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Opinione scritta da MASSIMO GIANGREGORIO

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    09 Marzo, 2024
Ultimo aggiornamento: 10 Marzo, 2024
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Mooooolto interessanti questi King Potenaz, power-trio proveniente da Fasano, in provincia di Brindisi (ergo, pugliesissimi). Correva l'anno 2019 ed ancora non si era disvelata l'immane tragedia del Covid, allorquando Francesco, Giuseppe ed il fantomatico PRNX pensarono bene di partorire un'idea malsana e pestifera: quella di originare un corrosivo connubio tra lo Stoner ed il Doom. E, in effetti, coniugare la oniricità dello Stoner con la "pesantezza" del Doom non poteva che far scaturire una miscela mortale fatta di atmosfere cupe e angoscianti ma estremamente deliranti. Il risultato è un sound a tratti soffocante e disperato oltreché sconvolgente. Sound del quale il nostro terzetto brindisino ha dato un saggio attraverso il demo di esordio "King Potenaz (Demo 6​:​66)" risalente a due anni orsono. L'anno seguente, è stata la volta del singolo "Monolithic" seguito a ruota da "Pazuzu (3​:​33)" dello scorso anno. Il tutto, al fine di creare i presupposti per questo loro primo full-length in cui tutto il materiale precedente è (giustamente) confluito: difatti, la opening track e "Pyramid Planet" hanno costituito il contenuto del loro primo demo; "Among the Ruins" irrompe in tutta la sua cupezza, con le sue reminiscenze di Spiritual Beggars e la sua accelerata che era tanto cara ai mostri sacri Black Sabbath anni '70 con tanto di tastiere che fanno capolino. La traccia seguente già citata è lunga e complessa, articolata ma mai indigesta con una voce semi-narrante che sembra collegata direttamente dagli inferi e, comunque, sempre con un sottile filo rosso che lega la band agli anni '70, questa volta rievocando i sempre sottovalutati Saint Vitus. La title-track è più vivace ma pur sempre avvolgente come le spire di un boa constrictor. E' poi la volta di "Pazuzu (3:33)", il singolo sopraccitato, che si insinua nella nostra testa strisciante come un serpente velenoso. D'altronde, un pezzo dedicato al Demone mesopotamico del vento di Sud-Ovest, apportatore di malattie agli uomini non poteva che essere così, con in più una voce femminile quantomai azzeccata. "Cosmic Voyagers" mi ha riportato alla mente i Pink Floyd di "Ummagumma" (ennesimo riferimento ai 70's), mentre "Moriendoom" (sottotitolo "La ballata di Ippolita Oderisi") al di là del calambur insito nel titolo, ha tutta la parvenza di un inno funebre in memoria della trapassata. "Monolithic" è l'altro singolo che fu, tanto funereo quanto corrosivo. La final track "Dancing Plague" - un vero e proprio delirio a tinte fosche - chiude questo pregevolissimo "Goat Rider" che ci consegna quella che, con tutta probabilità, costituirà un punto di riferimento per lo Stoner/Doom nostrano. Consigliabilissimo!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    02 Marzo, 2024
Ultimo aggiornamento: 03 Marzo, 2024
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Come back di fuoco, quello degli Iron Curtain, combo sorto nel 2007 nella regione iberica della Murcia che fin da allora mise le cose in chiaro: signori, qui si fa del Thrash/Speed Metal old style, quello (tanto per intenderci) ispirato alla leggendaria Bay Area. Qui si parla di guerra, distruzione, disagio sociale. Qui ci si rifà a gente come i Metallica, i Megadeth, i Death Angel, i Nuclear Assault e compagnia bella. Qui si pesta di brutto, ci si lancia all'impazzata in un ottovolante musicale al fulmicotone, dove energia e velocità sono tutto fuorché sotto controllo, ma pur sempre micidiali! Ne è passata di acqua sotto i ponti da quel "Road to Hell" che, nel 2012 (ergo dodici anni orsono), ha catapultato gli Iron Curtain nell'Olimpo dello Speed/Thrash, ma questo "Savage Dawn" ce li restituisce freschi come delle rose di acciaio. Pronti-via, dopo la intro d'uopo, irrompe "Devil's Eyes" che mi ha rammentato le mazzate che prendevo quando ascoltavo i mitici Exciter di Dan Beehler & Co (su tutti "Violence and Force"). A seguire, un'altra botta fortissima con il riffone di "Gipsy Rocker" che, per chi come me viaggia per le 60 primavere, significa molto in termini di rimembranza e reminiscenza. La successiva "The Wolf" continua nel martellamento senza requie. Giusto il tempo di rifiatare con l'ammaliante arpeggio che dà la stura a "Калашников 47", che veniamo investiti dall'ennesima locomotiva impazzita che nemmeno "Ridin' with the Driver" dei titanici Motorhead può! Il giro di basso della seguente "Rattlesnake" fa partire la pogata in automatico mentre "Tyger Speed" preme vieppiù sull'acceleratore scatenando l'headbanging più sfrenato, riprendendo il fil rouge con i canadesi di cui sopra, stile "Long Live the Loud". Il pezzo immediatamente dopo ci ricorda (semmai ve ne fosse bisogno) che il male è ovunque, anche qui con un super basso a terremoto sugli scudi, puntando decisamente all'anthem di grossa presa, con ritmo più cadenzato ma potentissimo. Il brano dedicato alle epiche trombe di Gerico (oltre che al famoso aereo caccia tedesco della II guerra mondiale) è l'ennesima testata in pieno volto ad alto indice di metallicità. E finalmente l'outro "Savage Dawn" ci dà il segnale del "liberi tutti", che ci consente di riprendere le forze, messe a durissima prova dall'ascolto di questo CD tanto annichilente, quanto valido. Long live Iron Curtain!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    24 Febbraio, 2024
Ultimo aggiornamento: 24 Febbraio, 2024
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E non poteva che provenire da Torino, una delle città più esoteriche al mondo (sicuramente quella più esoterica d'Italia) questo nero quartetto chiamato Ponte del Diavolo, materializzatosi due anni orsono all'ombra della Mole Antonelliana. L'abbrivio fu dato da "Mystery of Mystery" EP del 2020, cui hanno fatto seguito "Sancta Menstruis" e "Ave Scintilla!" l'anno scorso. Ed ora, sono giunti a noi con il loro primo full-length, che mantiene tutto ciò che promette: una nefasta mistura di tutte le sensazioni che finora ha potuto e saputo provocare la musica dark in tutte le sue declinazioni, a partire dalla Dark Wave anni '80 fino al Black Metal di matrice scandinava, passando per il Dark Metal ed il Doom. Il tutto attraverso una sinistra rappresentazione di un infinito rituale esoterico celebrato dalla sacerdotessa Erba del Diavolo: una Dark Goddess come se ne sono viste poche; una che, questo genere di cose, si vede che ce l'ha nel DNA. Il suo singing nel brano "Covenant" mi ha fatto venire gli stessi brividi che mi suscitava Siouxsie Sioux, la frontwoman dei Siouxsie Sioux and the Banshees. E la cosa meravigliosa è che i nostri quattro darksters hanno optato per il cantato nel nostro magnifico idioma italico, assolutamente eccelso quando si tratta di musica impegnata, colta ma pur sempre fortemente alternativa. Fanno eccezione la soffertissima "Red as the Sex of She Who Lives in Death", l'arrembante "Nocturnal Veil", in cui la voce di Erba del Diavolo si fa quasi narrante e perniciosa, come il violoncello che irrompe a metà pezzo, costituendo una delle svariate sorprese di questo album. Tutti i pezzi che compongono il CD sono delle rose nere che formano un sinistro bouquet che provoca la paralisi annusandolo e ferite mortali toccandolo, per quanto sono cupi ed articolati, pericolosamente variegati: signori, questo "Fire Blades from the Tomb" non è assolutamente per tutti, ma solo per veri cultori dell'oscurità, per esploratori degli abissi, per chi ama gli anfratti più reconditi dell'animo umano. Come nel caso de "La Razza", che parte con un synth che rievoca le atmosfere della musica elettronica tedesca degli anni '70 (Tangerine Dreams, Klaus Schulze) per poi lanciarsi un un blast- beat degno dei migliori Darkthrone, snodandosi in ben otto minuti di puro delirio a tinte fosche. "Zero" fa accapponare la pelle, tanto è intensa e disperata. La chiusura è affidata a "The Weeping Song", cover riuscitissima di Nick Cave & The Bad Seeds, sottoposta ad un immancabile maquillage in puro dark&black-style. Che dire, sono stato piacevolmente avvolto dalle tenebre sonore di Erba del Diavolo & Co. Sono certo che ne sentiremo parlare a lungo. Ad maiora, Ponte del Diavolo!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    17 Febbraio, 2024
Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 2024
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La scena metallica barese della fine degli anni '80 è stata cavalcata da poche bands di spicco, in un'epoca nella quale essere metallaro nel capoluogo pugliese era quasi uno stigma e i luoghi in cui suonare il nostro beneamato genere erano davvero pochini. Non che ora lo scenario sia cambiato molto, ma, quantomeno, quei pochi protagonisti di quella scena hanno tenuto botta, fino al punto di riuscire a riproporsi (in una scena popolata più che altro da cover band) con produzioni che hanno rinverdito gli antichi fasti e impedito l'estinzione dell'Hard & Heavy a Bari. Ciò è stato possibile grazie alla buona volontà di etichette di nicchia - come la AUA Records - che si occupano di recuperare e valorizzare l'Heavy Metal italiano degli anni '80 e '90, rendendo possibile la realizzazione anche questo "The Demo Years". Tra i pochi irriducibili di quella scena barese annoveriamo gli Storm, capitanati da Carlo "D'Artagnan" Ragno, istrionico e carismatico frontman che allora già vantava una solida gavetta come axeman dall'ottima tecnica e dalle idee sempre particolari (ricordo ancora i suoi primi passi e poi i Wothan). Al loro demo "The Wolf Is Free" del 1987 (che possiedo ancora in versione audiocassetta) prese parte anche Donato Milella, altro talentuoso chitarrista barese. La miscela che ne scaturì dall'incontro di queste due fervide menti non poteva che essere dirompente. Ricordo ancora le ottime recensioni che ricevettero dalle riviste HM e Metal Shock, oltre al meritato spazio nel libro Metal Region di Gianni Della Cioppa. Peccato che la band durò solo tre annetti scarsi (che furono, peraltro, non poco travagliati). Fortunatamente, però, dalle ceneri ancora fresche degli Storm sorsero gli Oracle grazie all'incontro di Carlo Ragno con Francesco Patruno, veterano delle quattro corde, anch'egli estremamente versatile e multitasking. Incontro che rese possibile la realizzazione del domo "I'm the Only Queen" nel 1990. Un intrigantissimo concept su Sorella Morte, che prende la stura da una intro tutt'altro che scontata, che confluisce nella title-track introspettiva ma aggressiva con Carlo che sfoggia degli acuti niente male. "Damocle's Sword" conferma la assoluta originalità del sound proposto, con alternarsi di stop'n'go e cambi di ritmo a profusione. Su tutto, come era logico e lecito aspettarsi, svettano gli assoli di Carlo, tecnicissimi e ispiratissimi: un vero e proprio marchio di fabbrica! "Fuckin' Care of Dying" entra come un diretto nei denti con un riffone demolitore. "Cruel" è un ammaliante arpeggione a tinte fosche che funge da tappeto sonoro a dei vocalizzi riflessivi. La finale "Oracle" svolta tutto al nero, cupa ed ossessiva; degno sipario di una prima parte di CD pregevolissima. Si passa poi agli Storm ed al loro "The Wolf Is Free" che già conoscevo e che mi ha rievocato gli stessi brividi che mi procurava quando ascoltavo la audiocassetta! La opening/title-track - come tutto il (fu) demo - costituiscono uno dei più fulgidi esempi di come si debba suonare del Power/Epic Metal come si conviene. "Metempsychosis" è un slow down toccante, specie nella parte dello struggente assolo di Carlo. "Gautama the Buddha" irrompe con un giro di basso che mi era già rimasto impresso a fuoco nella memoria e si snoda epicamente possente per poi lasciare il posto a "Storm", una tempesta di nome e di fatto, un ciclone spazzatutto (sembra quasi che gli svizzeri Coroner abbiano tratto ispirazione da questo brano...); chiude le ostilità la composita ed articolata "Confession", che pone il sigillo su un'opera metallica ragguardevole e certamente ben superiore alla media, non solo nazionale. In bocca al lupo agli Oracle e ad majora semper!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    10 Febbraio, 2024
Ultimo aggiornamento: 10 Febbraio, 2024
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Ennesima band proveniente dalla Grecia, negli ultimi anni particolarmente prolifica di talenti votati alla causa del metallo. Più nello specifico, all'Epic/Doom Metal. I Distorted Reflection sono nati praticamente da una costola dei Sorrows Path dai quali - dopo aver prodotto ben quattro full-length, giungendo ad essere ritenuta una delle più conosciute ed apprezzate realtà dell'Heavy Metal ellenico - il chitarrista e co-fondatore Kostas Salomidis è uscito per divergenze musicali, peraltro proprio alle soglie della fuoriuscita della loro quinta fatica in studio. E il buon Kostas, nella torrida estate greca del 2022 - senza frapporre ulterior tempo di mezzo - ha formato questa sua creatura dedita ad un Doom forgiato a sua immagine e somiglianza, ovverosia ancor più cupo e pesante. Band il cui nome frullava già nella mente di Kostas fin dal lontano 1993, quando lo propose all'altro fondatore dei Sorrows Path, tanto che poi optarono per quest'ultimo brand. Il logo della band è frutto della altrettanto fertile mente di Tomas Arfert (Candlemass, Krux), il quale si è fatto carico anche del pregevolissimo artwork di questo debut album. Ragazzi che hanno deciso di mantenere un basso profilo (almeno in questa fase iniziale) preferendo non fare concerti e di non concedere interviste né girare video. Album il cui titolo “Doom Rules Eternally” è tutto un programma: infatti, i tre elementi che compongono il micidiale mix propinatoci dal powertrio ellenico sono assolutamente ben bilanciati tra loro; in maniera sapiente, Kostas & Co. non fanno mai prevalere né il Doom, né l'Epic, né il Power. Ne scaturisce una pozione velenosissima, dalle peculiarità interessantissime; un vero e proprio wall of sound che avanza incessantemente ed inesorabilmente con un pesantissimo cadenzone condito con cori epicheggianti ("Ring of Fire") che rievocano i fasti della Grecia antica, solido come le colonne dei fantastici templi che venivano eretti in tutta la loro fierezza. Su tutto si pone in grande evidenza il cantato di Kostas, anch'esso fiero e carico di pathos. E se tutto ciò non bastasse, ecco gli ospiti che vanno viepiù ad impreziosire l'ensemble di pezzi di cui si compone questo ottimo CD: Giannis Drolapas (Vavoura Band, Diesel) si cimenta in un assolo straccia-tutto in “The Eternal Gate”, Ross The Boss (Manowar, Ross The Boss, The Dictators) fa altrettanto in “Cassandra”, mentre Nicholas Leptos (Arrayan Path, Warlord) presta la sua ugola nella opening track “Mr. Snake”. Insomma, un'ottimo inizio di percorso per i Distorted Reflection, il cui sentiero auspico lungo e fertile.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    03 Febbraio, 2024
Ultimo aggiornamento: 03 Febbraio, 2024
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Ho avuto modo di occuparmi dei bolognesi Gengis Khan già in occasione dell'uscita del loro full-length "Possessed by the Moon" due anni orsono e ricordo di essermi espresso in maniera positiva sulla loro opera all'insegna dell'Heavy Metal ortodosso con quella punta di Epic che non guasta mai. Ora li ritrovo con piacere in occasione della pubblicazione di questo loro secondo EP (il primo, omonimo, risale al 2019); un disco che non fa altro che confermare quanto di buono avevo già evidenziato nella precedente recensione, poiché la band felsinea rende ancor più profondo il solco tracciato finora, ribadendo la sua proposta fatta di metallo pesante a manetta: ottima la performance della batterista Gemma dietro le martoriate pelli, supportata dalle quattro corde leonine di - appunto - Lyon. Un sound fresco, saettante e possente su cui si stagliano gli assoli virtuosi del duo Neil/Mike, davvero affilatissimi. Le tastiere di Lee entrano sempre al momento giusto, efficaci senza mai essere oltremodo invadenti. L'ugola di Frank Leone (cognomen omen, eh?) svetta e sembra quasi essere un esperto domatore che riesce a cavalcare una belva ferocissima, rappresentata dal suono del gruppo emiliano, rendendola docile con la sua voce, che la ammaestra a dovere. Dall'outtake della opening track, passando per l'altisonante "The Seventh Heaven", fino alla lunga "In the Land of Darkness", infatti, si snoda una energicissima cavalcata metallica che ci rende l'idea del nome della band, ispirato ad uno dei più grandi e feroci condottieri della storia, in grado di mettere a ferro e fuoco vastissime aree del globo terrestre; nel nostro caso, certamente questo EP metterà a ferro e fuoco la vostra testa e la vostra stanza, rendendole terreno di conquista.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    27 Gennaio, 2024
Ultimo aggiornamento: 28 Gennaio, 2024
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Ancora una volta, sorprendentemente, approcciamo una band finlandese dedita non già al Black Metal di matrice scandinava, bensì in grado di proporre un godibilissimo Heavy Metal/Occult Rock alquanto tradizionale. Formatasi a Pirkkala, Pirkanmaa nel 2019, il sestetto finnico è giunto all'incisione del suo secondo full-length, "Chapter II: The Lotus Covenant". Infatti, dopo il singolo di debutto "Through the Eye of the Nightingale" quattro anni orsono, c'è stato un filotto di altri tre (nel 2021 "Corn, Drought and the Lord" e "Oktober") cha hanno fatto da apripista al loro primo album "The Omega Evangelion" nello stesso anno, davvero prolifico per i nostri. Poi, altri due singoli ("Sometimes Dead Is Better" e "Resignation" lo scorso anno), per poi approdare a quest'ultima fatica, data alle stampe pochi giorni fa. La prima cosa che mi è balzata all'attenzione è stata la sorprendente somiglianza della voce della cantante Johanna con quella di Janet Gardner, cantante della band tutta al femminile Vixen, che negli anni '80 è andata per la maggiore negli U.S.A. (vedasi il CD "Rev it Up" del 1983). Come scritto prima, la proposta dei Byron è un Heavy Metal veramente godibile, fatto di linee melodiche conoscibilissime e di prontissima presa, espresse però sempre con grande potenza. Dopo la stura data dall'immancabile intro, le ostilità si aprono con la title-track "The Lotus Covenant" con un duello di assoli in crescendo di quelli che si lasciano apprezzare per quanto sono affilati come bisturi. La seguente "Resignation" ti travolge come un uragano devastante e ti parte l'headbanging che è una bellezza. "Sword of the Apostle" è una semi-ballad avvolgente, quasi ipnotica, mentre "Sometimes Dead Is Better" continua nell'alveo del cadenzone, pur sempre orecchiabilissimo. "The Golden Gallery" ribadisce la parentesi "soft" della release, che riprende a macinare riffoni con "Return to Celephais" che parte piano per poi decollare con l'ennesimo duello tra le due asce finlandesi. Il disco si chiude con "The X" che segna la ripresa dell'headbanging spontaneo e genuino, come tutta questa produzione. E ora, dopo questo "Chapter II: The Lotus Covenant", attendiamo i Byron per la definitiva consacrazione.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    20 Gennaio, 2024
Ultimo aggiornamento: 21 Gennaio, 2024
Top 50 Opinionisti  -  

La Toscana è - senza tema di smentita - una delle regioni che più militanti ha donato alla causa del metallo pesante italico. Basti rievocare i mitici Strana Officina di Bud Ancillotti negli anni '80, per giungere ai giorni nostri con i Deathless Legacy, per averne una rapida conferma. Da sempre è stata una fucina di plotoni metallici pronti a mettere a ferro e fuoco, in lungo e in largo, il nostro beneamato Stivale. E proprio da questa regione così piena di storia giunge questo power-trio esordiente assoluto, con un disco peraltro omonimo, "Taurus Inferno". Il titolo deriva dal fatto che - quando la band era ancora un duo composto da Camillo e Stefano - entrambi erano e sono del segno zodiacale del Toro ed entrambi erano e sono dediti a far musica ad altissimo livello, quanto a decibel: quindi, infernale. E devo dire che la proposta musicale dei tre ragazzoni pistoiesi non è affatto da trascurare: un Heavy Metal un po' fuori dagli schemi, caratterizzato da un tappeto ritmico (fornito dalla coppia Antonio/Stefano) cadenzato ma che rimembra l'incedere di una asfaltatrice, sul quale si innestano dei riffs dalle melodie senz'altro particolari e difficilmente inquadrabili, etichettabili; e, vivaddìo, meno male, perché se c'è una peculiarità di tutto il Rock (e Metal) in generale, è proprio quella di sfuggire completamente a qualsivoglia forma di catalogazione, apportando sempre nuova linfa in grado di perpetrare nel tempo i suoi fasti. Se poi a tutto questo aggiungiamo una voce come quella di Camillo, moooolto simile a quella di Peter Wiwczarek dei Vader (ergo, mutuata da ben altro genere di Metal) del tutto atipica per il contesto, il quadro è completo ed interessantissimo. La opening track mi ha dato l'idea di un pezzo strutturato (in parte) come quelli dei primissimi Annihilator ma rallentato e, comunque, di grande personalità. "Be Silent" è di grosso impatto, mentre "Isolation Calling" è la traccia più diretta, catchy. "Modern Atavism" (bello l'ossimoro..) è la più accelerata, mentre "Hell of the Damned" è il cadenzone per eccellenza. "In your Eyes" ha un ritmo che ti fa vivere la sensazione di essere sul ring con il tuo avversario che ti sta bombardando ai fianchi. "Witching Hour" continua nell'alveo del pezzo che lo ha preceduto. Personalmente, il brano che mi è piaciuto di più è stato "Puritan", ben variegato e articolato. Ma tutto l'album omonimo dei Taurus Inferno si rivela accattivante e degno di entrare a far parte della vostra collezione di dischi, magari da inserire nella zona di quelli un po' più "particolari".

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    13 Gennaio, 2024
Ultimo aggiornamento: 13 Gennaio, 2024
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Quando, tanto tempo fa, trasmettevo il mio programma radiofonico Heavy Metal, ero solito - all'inizio - annunciare che si stavano spalancando i sette cancelli dell'Inferno sonoro. Quando mi si è parato davanti questo ultimo disco degli Entierro, non ho potuto fare a meno di ricollegare i miei neuroni e le mie sinapsi a quella frase che dava la stura ad una scaletta che andava in crescendo, partendo dal Metal classico per finire con il Black Metal, passando per altri genere nel mezzo. Bei tempi. Ma torniamo ai nostri quattro becchini di New Haven, Connecticut, U.S.A., (Entierro significa sepoltura, n.d.r.) da cui hanno mosso i primi, sinistri passi nel 2010, con il nome di Treebeard, che hanno mantenuto fino al 2013, per poi optare per il monicker attuale. Hanno esordito con il primo EP omonimo nel 2014, al quale ha fatto seguito nel 2016 un altro EP ("XVI"). Finalmente il 2018 segna il loro primo full-length (anch'esso omonimo); è poi la volta di un ulteriore EP intitolato "El Camazotz", dedicato alla divinità Maya, pipistrello con corpo umano, una sorta di precursore di Batman. Il sound degli Entierro in questa opera EP dedicata ai cancelli degli Inferi è molto robusto e carnale: "Umibozu" sugli scudi, è dedicato al "Monaco di Mare", ossia uno yōkai, uno spirito del folclore giapponese che la leggenda vuole che viva nell'oceano e che capovolga le navi. Così come è estremamente muscolare "Under the Eye". "The Lords of Rock and Roll" è più ortodossa e "old school" con il suo riffone acchiappone. La opening track "The Gates oh Hell" è una rasoiata in pieno volto, con una intro massiccia che prelude ad un cadenzone micidiale che non lascia scampo, spalancando ad un reale inferno sonoro quale è tutto questo pregevole EP in cui campeggia l'ugola corposa e potentissima del bassista Chris. Sei pezzacci paragonabili ad una devastante sfera demolitrice. Bravi Entierro!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    06 Gennaio, 2024
Ultimo aggiornamento: 06 Gennaio, 2024
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Proprio poco tempo fa, in occasione della recensione dedicata all'ultimo disco degli Ancient Ruins, ebbi modo di costatare come le one man band nel metal fossero alquanto rare. Ebbene, il monicker Blood Python è esclusivo appannaggio di tale M. Horn. Il polistrumentista di Oslo ha inciso il suo full-length di debutto "Acheron" lo scorso anno. Il misterioso norvegese, dopo aver dedicato la sua prima creatura al fiume adibito al trasporto delle anime dannate verso l'Inferno di dantesca memoria, si ripresenta sulla scena del metallo estremo con "Thunder City", deviando leggermente da quelli che sono i canoni del Black Metal scandinavo, proponendo un sound un po' più "ragionato", sia pure sempre declinato al nero; non a caso, viene inserito nel novero dell'Occult Metal. Basta dare un primo ascolto alla opening track, per rendersene conto: intro tenebrosa immancabile che dà l'abbrivio ad un pezzo mid-tempo in cui vi è solo una piccola parentesi con blast beat. Schema riproposto nella traccia "The Gods That Fell to Earth". Le tastiere sono sempre inserite nei brani in maniera più che sensata (vedi in "Lord Of Night") e pronte a conferire quell'ulteriore oscurità alle trame melodiche. La performance vocale non dispiace affatto: cantato sempre pulito, non v'è traccia di scream, né di growl sguaiati; ed è questo un ulteriore elemento differenziale tra il nostro darkster rispetto alla pletora di bands del metallo nero nordico. L'intero lavoro merita pienamente la sufficienza; ed è proprio qui il problema: merita sì la sufficienza, ma niente di più. Certamente tutto molto onesto, ma la release fila via senza scossoni, senza un elemento che stravolga l'ascoltatore. Alla lunga, si avverte una netta sensazione di piattume. Le composizioni mancano di quel sacro furore che - fin dalle sue origini - caratterizza il metallo pesante. M. Horn non riesce nell'intento di ricreare quelle ambientazioni oscure e sinistre tipiche del dark & black, né quelle claustrofobiche e disperate del Doom. Il risultato di questo "Thunder City" è tutt'altro che tonante: è alquanto spompato, tale da far tornare alla mente la frase "senza infamia e senza lode" e, per rimanere in ambito di giudizi scolastici, "potrebbe fare molto di più".

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