extreme metal più sinfonico, fans degli ultimi Ensiferum o Equilibrium. Brani battaglieri ed epici si uniscono a momenti più goliardici e folk, l’inglese usato solo nell’iniziale “The Vitualean Empire” lascia presto posto all’italiano ed il latino, orchestrazioni ed espressivi narrati cinematografici si amalgamano agli strumenti più popolari quali flauto e cornamusa, suonate dai super ospiti Maurizio e Lore dei Folkstone. La maggior parte dei brani ha un minutaggio che arriva sempre intorno ai 6 minuti, alcuni episodi come l’intricata “Suovetaurilia”, li superano abbondantemente. Siamo di fronte ad un disco vario, molto tecnico, con diversi cambi di tempo, che ripropone tranquillamente tutte le sfaccettature del metal, dal power al black (la gelida “Inverno” sembra uscita dalla penna degli Immortal), sempre senza annoiare, anche se talvolta si ha bisogno di più ascolti per apprezzare a pieno un pezzo, vista l'ammontare significativo dei minuti.
Tra i brani più riusciti vi propongo la già citata “Suovetaurilia”, “Legio Linterata” dotata di uno dei migliori refrain dell’album, la folkeggiante “Ver Sacrum”, per non parlare del finale epico presentato ottimamente dalla title-track e da “Roma Ferro Inique". In breve "De Ferro Italico" è un disco consigliato agli amanti del pagan metal, reso ancora più interessante dal concept ben presentato che riesce a far risuonare le voci di tutti coloro che hanno combattuto per difendere la propria identità culturale.
Ultimo aggiornamento: 18 Giugno, 2012
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Nonostante Luca Turilli ci avesse già abituato a dischi solisti qualitativamente buoni, c’era molta curiosità intorno ad “Ascending To Infinity”, sia per questa scissione atomica a freddo del duo Turilli – Staropoli, sia per vedere se il nuovo cantante Alessandro Conti, conosciuto per la sua militanza nei Trick Or Treat, riuscisse a dare il meglio di se anche in contesti meno goliardici di quelli di cui si circonda con la sua band. Esame passato a pieni voti per Alessandro che, se nei Trick Or Treat ci ha mostrato soprattutto quanto riesca ad estendere la sua voce in barba al Kiske dei tempi migliori, qui ci presenta tutte le sfaccettature, l’espressività, la tecnica e gli studi lirici di quello che attualmente è a tutti gli effetti uno dei più bravi vocalist in circolazione.
Tutto questo al servizio di un Luca Turilli liberato da un concept lungo ben più di un decennio, e che ora sfiora “i pieni voti” con “Ascending To Infinity”, alla ricerca di un buon equilibrio tra il sound dei suoi album solisti, su tutti, le sperimentazioni sonore del futuristico “Prophet of the last eclipse”, le sinfonie cinematiche del passato rhapsodiano, ed i riff, i solismi e le ritmiche nervose ed incalzanti del passato più recente dei Rhapsody Of Fire. Aldilà del solito schema dell’album che vuole un’intro sinfonica ed una suite finale, è la prima volta che Turilli non lega tutti i brani in una storia, il che sembra dare abbastanza respiro all’intero lavoro ed anche una grande varietà che arriva a presentarsi addirittura con una cover di Alessandro Safina, tenore italiano che sulla falsa scia di Bocelli ama unire musica lirica e leggera, e che qualche anno fa entrò nelle classifiche italiane con “Luna”. Il brano aveva una buona linea vocale ma un terribile arrangiamento pop, Turilli per fortuna lo "rhapsodizza" a dovere, lasciando le brevi vocals femminili con quel tocco un po’ jazzato che rendono interessante l’esperimento.
Dicevo sul “sfiorare i pieni voti”, questo perché “Ascending To Infinity” si presenta fin dai primi ascolti uno dei migliori dischi scritti finora nel 2012, in cui troviamo brani nei quali tutte le caratteristiche del "Turilli sound" si amalgamano bene tra di loro, e fin dai primi ascolti sono godibilissime, siano esse più trionfali come la title-track o il primo singolo dai toni arabeggianti “Dark Fate Of Atlantis”, sia che esse abbiano sonorità più cupe o apocalittiche come l’indiavolata “Dante’s Inferno” e “Clash Of The Titans” che, oltre ad un bel refrain vecchia maniera, ci riserva anche strofe che mi hanno ricordato, con tutti quei suoni ambient e la voce di Alessandro che si fa sporca per l’occasione, qualcosina dei Megadeth più darkosi e ispirati. Ma Turilli è preso quasi in ostaggio dall’affanno di pompare il più possibile il suono di ogni brano riempendolo in ogni dove di decine di sovraincisioni che talvolta lo appesantiscono troppo, quindi vi scontrerete con un’ottima “Excalibur” ma che poi si dilunga troppo sul finale con tutti quegli inutili cori gotici, a brano praticamente finito. Stessa sorte per la suite finale, lunga ben un quarto d’ora ma che potrebbe essere stata molto più semplice, visto anche che ha un refrain irresistibile, ma come una prima donna si fa desiderare un po’ troppo tra un capitolo musicale e l’altro. Interessante e maestosa infine la sofferente “Tormento E Passione” dove c’è questo duetto tra voce femminile e maschile che ben rappresenta il significato del titolo e fa da base alla miglior performance di Alessandro Conti che passa dal cantato lirico al moderno con una naturalezza sconcertante. Peccato insomma per qualche fronzolo di troppo ma, aldilà di questo, “Ascending To Infinity” è un ottimo album, che continua fieramente la strada intrapresa con gli ultimi due dischi dei Rhapsody Of Fire.
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Se siete cresciuti a suon di Anathema, Decoryah o, per uscire fuori dai confini del metal, Ozric Tentacles, se amate le atmosfere rarefatte, psicadeliche, ipnotiche, il debutto degli AtomA è un album che vi potrebbe garbare alla grande. La band svedese infatti propone tutto questo in brani dove le atmosfere si dilatano e la musica detta le sue leggi attraverso sinth e tastiere, ritmiche tribali e suoni futuristici che pervadono tutto il lavoro, mettendo molte volte in secondo piano il cantato stesso che, per la maggiore, si presenta come echi di linee melodiche che accompagnano le strumentazioni, più che essere accompagnate da queste. Non mancano brani più concreti, dove si sentono maggiormente le chitarre e dove si ritorna ad un modello più classico di canzone, nella title track anche un accenno di growling durante le strofe, “Hole In The Sky” punta su un refrain più immediato, ma in generale “Skylight” è un album da ascoltare ad occhi chiusi, sotto un cielo stellato, facendosi trasportare dai suoni cosmici che provengono da questo interessante disco che, grazie anche ad un minutaggio non troppo dilungato riesce a non essere indigesto, nonostante la sua particolare natura. Certo, se cercate più concretezza e siete allergici a sfumature di suoni che vengono ad accarezzarvi l’anima, dovete cercare altrove, questo non è il luogo adatto.
Ultimo aggiornamento: 01 Giugno, 2012
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Terzo album per la più allucinata e fantasiosa band del momento. Gli svedesi DSO sfornano questa volta l’album della vita, a cui spero ne seguiranno molti altri altrettanto originali e riusciti. “Pandora Piñata” è una centrifuga di stili e suoni diabolicamente riusciti, già il precedente album “Sing Along Songs For The Damned & Delirious” ci presentava un gruppo conscio della sua tecnica e delle sue forze, ora quest’orchestra luciferina ha smussato anche alcuni angoli un po’ aspri del proprio passato, e ci ha regalato questo fiore all’occhiello del 2012. Qui non c’è solo il classico trascinante swing metal d’apertura che stavolta porta il nome di “Voodoo Mon Amour”, ma troverete: danze latino-americane, musica celtica, funky anni ’70, epic/gothic metal con tanto di blast beat, scale arabeggianti, arrangiamenti gitani, psichedelia, musica lirica, fino ad arrivare alla musica elettronica con un finale a sorpresa che fa esplodere la soffusa ”Justice For Saint Mary” in un attacco di big beat senza compromessi (avete presente i The Prodigy?). Fiati e quartetti d’archi sono sempre pronti ad accompagnare ogni diavoleria che venga in mente ai DSO nel migliore dei modi, il soprano Annlouice Loegdlund si accaparra tutti i riflettori su di se sia in “Aurora”, che sembra un misto tra un pezzo lirico ed i cantati dei musical americani degli anni ‘50/’60, sia nell’epica e nera “Of Kali Me Kalibre”, forse il pezzo più violento che la band abbia scritto fino ad oggi. In compenso lascia maggior spazio per esprimersi al cantante e chitarrista Daniel Håkansson, che usa sempre la sua ugola sofferente per ricamare melodie vocali che non mancano di ricordare i Muse. Insomma, aldilà dell’effetto “Chipmunks” sulle strofe forse un po’ troppo kitsch di “Black Box Messiah”, “Pandora Piñata” non mancherà di divertirvi, stupirvi, non farvi mai fermare di battere un piede o un dito, neanche ci fosse qualcuno che abbia in mano una bambola voodoo con le vostre sembianze e si stia prendendo gioco di voi.
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Scritto durante i “momenti morti” del tour di “The Days Of Grays” che li ha portati per circa un paio d’anni in giro per il mondo, ”Stones Grow Her Name” non mancherà di dividere di nuovo i fans dei Sonata Arctica che da “Winterheart’s Guild” in poi, hanno sempre accusato qualche malessere di troppo ad ogni nuova uscita della band finlandese. Per quel che mi riguarda faccio parte di coloro che hanno appoggiato i Sonata Arctica in tutte le loro scelte proprio a partire da “Reckoning Night”, apprezzando appieno quell’album, come del resto il difficilissimo “Unia” o il darkeggiante ed orchestrale “The Days Of Grays”. Ma ora tocca a ”Stones Grow Her Name” ed è tutta un’altra storia. La scelta di fare un disco più diretto e semplice, è chiara, ma l’ascolto è inverosimilmente costellato di tanti punti interrogativi. Lo penso ascoltando ”The Day” che aldilà di un irritante suono delle tastiere così terribilmente anni ’80, di fatto ha una linea vocale nelle strofe che poco si dissocia dalla ballata “As if the world wasn’t ending”. Lo sottolineo ascoltando l’ultimo pezzo che durante il momento più soft riprende a piene mani le orchestrazioni di “Dethaura”: era forse meglio aspettare un po’ più di tempo prima di rilasciare un nuovo disco con questi palesi deja vù? Il singolo ”I Have A Right” e l’opener hanno dei buoni refrain radiofonici ed immediati, ma la loro struttura è talmente semplificata da farle risultare piatte e fin troppo ripetitive, supportate solo da una produzione superlativa e dalla capacità unica di Tony Kakko di creare cori e armonizzazioni sempre interessanti. Questo del refrain ripetuto allo stremo sarà una costante dell’album, ne esempio anche la power metal song ”Losing My Insanity”, ma l’intero pezzo sembra quasi una bonus track, fin troppo banalotta ancora la trovata melodica per una band come i Sonata Arctica. Ammetto che per fortuna ci sono cose interessanti, se magari l’hard rock di ”Shitload o’Money” non vi esalterà più di tanto, magari vi piacerà la durissima sperimentazione di ”Somewhere Close To You”, sulla scia di “Zeroes” o “The Dead Skin” dell’album precedente, oppure le atmosfere care ai Queen che i Sonata Arctica sfoggiano al meglio in ”Alone In Heaven”. L'album vuole essere costellato di buoni propositi e momenti positivisti, infatti il fiore all'occhiello arriva con il divertentissimo speed country metal di ”Cindlerbox” dove il banjo dell’ospite Peter Emberg duetta insieme al violino contro gli strumenti classici del metal. Una breve ballata da mestieranti e tornano le atmosfere un pò più classiche degli ultimi Sonata, con i due episodi della mai annunciata trilogia di “Wildfire”, il primo più prog oriented, il secondo molto più duro, con un buon botta e risposta tra i bei riff di chitarra e le tastiere futuristiche. Purtroppo nonostante questi buoni episodi ammetto che è la prima volta dopo tanti anni che ho già posato un disco dei Sonata Arctica sullo scaffale. Peccato.
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