Opinione scritta da Gianni Izzo
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Ultimo aggiornamento: 07 Gennaio, 2021
Top 10 opinionisti -
A pochi mesi di stanza da “Blood Over Intent”, i Celtic Hills, guidati sempre dal cantante e chitarrista Jonathan Vanderbilt, ci propongono un ulteriore Ep di 5 brani, intitiolato “Schräge Musik”, che non è solo il nome dato ad un tipo di mitragliatore, ma precedentemente veniva usato additando qualsiasi musica uscisse fuori dai canoni classici di questa.
Il disco viene infatti presentato come un lavoro un po’ fuori dagli schemi della musica dei Celtic Hills, un’operazione corale, piena di ospiti, tra cui gli ex membri della band, insieme a un plotone di amici di Vanderbilt, che hanno dato il loro contributo al disco.
In realtà, sebbene le due ultime tracce propongano un approccio leggermente diverso dal più classico songwriting dei Celtic, i primi 3 pezzi rappresentano esattamente ciò che ci si aspetta dai friulani. Uno speed/power metal di ispirazione teutonica e fortemente legato agli anni ’80. Messe un po’ da parte certe tematiche più epiche e vichinghe di “Blood Over Intent”, veniamo subito aggrediti dalla buona “The Guardian Of 7 Stars”, un brano dall’ottimo tiro ed un gran bel refrain, sebbene le strofe siano un po’ troppo scolastiche. Il tutto arricchito da un’intro di violino molto coinvolgente. “Warpriest” ha un incedere cupo e più priestiano, “Freewill” torna su coordinate fortemente helloweeniane, ed ancora torniamo a goderci un gran bel refrain che colpisce fin dal primo ascolto. “Acustica” non è altro che una ballata, e questa si, esce un po’ dagli schemi del metal più classico, molto semplice nel suo incedere, ha un arrangiamento minimale ma ben fatto, ed in qualche modo si rifà agli stilemi di certo rock d’annata, mentre “Big Totem” è quadrata e mischia passato e moderno, quest'ultimo dato da alcuni samples elettronici. Una bell’idea tutto sommato. Buona la prova dei musicisti e la voce graffiante e da vecchio rocker del buon Vanderbilt, sebbene alcuni passaggi vocali in simil growling tendano ad essere ancora troppo forzati e innaturali. Peccato per la produzione, che di nuovo risulta essere piuttosto casareccia, ma sicuramente migliore di “Blood Over Intent”, qui le chitarre suonano decisamente più potenti ed amalgamate al resto degli strumenti, tra i quali il basso è ben delineato e possente, soprattutto nell’opener. Complessivamente abbiamo un sound meno slegato e punkettoso rispetto ai suoni del precedente disco. L'ep non è un gioiello di innovazione, né tanto meno così "strano", ma anzi molto più compatto rispetto a “Blood Over Intent”, nel quale c'erano delle buone idee power, ma anche una certa voglia di viking alla Amon Amarth, che però risultava, per quel che mi riguarda, fuori luogo e sopratutto fuori dalle corde della band. Ecco, quello si che era abbastanza strano.
Se nel precedente disco avevo dato una sufficienza di incoraggiamento, perché i Celtic Hills, nonostante alcuni difetti da limare, sanno bene come comporre brani potenzialmente buoni, qui direi che la sufficienza è piena e meritata.
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Gli statunitensi Isenmor si presentano come band dedita al “Gewyrdelic Folc Metal” (in inglese antico: Folk metal storico), insomma ci tengono ad essere storicamente ma anche etimologicamente precisi, infatti usano l’inglese antico per descrivere il proprio folk metal band con testi che narrano storie e leggende anglosassoni e germaniche.
“Shieldbrother” è il loro primo full-lenght, e musicalmente, nonostante siano americani, sono esplicitamente votati all’extreme metal di stampo europeo, dagli Eluveitie ai primi Ensiferum. Quindi tanto melodic death, tanto folk, tanto screaming e growling, che controbilanciano l’attenzione alle clean vocals che esplodono nei bridge e nei refrain, sempre molto armonizzate e corali, quasi tutti e 7 i musicisti del gruppo infatti sono anche cantanti. La più grande particolarità degli Isenmor però è il fatto di avere ben due violinisti, che si inseguono e duettano splendidamente durante tutti i brani, spesso e volentieri rovistando nel bagaglio etnico, altre volte sostituendosi alle classiche twin guitars di matrice Maideniana, ma sparati ad alte bpm.
Talvolta più solenni, altre più goliardici (quant’è bella “Drink To Glory”!), gli Isenmor si divertono a girare continuamente intorno ad un epicentro fatto di ritmiche serrate e blast beat, donandoci sostanzialmente un album dal bel sapore epico e folkeggiante. Qualche esagerazione di troppo che non funziona c’è, l’ultima suite di più di un quarto d’ora risulta un po’ prolissa e non riesce a mantenere l’attenzione dell’ascoltatore per tutta la sua durata, anche dopo diversi ascolti. Ed il narrato della title-track, che nelle intenzioni vorrebbe dare ancor più epicità al brano, in realtà è malamente interpretato, ed in qualche modo un po’ smonta un pezzo altrimenti altamente gratificante. Ma rimaniamo comunque ad alti livelli, uno dei migliori lavori folk metal di quest’anno direi, con qualche scelta artistica un po’ imprudente, ma niente che non si possa migliorare con l’esperienza.
Top 10 opinionisti -
Questo quintetto di pirati, reclutati nel 2014, con un Ep del 2017 alle spalle, viene da una di quelle terre europee in cui il mare proprio non c’è, la Svizzera, ma è sempre bello immergersi nelle epopee piratesche e nelle atmosfere che questa folk metal a tema ripropone. Mi sarebbe piaciuto dirvi che se anche voi siete rimasti con un po’ di amaro in bocca per l’ultimo degli Alestorm, in cui la loro voglia di cazzeggio ha surclassato la bontà degli stessi brani, potevate far vostro senza remore questo “Surrender or die” dei Calarook, ma i nostri hanno voluto mettere fin troppa carne sul fuoco, 16 tracce per più di un’ora di musica, ma non sempre all’altezza delle aspettative purtroppo, quindi niente, dovremmo analizzarne pregi e difetti prima di tuffarci nei mari insieme ai Calarook. Innanzitutto dobbiamo dire che la band, conserva si i ritornelli pirateschi e l’epicità, ma son decisamente lontani dal power metal scanzonato degli Alestorm o dall'heavy più serioso degli storici Running Wild. Di base, i Calarook sono una band melodic death metal, quindi tanto growling, ritmiche serrate, fino ai blast beat, ma con una deriva e con tematiche da scorribande caraibiche. Nei testi ci sono i classici temi storici e leggendari amati da questo genere, dallo Kraken, a Davy Jones, dal Rhum alle tempeste di mare e le sue maledizioni di sorta, fino a Calico Jack con un'aggiunta di sano umorismo, vedi ad esempio "Invisible Pinapples".
Se siete curiosi, lascio a voi la scelta di vedere dove vi portano le coordinate dell'ottima intro sinfonica che ci immerge nei mari di qualche secolo fa, e poi si comincia con riff rocciosi, e due ottimi ritornelli che fanno parte delle prime schiaccia sassi “A Cursed Ship’s Tale” e “Quest For Booze”. Dopodiché l’album mostra il fianco per la prima volta con la tediosissima e fin troppo lunga “Into The Storm”, dove i ritmi rallentano, chiedono forza ad un groove metal scialbo e monocorde. Si procede per fortuna con episodi degni di nota, “Kraken’s Chest”, “Jack Rackham”, la simpatica “Kicking Flamingos”, la drammatica “Davy Jones’ Locker”, con i suoi riff di chiara matriche viking. Il violino arricchisce puntualmente le tracce, ed anche se alcune passano pressoché inosservate, l’eco delle sue melodie si lascia memorizzare in fretta. Direi che se i Calarook avessero limitato il disco, proponendo non più di una decina di canzoni, scegliendo solo le migliori del lotto, staremmo parlando di un ottimo album, sicuramente più fruibile, purtroppo hanno scelto altro, il risultato è una sufficienza piena, sperando che la band sia più accorta in futuro e non esageri nuovamente, almeno che non abbia in mano dei brani potenzialmente irreprensibili. Si tratta di un autoproduzione, ma i suoni sono più che discreti, ci sarebbe piaciuta più amalgama, ma va bene così.
Ultimo aggiornamento: 29 Ottobre, 2020
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Formatisi nel 2003, i canadesi Protokult si presentano come una pagan folk metal band, che passa solerte attraverso i vari sottogeneri del metal, dall’heavy più classico, al power, fino al melodic death che è alla base della maggior parte della loro produzione, anche se il vero punto forza del gruppo è rappresentato dalla cantante e arpista Ekaterina Pyatkova che affianca il cantante, polistrumentista e fondatore della band Martin Drozd.
“Transcending The Ruins” è il terzo lavoro della band, un disco che rappresenta tutto l’armamentario musicale dei Protokult, non esaltato degnamente nei suoi migliori momenti, da una produzione un po’ troppo impastata e retrò, peccato.
Il meglio della proposta arriva verso la metà di “Feed Your Demons”, esattamente con l’entrata da protagonista della Pyatkova, che dà la prima virata decisiva al sound dei nostri che in verità fino a questo momento risultano un tantino piatti e fini a se stessi. La vocalist introduce i canti slavi che hanno fatto la fortuna anche dei momenti più accessibili dei russi Arkona. Si passa quindi ad un ottimo brano in pieno stile power metal anni ’80, anche questo forse un po’ retrò per i tempi, ma non possiamo dire che “1516” non sia comunque un’ottima prova musicale.
Con “Oy Kanada” si passa invece ad uno dei momenti più folk del disco, pieno di grinta e di cori immediatamente memorizzabili. C’è tempo anche per un salto nella musica classica con brani come “Wenches” che ha un inizio in stile musical, per poi farci ascoltare la voce della vocalist anche in versione lirica. “Rusalka”, “Troubled Lad” rappresentano altre degni punti a favore dei canadesi, che però inciampano nuovamente nelle monotonia sul finale, a causa soprattutto di un brano fin troppo allungato come “Dead New World”.
“Transcending The Ruins” è un buon lavoro, ci mostra dei musicisti preparati, ma che pecca forse di qualche saliscendi di troppo e, di qualche momento scoraggiato da una forzata prolissità, ma custodisce in se diversi episodi degni di nota.
Ultimo aggiornamento: 12 Ottobre, 2020
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L’omonimo album degli americani Winter Nights, ha avuto un processo parecchio lungo, basti pensare che “An Endless Apocalypse”, la loro precedente release è uscita nel 2015 ed è da allora che i fratelli Farfan hanno cominciato a scrivere e registrare i brani di questo disco. Infatti alcuni pezzi sono stati proprio registrati già qualche anno fa, mentre alcuni sono stati aggiunti ultimamente. Ma chi sono i Winter Nights? Sono nati nel 2007 a Brooklyn grazie ai due fratelli, entrambi chitarristi e vocalist, Efrain e Jeremy Farfan. Nell’immaginario dei testi, così come il suggestivo artwork, e lo stesso moniker, sembrano essere una band dal forte richiamo viking/pagan, quindi dediti ad un certo tipo di musica che nell’accezione conosciuta ai più potrebbe ricordare gli Amon Amarth, band che appare tra le ispirazioni dei Winter NIghts. Ma per quanto loro stessi si definiscano una melodic death metal band, bisogna prendere il tutto con le pinze. Il loro sound si incastra molto bene con il primissimo melodic death, quando il death era ancora preponderante rispetto ad un certo approccio più epico e catchy. Quindi questo disco omonimo è innanzitutto un martellante ed oscuro lavoro death metal, con qualche apertura melodica, ma sempre molto sinistra, inquieta. E' più facile ritrovarsi con rallentamenti dai tratti malinconici e doom, o tra fredde sfuriate dalle reminiscenze black, che fantasticare di battaglie e paesaggi alla Game Of Thrones. Quindi siete avvertiti, se amate il death dei primi anni novanta, dalle atmosfere particolarmente oscure, con qualche leggera inflessione melodica, i Winter Nights fanno sicuramente per voi; se siete abituati ad ascoltare melodie alla Iron Maiden e Manowar ma con il growling, in questo caso, vi sentirete abbastanza spiazzati.
Nonostante il fatto che le canzoni siano state registrate in periodi differenti, il sound risulta compatto, non siamo di fronte ad una produzione eccezionale, ma è abbastanza buona da farci godere della potenza di pezzi come l’opener, o della cattivissima “Withdrawals”. In generale siamo di fronte ad una prova sufficiente, non particolarmente originale, ma sincera nel suo voler sottolineare l’amore per il metal estremo, fatto con gusto, a cui andrebbe aggiunta giusto qualche limata qua e là per rendere alcuni passaggi un po’ meno scolastici e poter davvero pensare in grande.
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Il quartetto di Boston ha debuttato quest’estate con il potente “Virtues Of The Vicious”. Nati da un’idea del chitarrista Jon Morency e del vocalist già in forza di Ross The Boss, Marc Lopes, i Let Us Pray sono una macchina schiaccia sassi che miscela un po’ tutto, da un thrash molto tecnico e moderno, fino all'heavy classico alla Judas Priest, ma anche sfuriate death, aperture melodiche sempre molto oscure e graffianti. Insomma non vi aspettate qualcosa di epico o classico in stile Manowar, qui siamo di fronte ad una band moderna che vi scaraventerà addosso un tripudio di energia e sostanza.
All'interno del disco ci sono parecchi ospiti: Jonathan Donais degli Anthrax, Chlasciak (già con Helford e Testament), Jimi Bell degli House Of Lords, Matt Fawcett degli Sinate, fino al compianto Oli Herbert (All The Remains), senza dimenticare il batterista Yanni Sofianos degli Obsession.
Insomma “Virtues Of The Vicious” è un’opera in grande dove ogni strumentista ci stuzzica con la sua bravura, ma è ovvio che la maggior parte dell’attenzione va proprio a Marc Lopes, libero da ogni costrizione, esprime tutte le declinazioni delle proprie corde vocali, dalle parti pulite, agli acuti Helfordiani, tra voci graffiate e growling, non sbaglia davvero un colpo. I brani sono forsennati, estremamente dinamici, uniscono il metal dei grandi del passato al metal più moderno, con qualche parentesi persino industrial. La produzione è molto buona, si sentono tutte le sfumature di ogni brano, senza togliere niente alla potenza del medesimo. L’opener è anche la regina dell’intero album, perfetto equilibrio tra le ritmiche telluriche e la melodia, ma abbiamo che l’immediata “Pray”, la title-track, l’oscura e più “calma” “In Suffering”, fino a sfociare nel delirio di “Halo Crown” e “Murder Thy Maker” che sono annoverate tra gli episodi più violenti del disco. In tutto questo i Let Us Pray ci sorprendono con arpeggi pianistici che escono fuori da riff dove non ti aspetti certo il dolce suono di un pianoforte. Forse l’unica traccia un po’ più difficile e che non mi ha lasciato molto è la conclusiva “And Hell That Followed…”, minore come riuscita, ma semplicemente perché abbiamo pezzi di alto livello per tutta la durata di questo “Virtues Of The Vicious”. Complimenti!
Ultimo aggiornamento: 14 Settembre, 2020
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E’ stato bello ascoltare dopo tanto tempo, quello che considero l’ultimo baluardo musicale degli In Flames. Seppure per i più puristi, anche questo disco è stato considerato una sorta di tradimento musicale, l’ho sempre trovato coerente con quanto fatto fino ad allora dalla band svedese. Una buona via di mezzo, tra la voglia di mainstream e le proprie radici musicali, con un sacco di classici e buonissime tracce: dall’opener, a “Pinball Map”, dalla title-track a “Only For The Week”, “Square Nothing”, “Brush The Dust Away”…
Lo sappiamo che gli In Flames hanno optato per una metamorfosi radicale del loro sound e della loro immagine, e forse i fans più giovani neanche conoscono come suonavano gli In Flames fino al 2000. Festeggiare i vent’anni di “Clayman” per mostrare proprio agli ultimi fans qualcosa di importante del proprio passato, potrebbe pure valere una riedizione del disco, che tra l’altro ha anche una copertina più accattivante rispetto a quella originale.
Il voto non è certo riferito quindi al valore di “Clayman” la cui bontà rimane intatta ed ancora estremamente piacevole, nonostante il ventennio che lo separa dalla propria nascita.
Purtroppo però il lavoro è stato “arricchito” da ri-registrazioni dei brani più conosciuti del disco, ed un inedito strumentale, di quelli da un ascolto e approvazione, ma senza nessuna possibilità di trovare la voglia vera di riascoltarlo. Riferimento del titolo a Brahms, “Themes And Variation…” è un medley di “Clayman” riproposto da violoncelli.
Le quattro canzoni ri-registrate dalla nuova line up, a livello compositivo cambiano leggermente, qualche tocco di batteria, qualche taglio, sicuramente la voce mezza disastrata del vecchio Friden non aiuta, ma in realtà le tracce seguono complessivamente le loro alter ego più anziane. E’ il mix e mastering che però le massacra totalmente. Per un attimo ho pensato che le mie casse si fossero rotte. Il sound è tremendamente ingolfato, le chitarre abbassate ed impastate, la batteria sembra suonare dalla camera accanto. Sembra che una scimmia si sia messa a mixare i brani, livellando a casaccio i suoni. Inascoltabile, davvero. Quasi nessuna band tende a cavarsela nel riproporre i propri pezzi in una versione differente, pensavo che le cose peggiori in questo senso siano state pubblicate dai Manowar, ed invece no, gli In Flames si prendono lo scettro della peggior cover band di sé stessa. “Clayman” per me rimarrà sempre un signor album, le cose “nuove” aggiunte a coda del disco sono degne dell’indifferenziata.
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Formatisi nel 2017, i romagnoli Kalahari, dopo qualche demo ed Ep, sfornano questo mini concept di 5 canzoni intitolato “Theia”.
Fondamentalmente ci propongono un metal moderno, patinato, tra galoppate metalliche proprie del metal più classico, fino ad arrivare alle ritmiche potenti del thrash/groove metal odierno.. Ci sono diversi momenti spinti, ma al primo piano rimane sempre molta melodia. Una melodia sentita e drammatica che presenta al meglio il tema apocalittico del disco, che utilizza la mitologia greca come metafora della triste epoca che stiamo vivendo. Le 5 canzoni hanno degli approcci abbastanza variegati, ci sono pezzi “in your face” come “Zombie Night”, ma anche più articolati, dove si passa soavemente tra parti acustiche e dei bei soli di chitarra elettrica come in “I Am The Mountain”. La grintosa title-track è tra le mie preferite, ma non ci sono particolari cali di tensione, se non laddove l’attenzione per il groove diviene ossessiva, ed i ritmi cadenzati diventano un po’ troppo ridondanti. La produzione è ottima, la voce eclettica del cantante Nicola Pellacani altrettanto. Ma tutti i musicisti mostrano un buonissimo grado di tecnica, e rendono “Theia” un buon primo assaggio in grande stile, di questa nuova realtà italiana. Aspettiamo di vedere come si evolverà il songwriting dei Kalahari nel tempo, e se la band riuscirà a mantenere alto il livello di ispirazione anche lungo un album intero. Per ora il risultato è molto soddisfacente.
Ultimo aggiornamento: 11 Agosto, 2020
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Il 2019 ha sancito 15 anni di carriera per la power metal band tedesca. 15 anni in cui i Powerwolf sono sicuramente cresciuti in notorietà, grazie ad un songwriting deciso, tremendamente catchy, e che si allontana dal classico power metal, sia per la volontà di portare avanti un’immagine molto gotica, nel vestiario quanto nelle canzoni, sia per il vocione di Attila Dorn, rappresentante sui generis del particolare vessillo oscuro dei Powerwolf.
A me piacciono molto, nonostante palesano ultimamente qualche pecca, un po’ ridondanti sia nei giri di chitarra, nei titoli, nei testi.
Non ci pensano minimamente di fare capolino fuori dalla propria comfort zone, e come succede anche ai Sabaton, secondo me, il loro nome è fin troppo pompato dalla label, con uscite su uscite che li tengono perennemente sul mercato, ma che al contempo un po’ lo ingolfano.
Ed infatti non ci si poteva fa sfuggire un buon anniversario per dare in pasto ai fans, un best of, ed un ennesimo live come secondo cd. Certo, tagliare le ultime 4 canzoni del “Live Sacrament”, solo per aggiungerle in un’altra edizione ancor più costosa, è stata una mezza carognata per quel che mi riguarda, ma detto questo, andiamo al sodo.
Il "Best Of The Blessed" è una raccolta di tutto rispetto, ovviamente i più grandi successi della band ci sono, poi a seconda dei gusti, per qualcuno mancherà sempre qualche pezzo iconico, e ci sarà qualcuno che avrebbe voluto evitare di mettere qualche brano, ma siamo nel pieno delle regole, non si può accontentare tutti. I Powerwolf hanno poi deciso di svecchiare qualche brano, ri-registrandolo nuovamente, la differenza si sente soprattutto con “Kiss Of The Kobra King”, portata di nuovo a lucido, per il resto, le ri-registrazioni sono ancora più compresse e arricchite di orchestrazioni e cori, forse non se ne sentiva il bisogno, anche perché la produzione di molti brani è talmente recente che era ottima già così. A questo punto mi sarei concentrato sui pezzi più vecchi e basta, invece vediamo che i Powerwolf han rimesso mano sopratutto sugli ultimi successi della loro discografia.
Il secondo cd ci presenta nuovamente la band in versione live, la loro esecuzione è ottima, il loro dialogo col pubblico anche, spero di riuscire a vederli dal vivo, perché il coinvolgimento è assicurato.
E’ ovvio che questo nuovo prodotto sia un’ennesima mossa commerciale, forse potrà interessare qualche fan che vuole collezionare ogni singola uscita della propria band preferita, ma visto che i brani sia nel best of, sia in versione live, alla fine sono stati dati già abbondantemente in pasto al pubblico già con precedenti produzioni, salvo un paio di canzoni qua e la, direi che “Best Of The Blessed” è un'uscita dedicata sopratutto a chi ancora non conosce bene i Powerwolf, sicuramente ottimo per farsi un’idea di come suonino dal vivo ed in studio. Per noi altri, a mio avviso, abbiamo già tutto ciò che ci serve della band, io per primo salterò quest'uscita ed aspetterò volentieri il prossimo nuovo album.
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Siamo giunti all’ottava fatica nella carriera quindicennale degli Ensiferum. Dopo un non memorabile album come “Two Paths”, e l’uscita di Netta Skog dal gruppo, i finlandesi hanno arricchito la propria line up con il tastierista e, soprattutto prodigioso vocalist, Pekka Montin, già in forza ai Judas Avenger. Ovviamente, e per fortuna, le harsh vocals del grande Petri Lindroos non scompaiono, ma certo è che gli Ensiferum vogliano continuare la strada intrapresa già negli ultimi due album, cioè aumentare le clean vocals, e spostarsi sempre di più dal pagan metal delle origini, verso un misto tra melodic death e power metal dalla forte caratterizzazione folk. “Thalassic” è il primo concept del gruppo finlandese, un concept su miti e leggende legate al mondo marino.
Le canzoni ci sono, e la qualità che porta alle clean vocals il nuovo Pekka Montin, non è da sottovalutare. La sua è una voce cristallina, ma con l’aggiunta di ottimi acuti graffiati a la Eric Adams, che aggiungono quel quid in più che serve ai brani. Brani ormai stemperati dall'irruenza battagliera che avevano fino a qualche tempo fa, e che forse sarebbero stati fin troppo “eleganti” per i nostri, se non fosse stato per l'interpretazione di Pekka Montin.
Ma va bene, l’importante è aver ovviato alle grosse difficoltà delle linee vocali in clean, palesemente riscontrate soprattutto nel precedente “Two Paths”. Non siamo più nel periodo d’oro della band, e neanche in quello argentato di “One Man Army”, ma ci possiamo ritenere soddisfatti di questo nuovo disco. Dopo un'opener sinfonica molto evocativa, gli Ensiferum ci sbattono in faccia subito il singolo “Rum, Women, VIctory”, ottimi riff, bel refrain, ritmiche serrate e belle cavalcate a fare da intermezzo, un classico preannunciato.
“Andromeda” è più cadenzata, buona heavy song dall'atteggiamento epico, il sostanziale appoggio di Montin, si fa più presente in questa canzone, e continuerà a crescere nelle altre. Gli Ensiferum gli confezionano praticamente un paio di pezzi tutti per lui, i toni metal-western di “The Defence Of The Sampo” e l’epic metal di una “One With The Sea” che rischia di essere prolissa e fin troppo romantica, ma alla fine gli Ensiferum riescono a darle giustizia con un po’ di mestiere.
Su “Run From…” si torna a fare sul serio, non sarà indimenticabile, ma il combo delle vocals si da il cambio continuamente con estrema precisione su un bel up tempo molto furbo, che riesce a rimanerti in testa fin dal primo ascolto. “For Sirens” sembra uscita dalla penna degli ultimi Amorphis, mentre gli Ensiferum si danno al classico brano da pub con la folkettissima “Midsummer Magic”. Il finale è ben congegnato con “Cold Northland”, inizio drammatico e rabbioso, che sfocia in un blast beat con riff viking, sul quale esplode il resto del brano.
No, non sono gli Ensiferum dei primi 4 album, ma con un po’ di mestiere, un po’ di ispirazione, i nostri hanno saputo mettere su un disco dignitoso sotto ogni aspetto, ed hanno dimostrato di aver ritrovato la loro via, che sembrava un po' persa solo un paio di anni fa.
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