Opinione scritta da Daniele Ogre
2755 risultati - visualizzati 41 - 50 | « 1 2 3 4 5 6 7 ... 8 276 » |
#1 recensione -
In quarant'anni di carriera, gli americani Deceased hanno col tempo raggiunto lo statu di band di culto nel panorama underground Metal, statunitense in primis ma non solo, dato che la malsana creatura di Kinglsey "King" Fowley ha uno stuolo di fans pressoché ovunque. Quarant'anni in cui l'act di Arlington, Virginia, è rimasta sempre fedele alla sua mistura di Death, Thrash e Heavy Metal sin dai tempi del seminale "Luck of the Corpse", un mix letale di sonorità che abbracciano quelle di Autopsy, Master, Death, Slayer, Rigor Mortis, Celtic Frost, Iron Maiden... il tutto con la sguaiata e rabbiosa voce di Fowley a far da maestro di macabra cerimonia. Deceased che con questo "Children of the Morgue" - appena rilasciato da Hells Headbangers Records - toccano quota undici album, senza che una singola volta si sia vista diminuire la loro mefitica, sulfurea, morbosa aura. Se si conosce insomma la discografia di Fowley e soci, si sa già prima ancora di premere il tasto play cosa sta per riversarsi fuori dalle casse: un approccio trice e diretto fatto di ritmiche serrate e colate laviche di riff, passaggi da moshpit selvaggi e refrain fatti per esaltare i cori del pubblico - quello della title-track su tutti -; un'ora circa di selvaggio Death/Thrash/Heavy che ha come tema fondante la morte e che passa da tracce lunghissime (ma mai noiose) come la già citata title-track, "The Grave Digger", la tetra "Fed to Mother Earth", ed altre dalla durata 'normale' come la terremotante "Terrornaut" ed "Eerie Wavelengths", fino a brevi intermezzi strumentali come la cupa "Turn to Wither". Tutto in quest'album ha impresso a fuoco il marchio Deceased, cosa questa che non potrà non strappare un sorriso compiaciuto ai tanti fans della maligna creatura della Virginia. Sì, probabilmente "Children of the Morgue" eserciterà più fascino sui più attempati metallari incalliti, ma diciamocelo: anche le nuove generazioni avrebbero di che ascoltare i Deceased per poter vedere com'è suonare Metal della vecchia scuola con tutti i crismi del caso. Insomma, manco a dirlo i Deceased non scontentano nessuno e tirano fuori l'ennesima cannonata di disco: una garanzia, da ormai quarant'anni.
#1 recensione -
Puntuali come un orologio svizzero, a due anni dal precedente lavoro tornano alla carica i texani Pneuma Hagion, duo Death Metal formato dal cantante/chitarrista/bassista Ryan Wilson (Intestinal Disgorge, The Howling Void tra i suoi tanti progetti) e dal batterista Shan Elwell (Intestinal Disgorge); due musicisti insomma molto impegnati nell'underground estremo statunitensi che puntano con questo progetto ad un Death Metal dalle coordinate stilistiche facilmente riconducibili in primis ai Morbid Angel del periodo "Formulas Fatal to the Flesh" / "Gateways to Annihilation": cupo, asfissiante, con una doppia cassa arrembante che stende un impetuoso tappeto sonoro su riffoni corposi e granitici. Immolation ed Incantation sono altre influenze facilmente riscontrabili, ma i Nostri non disdegnano neppure rapidi passaggi di Black/Death della scuola canadese. Formato da nove pezzi che non superano mai i tre minuti di durata, "From Beyond" è un lavoro essenziale in cui, come si evince per l'appunto dalla breve durata dei brani, i Pneuma Hagion sostanzialmente badano al sodo, con composizioni che non brilleranno certo per originalità, ma che allo stesso tempo risultano essere efficaci e che, se si ha ascoltato i precedenti due album del duo texano, sono ampiamente riconoscibili e riconducibili al duo texano. Pezzi come i singoli "The Temple Fires" e "Harbinger of Dissolution", così come "Those Who Obey" - a mani basse quella che abbiamo preferito del disco - e "The Light of Long-Dead Stars" faranno sicuramente la felicità dei tantissimi fans dello US Death Metal di stampo più classico, brani ricchi di groove spacca collo e dalle mefistofeliche e claustrofobiche atmosfere. Un disco dall'aura di costante, malevola minaccia che saprà conquistarvi in nemmeno 25 minuti di durata totale. Insomma, un altro colpo andato decisamente a segno per la nostrana Everlasting Spew; e se per l'appunto siete amanti di Morbid Angel e compagnia, l'acquisto di "From Beyond" è particolarmente caldeggiato.
#1 recensione -
Sono passati tanti anni sotto silenzio, ma alla fine ne è valsa la pena: a sette anni da "The Forest Seasons" (meh...) e ben dodici da "Time I", i finlandesi Wintersun tornano con il seguito dell'album del 2012, "Time II". Una dozzina d'anni in cui i Wintersun hanno preferito prima rilasciare un lavoro mediocre - "The Forest Seasons" per l'appunto - ed in cui i membri sono stati in altre faccende affaccendati, tra Jari Mäenpää e l'apertura del suo studio, Jukka Koskinen e Kai Hahto entrati nei Nightwish, e Teemu Mäntysaari andato alla corte di Mustaine nei Megadeth. Ma alla fine eccolo qui, il seguito di "Time I", disco che all'epoca dell'uscita suscitò pareri contrastanti per il suo essere estremamente eterogeneo, ma che in fin dei conti è stato col tempo rivalutato quasi da tutti. Ecco, nonostante la dozzina d'anni tra l'uno e l'altro, se si ascolta "Time II" subito dopo il primo capitolo si può notare come stilisticamente e concettualmente questa nuova fatica ne sia il perfetto seguito. Anche qui troviamo la presenza di due strumentali, la prima delle quali è la lunga intro "Fields of Snow", pezzo che c'introduce - per l'appunto - al mood orientale del disco, rappresentato anche dall'albero di ciliegio in copertina; l'altra strumentale è l'atmosferica "Ominous Clouds", mentre il resto della tracklist è formao da quattro lunghissimi brani in cui i Wintersun riabbracciano le tante sfumature di "Time I", a partire da quel Power/Melodic Death con sfumature sinfoniche da cui si ramificano influenze Progressive, Viking, Black/Death e Folk. Ed ancora una volta i Nostri riescono a mettere insieme questo maelstrom sonoro con una certa fluidità, senza insomma che il tutto risulti essere un mappazzone di generi messi insieme alla bell'e meglio. Perfetta fotografia dell'album è "The Way of the Fire", in cui sono racchiusi tutti, ma proprio tutti gli elementi che contraddistinguono "Time II": rapide sfuriate, incrocio di voci scream/clean, atmosfere ora malinconiche ora più rabbiose, pomposi passaggi sinfonici ed un solo di gusto malmsteeniano. Altrettanto bella è la seguente "One with the Shadows", brano dal mood più malinconico ma che al contempo esplode come tempesta in patterns più tipicamente Black/Death prima di un refrain più arioso e delle arie epiche. Abbiamo poi "Storm", la canzone più cupa ed a suo modo estrema del lotto: interessante, ma forse una sforbiciata consistente ai suoi 12 minuti di durata avrebbero giovato maggiormente all'economia generale del pezzo; e si chiude poi con l'altro highlight di "Time II", quella "Silver Leaves" che dopo aver seguito il mood vario del disco si chiude con una calma che dà precisamente la sensazione di quel respiro pieno dopo essersi rimessi in contatto con la natura dopo un violento temporale, pochi, significativi raggi di sole dopo tanta oscurità ed un cielo nero. Probabilmente dovremo definitivamente abituarci a tempi lunghi tra un lavoro e l'altro dei Wintersun - Megadeth e Nightwish sono due bands titaniche che richiedono il loro tempo -, ma se alla fine il risultato è qualcosa di riuscitissimo come "Time II" allora ce lo faremo andar bene. Dal canto nostro, insomma, acquisto consigliato. Così come consigliamo di ascoltare i due "Time" uno in fila all'altro.
Ultimo aggiornamento: 30 Agosto, 2024
#1 recensione -
In quasi vent'anni di carriera, questo "Opera" è probabilmente l'album più importante nella discografia dei Fleshgod Apocalypse. Ora, sarebbe facile dire che lo è per via di quanto successo a Francesco Paoli con l'incidente sportivo che lo ha messo ai box per un po' di tempo - episodio questo che comunque si lega a doppio filo a quest'album, come si può vedere dai testi -, ma non è solo questo. Con il loro sesto album, i perugini sembrano aver trovato la loro dimensione stilistica "finale": "Opera" è infatti da un lato il lavoro più violento e brutale di sempre dei Fleshgod, con uno Eugene Ryabchenko dietro le pelli che macina blast beat a profusione, ma dall'altro risulta essere anche quello più riuscito sul piano dell'orecchiabilità, come possono ampiamente dimostrare i singoli apripista presentati che hanno dalla loro una dimensione sicuramente più "commerciale" che in passato. Una maturità stilistica che è arrivata sicuramente passando anche da momenti difficili, ma per l'appunto anche da altri fattori altrettanto importanti: a partire dall'ennesimo cambio in formazione dopo l'uscita di uno dei fondatori - Paolo Rossi -, con passaggio del Paoli al basso oltre che alla voce e, soprattutto, con Veronica Bordacchini che oltre ad occuparsi delle voci liriche prende in carico i passaggi di voce pulita; ed è forse questo il passaggio fondamentale che ha portato i Fleshgod Apocalypse ad avere sonorità sì sempre ben radicate nel loro Death Metal ipertecnico di natura sinfonica, ma anche, come dicevamo, sicuramente più accessibile che in passato, cosa questa che potrà portare i Nostri ad ampliare il range di ascoltatori. Basta anche solo ascoltare come funzionino perfettamente i singoli "I Can Never Die" e "Pendulum" (meraviglioso il video di quest'ultima, opera di Sanda Movies). Se poi i Fleshgod hanno sì puntato su un approccio più diretto e brutale, dall'altro si può notare come molto spesso facciano maggiormente capolino influenze che nei lavori precedenti rimanevano più sullo sfondo, e ci riferiamo a fraseggi melodici di pura scuola svedese (Hypocrisy su tutti, ma non dimenticheremmo At the Gates e primi In Flames) che donano ad "Opera" una ancor più maggiore ariosità. A suggellare il tutto, poi, la solita produzione bombastica, le sfarzose orchestrazioni del Ferrini e Fabio Bartoletti in stato di grazia con i suoi assoli. Certo, chi segue i Fleshgod dagli inizi - il sottoscritto ad esempio li ha letteralmente visti nascere (ero presente in una chat IRC quando Paolo Rossi disse per la prima volta il nome dell'allora loro nuova band) - avrà bisogno di qualche ascolto in più per abituarsi al non sentire più la voce di Paolo e di avere invece al suo posto Veronica, ma è anche vero che "Opera" è scritto e suonato talmente bene che il processo risulta essere più veloce di quanto si pensi. Segnaliamo, oltre i quattro singoli, altre due perle particolarmente riuscite come l'epicissima "At War with My Soul" e "Per Aspera ad Astra", uno dei migliori testi scritti dai Nostri ad oggi. Al loro sesto album, i Fleshgod Apocalypse entrano in una nuova, più imponente dimensione: se già in passato si erano di diritto guadagnati il loro posto tra le più grosse realtà della scena estrema mondiale, oggi possiamo affermare senza tema di smentita che Francesco Paoli e soci possono essere annoverati tra le bands che hanno raggiunto la vetta dell'Olimpo metallico. Ed ascoltando "Opera" ci si rende conto che non poteva essere altrimenti.
#1 recensione -
Inarrestabili come da trent'anni a questa parte, ecco tornare i Nile di mr. Karl Sanders con il loro decimo studio album "The Underworld Awaits Us All", che segna anche il debutto della titanica band di Greenville per Napalm Records. Un disco che segna anche gli ennesimi nuovi ingressi in formazione - Zach Jeter (Olkoth, Lacherous Nocturne) a voce e chitarre, Dan Vadim Von (Morbid Angel) al basso - primo indizio che non troveremo qui proprio una certa continuità con il precedente - ed ottimo - "Vile Nilotic Rites"; ascoltando le undici tracce che compongono questa nuova fatica dei Faraoni del Death Metal, si ha sempre come la sensazione che questo disco sia mancante di qualcosa, vuoi per una gestazione per forza di cose un po' travagliata, vuoi anche perché i Nile di oggi sembrano sospesi tra la volontà di rinnovarsi ed il riciclare soluzioni forse un filini abusate. Ma si diceva di una certa volontà di rinnovarsi, cosa questa che traspare da un lavoro chitarristico più in linea col Technical Death odierno: paliamoci chiaro, l'approccio brutale a particolarmente articolato - marchio di fabbrica del songwriting di Sanders - è sempre lì, ma se in passato i Nile colpivano con riff estremamente cupi e granitici ed atmosfere asfissianti, oggi li ritroviamo con sonorità più vicine a quanto possiamo ascoltare da gruppi come gli Hideous Divinity, tanto per fare un esempio di chi maneggia questa materia con estrema perizia. In sostanza, "The Underworld Waits Us All" non è affatto un brutto disco, ma chi è abituato ad un certo mood da parte dei Nile avrà bisogno di più ascolti per abituarsi ad un lavoro in cui viene spesso meno anche quella claustrofobica atmosfera da Antico Egitto, fatta eccezione per la breve strumentale "The Pentagrammathion of Nephreb-Ka". Ci sono sì episodi che funzionano a dovere - la breve quanto letale "To Strike with Secret Fang" -, ma nel complesso si ha quasi sempre la costante sensazione che quest'album sia alquanto macchinoso e che dopo trenta lunghi anni di carriera che hanno portato i Nile ad essere tra le maggior realtà dell'intero genere, qualche idea cominci a venir meno. Poi sia chiaro, stiamo comunque sempre parlando dei Nile e non sarà certo un album nel complesso "solo" buono a minarne il retaggio: basta anche solo il nome per incutere il rispetto che si sono meritati queste tre decadi.
#1 recensione -
E' già arrivato il momento di fare le cose in grande per gli In Aphelion: la band Black/Death svedese-olandese di Sebastian Ramstedt dei Necrophobic dopo un EP di debutto ed un primo album per Edged Circle Productions, approda per questo nuovo "Reaperdawn" sotto la potente, potentissima ala di Century Media Records, che ha rilasciato il secondo full-length dei Nostri agli inizi di questo mese d'agosto. I ritmi di lavoro di mr. Ramstedt sembrano non prevedere pause insomma, se è vero com'è che tra Necrophobic ed In Aphelion il suo lavoro di composizione è ormai a getto continuo; c'è però il problema che le due entità cominciano a somigliarsi un po' troppo, e non solo perché dopo lo stesso Sebastian ed a Johan Bergebäck si è aggiunto un altro membro dei Necrophobic - il bassista Tobias Cristiansson -. Vero, la matrice Black/Death alla fine quella è, ma i primi due lavori degli In Aphelion risultavano avere una maggior ricercatezza melodica e dei toni maggiormente epici rispetto alla band madre, cosa che oggi non riscontriamo in "Reaperdawn". Che poi parliamoci chiaro: questo non è affatto un brutto disco, anzi è un lavoro Black/Death scritto, suonato e prodotto con tutti i crismi e sicuramente accenderà immediatamente l'interesse dei fans dei vari Necrophobic, Watain e Naglfar, ma c'è per l'appunto la questione che il tutto sembri suonare un po' troppo 'standardizzato' rispetto il buonissimo "Moribund", disco in cui i Nostri hanno saputo sapientemente inserire patterns di Metal classico con chiari rimandi ai Mercyful Fate, mentre qui il loro sound propende per mefistofeliche rasoiate Black/Death e Black svedese. In ogni caso, "Reaperdawn" è un disco che si lascia ascoltare e che mette in mostra musicisti che sanno maneggiare questa materia con estrema perizia; gli amanti di queste sonorità avranno sicuramente, insomma, pane per i loro denti.
Ultimo aggiornamento: 20 Agosto, 2024
#1 recensione -
Dopo essersi dati a qualche sperimentazione (vedasi l'EP/album "Exhumed Information" e, soprattutto, la recente collaborazione "Cyberflesh"), i casertani Fulci tornano a quello che sanno fare meglio: Death Metal brutale, diretto, stracarico di groove e contaminazioni Hardcore... in pieno stile NY insomma- E lo fanno debuttando su 20 Buck Spin con il loro nuovo album "Duck Face Killings", che come il seminale "Tropical Sun" (ispirato a Zombi 2) è un concept su un film del Godfather of Gore di cui fieramente portano il nome: il morboso e violento film del 1982 Lo Squartatore di New York. I Fulci si presentano tra l'altro con sostanziali novità, dato che ora sono in formazione completa a cinque elementi con l'ingresso definitivo in formazione di una seconda chitarra, Ando Ferraiuolo, e del batterista Edoardo Nicoloso (già negli Haddah). E possiamo notare sin dall'opener "Vile Butchery" che questa line up implementata dona alla band casertana una maggior dinamicità; non mancano di certo tutti gli elementi che hanno reso i Fulci uno dei gruppi di punta del panorama underground Death Metal contemporaneo, a partire dalle immancabili influenze di pesi massimi come Cannibal Corpse, Mortician e Dying Fetus, e parliamo quindi di un riffingwork estremamente roccioso ed efficace impreziosito da divagazioni melodiche che in taluni frangenti ("Morbid Lust", "Maniac Unleashed") danno un più ampio respiro a composizioni in cui impera un pesantissimo groove che, come sempre, metterà a durissima prova le vostre vertebre cervicali. Come non manca una certa dose di venature Hardcore - da sempre nel bagaglio tecnico dei Fulci - o deviazioni verso altri lidi, vedasi il Rapcore (con chitarroni Death Metal, sia chiaro) alla Body Count di "Knife", in cui abbiamo la presenza come ospite del rapper Lord Goat. Ora come ora non ce la sentiamo di fare un paragone tra questo "Duck Face Killings" e l'ormai mitico "Tropical Sun", il disco che ha consacrato i Fulci a livello mondiale: questa è cosa che si potrà magari fare tra qualche mese, una volta che quest'ultima release si sia 'sedimentata'; di certo c'è che, come dicevamo, l'avere una formazione completa in tutti gli elementi ha reso il sound dell'act campano ancor più efficace, come dimostrano i due ottimi singoli "Rotten Apple" e "Fucked with a Broken Bottle", così come "Stabbed, Gutted and Loved", "Morbid Lust", "Human Scalp Condition"... ma sono titoli che diamo quasi a caso, visto che l'intero "Duck Face Killings" ci mostra i Nostri in uno stato di forma sontuoso. Tutto quello che i Fulci hanno ottenuto sinora (a livello di notorietà, di tour da headliner in Nordamerica, presenza in importanti festival, fino ad arrivare alla loro prossima partecipazione al Devastation of the Nation con Morbid Angel, Suffocation, Uada e Mortiferum) è più che ampiamente meritato: e "Duck Face Killings" è l'ennesima riprova di come la band degli ex-Necrophilism Fiore e Dome si sia guadagnata il proprio posto nell'Olimpo della scena Death contemporanea.
Nota a margine: l'album si chiude con la strumentale "Il Miele del Diavolo", titolo di un altro film del Maestro Lucio Fulci del 1986; che sia una preview del prossimo concept?
#1 recensione -
Terzo album per i 'brutallari' austriaci Monument of Misanthropy, che con "Vile Postmortem Irrumatio" - edito da Transcending Obscurity Records - ci offrono un altro concept album sulla vita e le "opere" di un serial killer: protagonista di quest'opera è Ed Kemper, con il mastodontico serial killer americano che campeggia anche sull'artwork opera di Daemorph Art. Sono presenti ovviamente estratti delle interviste del gigante occhialuto ("First Time It Makes You Sick to Your Stomach", "Why Did You Keep Their Heads", "Oh, I Suppose You're Gonna Want Sit Up and Talk All Night Now"), mentre sul piano musicale la band di Vienna, coadiuvata alla batteria da Eugene Ryabchenko dei Fleshgod Apocalypse, non si discosta da quanto potuto ascoltare sul precedente "Unterweger", ossia un Brutal Death dal forte impatto groove e dalle accelerazioni assassine, con il tutto supportato da un buonissimo livello tecnico: un mix, insomma, tra Aborted, Benighted e Cattle Decapitation, tre gruppi sicuramente fondamentali per le strutture delle composizioni dell'act austriaco. Pur risultando incisivi nei pesantissimi break groovy (da spaccarsi il collo la parte centrale di "The Atascasdero Years"), si può facilmente notare come i MoM si trovino maggiormente a proprio agio quando alzano sensibilmente i giri del motore, lanciandosi a rotta di collo tra riff serrati ed un drumming adrenalinico. Con buona sostanza, i Monument of Misanthropy sono la classica band i cui dischi sono da avere se siete fans di una visione più moderna del Brutal Death... e dei documentari sui serial killer, visto che i loro album sono un po' una sorta di "documentari musicati" su questi efferati assassini. Una prova più che soddisfacente per la band austriaca, aiutata anche da una produzione potente e cristallina che mette in risalto tutta la loro potenza di fuoco. Ben fatto!
#1 recensione -
Se si ascolta Death Metal, c'è sempre da drizzare le orecchie quando escono dischi prodotti da alcune etichette; i nomi li saprete tutti, e fra queste certezze ce n'è una tutta italiana, la bresciana Everlasting Spew Records, la cui ultima release in ordine temporale è "Horripilating Presence", debut album dei texani Void Witch. Dopo aver dunque tastato il polso con l'EP omonimo del 2022, la label nostrana immette sul mercato anche il debutto su lunga distanza del quartetto di Austin, band che conferma con questo disco le buonissime impressioni di due anni fa. Fortemente ancorati ad un certo filone Death/Doom (Hooded Menace, Coffins, Temple of Void), i Nostri mettono a segno con "Horripilating Presence" un altro gran bel colpo. Non aspettatevi il "solito" Death/Doom melmoso e claustrofobico: i Void Witch puntano su composizioni dall'ampio respiro grazie ad un lavoro certosino delle chitarre sempre alla ricerca di taglienti melodie - spettacolare il solo dell'opener "Grave Mistake" - che donano all'opera un senso nemmeno tanto vago di varietà. Nei sei pezzi che compongono l'album i Nostri dimostrano di avere un gran senso del groove ("Second Demon") e di essere particolarmente alle atmosfere ed al taglio dei propri pezzi, che sinceramente non sfigurerebbero nella colonna sonora di un qualche film horror su case infestate. Riassumendo ai minimi termini, possiamo dire senza tema di smentita che i Void Witch si rifanno ad una visione estremamente tradizionale del Death/Doom, senza sentire il bisogno di sperimentare altre forme o di seguire il flusso di gente come i Mortiferum (per dire giusto il nome primario del filone più cupo e pesante); una scelta questa che, ascoltando questa loro prima fatica su lunga distanza, sembra pagare: i Nostri pagano un po' in originalità, questo sì, ma riescono comunque a mettere sul piatto sei buonissimi pezzi per un debut album che appare convincente sin dal primo ascolto e che vede nella lunga "Malevolent Demiurge" la perfetta fotografia della propria proposta.
#1 recensione -
Si erano un po' (eufemismo) perse le tracce dei turchi Carnophage, tanto che questo nuovo "Matter of a Darker Nature" arriva a ben otto anni di distanza dal precedente "Monument" - che a suo volta seguiva di otto anni il debutto "eformed Future//Genetic Nightmare" -. La band di Ankara si è stavolta accasata presso la sempre attenta label indiana Transcending Obscurity Records, che ha rilasciato questa nuova release in questi caldissimi primi giorni d'agosto. Nonostante il tanto tempo passato, non troviamo grossi sbalzi stilistici in ciò che propongono i Nostri, fortemente legati ad una visione tecnica del Brutal Death ancorata alle tradizioni di fine 90's/inizi anni 2000; Suffocation e Deeds of Flesh, insomma, sono tra le primarie fonti d'ispirazione dei Carnophage, ma è un dato di fatto che il quintetto abbia parecchi punti in comune con bands della nostra scena come Hideous Divinity, Antropofagus e - soprattutto - gli Hour of Penance del periodo con Francesco Paoli dietro il microfono. Chi ha avuto modo di ascoltare anche i lavori precedenti, saprà già che il fulcro primario del sound dei Carnophage è l'unione tra selvaggi passaggi di Brutal classico - blast beat a manetta e rocciosi riff concatenati - e repentini cambi di registro con momenti di livello tecnico ben al di sopra della media, coadiuvati questi ultimi da un più possente groove. Ecco, proprio in queste ultime fasi i Carnophage sembrano dare il meglio (un esempio su tutti: "Until the Darkness Kills the Light"), tant'è che viene da pensar che sei i Nostri dessero un maggior spazio a questo tipo di patterns potrebbe accrescere l'efficacia delle loro composizioni. Comunque sia, "Matter of a Darker Nature" è un album scritto e suonato di mestiere: i Carnophage non sono propriamente degli sprovveduti (4/5 di formazione è lì sin dagli esordi) ed il loro affiatamento traspare da pezzi granitici come la title-track (con una parte centrale che riporta alla mente le divagazioni Progressive dei Defeated Sanity), la già citata "Until the Darkness Kills the Light" e "Death Works Overtime", le tre canzoni che più ci hanno convinti all'interno di un album solido che dimostra come la band turca sia tra quell da prendere in serie considerazione se si parla di questo particolare genere, anche e nonostante i tanti anni tra un disco e l'altro. Buona prova insomma, ma ragazzi: magari la prossima volta non tra otto anni, che dite?
2755 risultati - visualizzati 41 - 50 | « 1 2 3 4 5 6 7 ... 8 276 » |
releases
Autoproduzioni
Consigli Per Gli Acquisti
- TOOL
- Dalle Recensioni
- Cuffie
- Libri
- Amazon Music Unlimited