Opinione scritta da Gianni Izzo
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Ultimo aggiornamento: 15 Luglio, 2020
Top 10 opinionisti -
Formatisi nel 2010 e capitanati dal chitarrista e cantante Jonathan Vaberbildt, i Celitc Hills sono un trio friulano, fondamentalmente legato al primo speed e power metal teutonico per ritmiche serrate e melodie, in stile Grave Digger, Running Wild, ed Helloween pre Michael Kiske, con qualche influenza epica a la Manowar, e tanti sconfinamenti nell'Hard Rock. Ci dicono di essere influenzati anche dal viking, e sicuramente l'iconografia e il concept dei testi supporta questa tesi.
Risultano due dischi all'attivo prima di questo “Blood Over Intents”, il contratto dei friulani con la Elevate Records avviene quest'anno invece, ed il risultato di tale sodalizio è rappresentato da questa mezz'oretta di musica molto diretta e senza tanti fronzoli, che racconta la battaglia tra i nativi di Cividale Del Friuli contro i Romani.
La voce sporca di Vaberbildt si sposa perfettamente con l’attitudine principale della band, che credo che nella versione live possa dare il meglio di se, grazie al sound selvaggio e da strada che propongono per la maggiore. Tanta potenza ritmica, che vede i suoi momenti migliori nelle azzeccate “Blood Flows Down” e “A Happy Abdicant King” che ha anche un ottimo refrain.
L’altro lato della medaglia ci mostra una band che non mischia sempre bene le proprie influenze, talvolta l’epicità sembra essere ricercata e poi strozzata da un riffing molto graffiante, ma decisamente poco evocativo e più legato ad attitudini appunto hard rock e di scuola NWOBHM.
Abbiamo poi un'opener in pieno stile viking/melodic death scandinavo, ma che non ritrova in se ne dei riff indimenticabili, ne una prova vocale degna del momento, si sente che il cantato estremo non è nelle corde di Vaberbildt, che si trova molto più a suo agio con un cantato di vecchia scuola, legato agli stilemi del metal più classico e acido degli anni ’80.
Il fatto che “Forum Julii” sia a se stante, apra un disco che nelle altre 6 canzoni cambia completamente registro adagiandosi appunto su uno speed/power d’annata, non è stata secondo me la scelta migliore per i Celtic Hills.
Anche la produzione non dà purtroppo il giusto contributo a far emergere i brani, i suoni risultano un po’ slegati, e sembra davvero di tornare indietro nel tempo, a lavori come “Walls Of Jericho” degli Helloween, o i primi quattro album dei Manowar. Non so se sia una scelta per esaltare quel periodo musicale, ma non la trovo proprio una decisione vincente nel 2020. Non dico che il sound debba risultare super patinato e plasticoso come molte nuove produzioni, ma una buona via di mezzo è giusto trovarla.
Aspetto di vederli live, perché secondo me i Celitc Hills hanno delle buone carte da giocare, ma che non sono riusciti a sfruttare al meglio su “Blood Over Intents". Si sente la bravura dei musicisti che arrivano a proporre comunque momenti abbastanza interessanti, ma i Celtic Hills devono ancora smussare qualche sbavatura di troppo. Il lavoro non è pienamente sufficiente, ma credo che gli amanti del metal vecchio stampo possano apprezzarlo. Noi, dopo averci pensato tanto, abbiamo deciso di premiare "Blood Over Intents" in ogni caso, perché si sente la passione ed il cuore del trio nelle composizioni, i buoni momenti escono fuori, pur con tutti i difetti del caso.
Ultimo aggiornamento: 29 Giugno, 2020
Top 10 opinionisti -
I Devil Crusade sono un trio bolognese, dedito ad un thrash metal che si lega molto agli esordi del genere, ma con qualche sperimentazione sonora più moderna che andrebbe approfondita, perché rappresenta il tratto più distintivo della band.
Nati nel 2014, i tre musicisti, arrivano prima ad un omonimo Ep uscito nel 2017, per poi approdare a quest’ultimo lavoro intitolato “Mental Breach”, disco di 8 tracce, non troppo lungo, quindi facilmente fruibile dall'inizio alla fine.
Pur regalandoci alcune fughe musicali molto accattivanti, sia dai tratti più melodici, come la parte strumentale di “Raperiest”, sia più dure e graffianti, andando dietro a band quali Slayer o Exodus (ci riferiamo sempre alle primissime sonorità di entrambi), come nella title-track, i Devil Crusade sembrano dover fare ancora un po’ di strada per riuscire ad esprimere al meglio le proprie idee. In “Mental Breach” si respira l’aria di un gruppo ancora un po’ acerbo, e derivativo. Certi cori, certe linearità, andavano bene a metà degli anni ’80. Pur essendo sicuro che le ritmiche veloci e i killer riffs più riusciti, facciano il loro bell'effetto in sede live, un disco con queste sonorità, sembra stonare nel 2020.
Da un punto di vista strettamente tecnico, tralasciando una produzione che non aiuta i brani ad emergere, il più grande problema dei Devil Crusade al momento sta nella voce del chitarrista Rock’n’Blond, che purtroppo non risulta essere né abbastanza dura da amalgamarsi alle parti più estreme del sound dei Devil, né sufficientemente tecnica, e questo penalizza non poco i brani.
Molto meglio, come dicevo ad inizio recensione, suonano alcune acide sperimentazioni che hanno un po’ il sapore dei System Of A Down più schizzati, e dove lo stesso vocalist si esprime molto meglio, “Bonobo’s Nightmares” da questo punto di vista, risulta essere una dei brani più rappresentativi, anche se le mie atmosfere preferite sono sicuramente quelle sinistre e dal sapore mediorientale di “Executioner”.
Ancora un po’ di allenamento e sono sicuro che i Devil Crusade sapranno dire molto meglio la loro, per ora, pur sottolineando alcuni episodi riusciti, non siamo ancora sulla sufficienza piena per quel che mi riguarda.
Ultimo aggiornamento: 12 Giugno, 2020
Top 10 opinionisti -
A quattro anni dall’ep omonimo, già recensito sulle nostre pagine, tornano i canadesi Demise Of The Crown, con questo “Life In The City” che segna per la band un passo nella direzione giusta. Proprio per l’Ep dissi che i 5 musicisti erano sicuramente talentuosi dal punto di vista tecnico e riuscivano a costruire refrain d’impatto, e riff potenti, ma si lasciavano troppo sopraffare da un certo amore per le parti più canoniche e vagamente smielate del metal più mainstream e moderno.
“Life In The City” invece, pur rimanendo saldo su un heavy/power roccioso quanto modernista, prende a piene mani le parti più riuscite del songwriting dei Demise, quel mood oscuro e rabbioso, figlio dei Nevermore, condito di riff e soli molto tecnici e veloci, a cura del chitarrista Iradian, che è anche la mente dietro tutti i brani del disco.
Anche questa volta, i nostri trovano la propria marcia in più nella voce eclettica del bravissimo Darren Beadman, che passa continuamente da screaming Halfordiani, alle harsh vocals, fino ai toni caldi e pieni, che sono alla base degli ottimi refrain epici come quello di “Lightning Strikes”, “My Mind Is Free” e della stessa title-track.
Se da una parte pezzi come le irruenti “Fixed” o “The Rise The Fall”, che sanno troppo di certe scelte poco felici degli ultimi In Flames, ma eseguite con maggior pulizia e maestria, ci lasciano un po’ indifferenti, fatta eccezione per la potenza espressa che però si esaurisce in ritornelli troppo pacchiani, il resto dei brani, tra sperimentazioni e riff e linee vocali crepuscolari e ricercate convincono in pieno. Canzoni come “Sparks Fly”, “Dying Heat”, “The Immortal” sono degne di essere accostate alla fascinazione delle atmosfere oscure dei già citati Nevermore, mentre ci sono momenti più tecnici come “Gatekeeper” che si srotola tra linee vocali molto melodiche che si contrappongono a tiratissimi momenti musicali a suon di blast beat, che ci lasciamo positivamente meravigliati.
L'autoproduzione dei 5 di Montreal si presenta con suoni potenti, mira ad una vera e propria esplosione dei vari strumenti, lasciando comunque un suono pulito e ben definito degli stessi. Tutto questo fa da cornice ad un disco ben fatto e per la maggiore riuscito, che lascia da parte alcune ingenuità di qualche anno fa, e ci mostra una band più matura. Molto bello anche l'artwork apocalittico.
Top 10 opinionisti -
A 5 anni dall’egregio “Elegia Balcanica”, tornano i serbi AlogiA. Per chi non li conoscesse, la power metal band ha ormai un ventennale di anni di attività alle spalle, con un buon seguito nella propria terra natia, e 5 lavori già editi, tutti cantati in lingua madre, tranne “Secret Spheres Of Art” del 2005. Con il loro sesto album intitolato “Semendria” gli AlogiA tornano a cantare in inglese, probabilmente per accrescere la popolarità anche all'estero, dopo il buon riscontro del precedente "Elegia Balcanica", ma anche per dar modo agli illustri ospiti, di poter dare il loro contributo canoro al disco, che vede 9 tracce per un totale di poco più di mezz'ora di power prog, con richiami alla musica etnica e a certi barocchismi di malsmsteeniana memoria.
Quindi un disco breve e molto più diretto rispetto anche rispetto al precedente, che presentava più aperture verso lo stile prog a la Dream Theater (altra band feticcia dei nostri insieme a Malmsteen), che qui sembrano relegate alla sola “The Calling”.
Non è un segreto che gli AlogiA siano dotati di una tecnica invidiabile, spesso ritroverete i fratelli Brankovic a fronteggiarsi con neo-classicismi di stampo Maslmsteeniano, ma su una struttura ritmica che spesso e volentieri si rifà al power metal europeo (Helloween e Stratovarius mi sembrano dei buoni esempi di comparazione).
L’ottimo cantante Nikola Mijic, dotato di un buonissimo timbro e di un range invidiabile, duetta con tre nomi importanti della scena metal internazionale: lo storico Mark Boals è l’ospite della bella opener e title-track del disco, una cavalcata metallica ed epica con refrain immediato ed un finale che va a riscoprire le melodie etniche dei balcani. A seguire il buon Tim “Ripper” Owens, presta la sua graffiante voce per la melodica ma tiratissima “The Eternal”, altro ottimo biglietto da visita dell’album.
“Raise Your Fist” e “Like A Fire” sono stabili su un power metal molto più classico, mentre quasi sul finale arriva l'ennesima ottima nota del disco, con l’ultimo ospite, che è il nostro Fabio Lione. Lione interpreta quello che considero il più bel pezzo dell’album :“Visantia”. L’inizio è affidato ad un flauto che ci dona un momento dall'atmosfera sud americana, che poi esplode in un ottimo power sinfonico, con un interludio cantato in italiano e latino che mi fa piacere sottolineare, è stato adattato dall'amica Paola Ceci, che è stata proprio colei che mi ha fatto conoscere quest’ottimo gruppo. La canzone prosegue poi con molte incursioni nella musica balcanica e mediorientale, prima del refrain finale. “Beyond Belief” da ancora sfoggio dell’amore per certe partiture orientali, Nikola Mijic pecca un po’ di troppa imitazione, e ci propone un cantato teatrale in pieno stile Bruce Dickinson, ed infatti il brano cadenzato ed epico, suona molto Iron Maiden. A finire un bel strumentale, che tra tecnicismi brevi ma interessanti dà molto spazio anche ad un botta e risposta con il pianoforte, che presto diventa protagonista e ci saluta con una bella sinfonia, mettendo fine a quest'ottimo album. “Semendria” si lascia ascoltare molto volentieri, scorre molto bene e attecchisce fin dal primissimo passaggio nel vostro stereo, anche se indubbiamente si ha la sensazione che se gli AlogiA puntassero un po’ di più su brani come “Visantia”, dove la contaminazione e la riscoperta delle proprie radici musicali da quel quid in più, e meno su pezzi buoni ma piuttosto classici e meno personali come “Raise Your Fist”, riuscirebbero a raggiungere un livello ancora più alto di qualità.
Ultimo aggiornamento: 05 Mag, 2020
Top 10 opinionisti -
Attivi fin dal 2005, i Last Frontier, nati da un’idea del tastierista Cyrion Faith e del chitarrista Nitrokill, arrivano con questo “Aether (Equivalent Exchange)”, al terzo album in studio. Il loro è un metal ispirato agli anni ’80, riff e cavalcate alla Maiden affiorano un po’ dovunque, insieme a tempi e passaggi più prog, il tutto è poi reso bombastico dalla tastiera che sa ricamare sui vari brani delle belle atmosfere.
Il nuovo cantante ha una buona ugola graffiante, ed anche nelle linee vocali più forzate e macchinose, riesce a tirar fuori una buona interpretazione che le rialza qualitativamente.
Ogni brano è abbastanza complesso, in 50 minuti circa di musica incontrerete parecchi cambi di mood (sebbene risalti soprattutto un’aura oscura e drammatica), un ottima sezione ritmica che spesso ricalca i tempi dispari alla Dream Theater, e delle ottime fughe musicali che rendono interessante la proposta della band, almeno fin quando questa non esagera nel minutaggio, annacquando quelle che potevano essere delle buone composizioni. Ovviamente l’altro lato della medaglia sta nella non facile assimilazione del disco, che ha bisogno di diversi ascolti per accoglierne l’essenza nei suoi momenti migliori, come la tirata “Cults Of Cargo”, “Wings Of Stone”, o ancora “Flames Of Moloch”, che rappresentano il meglio della proposta dei Last Frontier. Un pezzo come la lunghissima “Shahar” diviene molto difficile da accettare, nonostante abbia parecchi momenti molto buoni, ma intervallati da altrettanti momenti troppo anonimi. Non possiamo dire che i Last Frontier non ci offrano una musica molto personale, anche se c’è sicuramente da migliorare, ad esempio trovare qualche canzone davvero d’impatto, che svetti e faccia da contrappeso alle tracce più articolate e difficili della propria proposta. Altra cosa che non ho apprezzato particolarmente sono alcune scelte stilistiche su suoni e produzione, riverberi esagerati per creare il chorus epico ad esempio, che mi sembrano un’offerta troppo old fashioned per funzionare nel 2020. Tuttavia la sostanza, la bravura tecnica e la sostanza del songwriting c'è.
Ultimo aggiornamento: 16 Aprile, 2020
Top 10 opinionisti -
A 5 anni dal buon “Endless…”, Holopainen ed i suoi sodali tornano con il nono lavoro in studio intitolato enigmaticamente “Human. :||: Nature.”, presentato come il primo doppio cd nella storia della band, per un totale di più di 80 minuti di musica. Il primo disco gira attorno al tema dell’umanità, ed è li dove suonano i veri Nightwish, tutti condensati nelle 9 tracce che lo compongono. Il secondo disco presenta la risposta della natura, espressa attraverso una lunghissima suite strumentale, dove Holopainen pecca di troppo protagonismo.
In questa nuova prova musicale, sentiamo finalmente Floor Jansen al massimo della sua espressione vocale. Nel precedente album infatti la Jansen sembrava essere usata ad un quarto delle sue possibilità, un peccato, nonostante “Endless…” si fosse rivelato in ogni caso un lavoro riuscito.
I Nightwish con “Human…” scelgono di riprendersi un po’ di quelle atmosfere tra il magico ed il teatrale in stile “Imaginaerum”, i pezzi sono pompati, con abbondanza di cori, e arrangiamenti orchestrali decisamente più ricchi e complessi rispetto ad “Endless”. Ci vuole più di un ascolto per immergersi in questo nuovo disco e carpirlo fino in fondo, e goderne infine della sua bellezza, non perfetta, ma non ci si può lamentare.
“Human…” è complesso e purtroppo mancano delle vere e proprie hit trascinanti, come poteva essere una “Alpenglow” ad esempio. Se questa sia una scelta, o semplicemente non sempre si riesce a raggiungere il refrain davvero vincente, non lo sapremo mai. Tuttavia i brani si rivelano molto interessanti, pieni di barocchismi, ma anche ricchi di linee vocali ricercate e tecnicamente complesse. Da “Noise”, scelta come singolo, passando per l’opener “Music”, o la bella “Shoemaker” che frena all'ultimo con il lirismo della Floor e di un coro gregoriano pieno di pathos, fino a raggiungere l’irresistibile “Pan”, il disco gira davvero bene.
Troy Donockley arricchisce il tutto con i suoi inserti etnici, e si canta quasi completamente in solitaria la celtica “Harvest” dotata di un bel crescendo, nonostante la voce di Troy la trovi abbastanza anonima in verità.
Hietala questa volta viene praticamente messo in panchina, decidete voi se “purtroppo” o “per fortuna”, lo si sente solo durante le strofe dell’ultima “Endlessness”. Unico momento che ho trovato davvero sprecato è stato quello di “Tribe” che tra le sue percussioni ed i suoni mediorientali, aveva comunque delle buone carte da giocarsi, ma il cantato non funziona, sembra un pezzo buttato un po’ li, senza essere stato lavorato a dovere.
Il primo disco ci dice che la band funziona, ci mancano alcune perle che risplendevano nei lavori precedenti, ma in cambio ho trovato un disco compatto e dei musicisti molto più a proprio agio oggi rispetto a qualche anno fa, in quello che fu effettivamente un disco che vedeva l’importante ed ennesimo cambio dietro al microfono.
Il secondo cd, come detto, è una lunga suite strumentale di circa mezz'ora, divisa in 8 tracce. Diciamo che più che Nightwish, qui parliamo di un lungo egocentrismo strumentale di Tuomas Holopainen. Abbiamo qualche narrato, qualche vocalizzo, ma fondamentalmente sono il piano e le tastiere del mastermind dei Nightwish a guidare il tutto. Sinceramente l’ho trovato molto autoreferenziale, non mancano momenti musicali di impatto, ma anche molti, troppi momenti soporiferi, che forse potranno far felici solo gli amanti delle colonne sonore, perché di questo si stratta, con tutti i pro ed i contro di tale scelta. Ovviamente la produzione della Nuclear Blast esalta ogni singolo suono, ogni sfumatura, ma per quanto abbia apprezzato “The Blue”, “Ad Astra” o “Aurorae”, tutto rimane troppo fine a se stesso, ed immagino che la maggior parte dei metalhead, ascolterà solo per curiosità questo secondo cd, lasciandolo poi per sempre nella propria custodia. “Human. :||: Nature.” insomma funziona grazie ad un buon primo disco, se non ci fosse stato il secondo disco, nessuno se ne sarebbe accorto e saremmo stati anche più soddisfatti.
Ultimo aggiornamento: 09 Aprile, 2020
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I Lutharö sono una giovane band di Hamilton (Canada), dedita ad un melodic death di stampo svedese, ma con molte incursioni nel metal più classico e anglosassone. Tutto questo lo dobbiamo anche all’eclettismo della vocalist Krista Shipperbottom, che passa tranquillamente da un growling soddisfacente ad una buona voce pulita, che raggiunge apprezzabilissimi acuti. Il quintetto canadese è tornato col terzo Ep della loro carriera, intitolato “Wings Of Agony”, che contiene 5 brani per quasi una mezz'oretta di nuova musica.
Leggere che i Lutharö si ispirano a band come Amon Amarth e Arch Enemy mi aveva incuriosito (per inciso ci dicono di ispirarsi anche ai Behemoth e Unleash The Archers, ma anche no, proprio no), ed anche preoccupato, entrambi i gruppi ultimamente fanno leva più sul nome che sul resto, ed in particolare gli Arch Enemy sono andati oltre la trascurabilità, proponendo delle canzoni al limite della sopportazione post adolescenziale.
Per fortuna i canadesi hanno iniziato da poco, e son pieni di rabbia e ispirazione, quindi lontani dalle virate easy listening degli ultimi Arch Enemy, o dalla potenza un po’ troppo fumettosa degli ultimi Amon Amarth. Per quanto melodici, i nostri sanno creare dei riff graffianti e soli tecnici e veloci, ben amalgamati in un contesto comunque oscuro, figlio del metal anni ’80 con un occhio di riguardo ai Judas Priest, e del melodic death anni ’90, con un sapiente uso del vibrato che fa molto viking, così come delle ritmiche in blast beat. La produzione è nitida e moderna, e infonde abbastanza potenza ai singoli strumenti, senza nulla da invidiare a gruppi famosi con alle spalle grandi etichette e disponibilità economica.
In breve, non vi aspettate smielate più pop che metal da “Wings Of Agony”, Krista sa il fatto suo e cerca di imporre sempre epicità ai vari brani, mentre gli altri strumentisti infondono la loro bravura per renderli aggressivi, anche quando siamo di fronte a momenti più orecchiabili come “Blood Lightning”, che ha un giro di accordi sul refrain tremendamente catchy, ma con gusto.
Un buon Ep insomma, composto da diverse atmosfere, ben congeniate, che ci trasportano in una sorta di montagna russa musicale, che non si vieta le melodie, ma lo fa con cognizione di causa, ricordando di appartenere comunque ad un genere musicale che, per indole, non dovrebbe strizzare mai troppo l’occhio al mainstream più pacchiano, se vuole essere preso sul serio.
Ultimo aggiornamento: 30 Marzo, 2020
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I finlandesi Altaria, alle prime battute di inizio millennio, videro la collaborazione con l’ex chitarrista dei Sonata Arctica, Jani Liimatainen, con il quale registrarono “Introduction” e questo “Divinity”. Proprio “Divinity”, uscito nel 2004, è stato tra i lavori più apprezzati dai propri fans. La band è andata avanti tra vari cambi di line up, pubblicando altri 3 album in studio e apparendo in sede live fino al 2016, quando decise di sciogliersi.
A 20 anni dagli inizi, la creatura del bassista Pukkila e del batterista Smedjebacka, insieme al cantante Laiho, e con il resto della line up del 2006, cioè i chitarristi Alanen e Aho, torna sotto contratto con la Reaper Entertainment e, mentre sono pronti per lanciare un nuovo disco in studio, fanno felici i loro fans più affezionati, rimettendo sul mercato il remastering del loro “Divinity”, da tempo fuori catalogo, con due bonus tracks, di cui però non possiamo tener conto, in quanto non ce ne hanno concesso l’ascolto.
“Divinity” è un classicissimo heavy/power album alla finlandese, con molti spunti melodici, abbellito dall’ugola del cantante Laiho che non punta ad acuti assurdi, ma rimane sempre piacevolmente su cristallini toni caldi. Ottimi i soli delle chitarre, molto tecnici ma senza mai scadere nell'autoreferenzialità, mentre i tappeti di tastiere talvolta sanno un po’ troppo di anni ’80, vedi Europe.
Diversamente dai primi Sonata Arctica o dagli Stratovarius, gli Altaria però non eccedono mai nella velocità, anzi se la prendono, per la maggior parte del tempo, con molta calma, e talvolta questa inversione di marcia rende alcune tracce fin troppo mosce, purtroppo. L’unico momento in cui si spinge sul pedale in realtà è con “Stain Of The Switchblade”, per il resto siamo di fronte ad un mid-tempo album, molto patinato, molto elegante, ma anche molto basico a livello di songwriting.
Highlights ne abbiamo trovate nell’ariosa e catchy opener "Unchain The Rain", nell’oscura e rocciosa “Darkened Highlight” (tra i pezzi più interessanti), o nei bei refrain di “Falling Again” e della title-track.
Nel 2020 queste sonorità così semplicistiche, e in realtà poco heavy, potrebbero essere considerate fuori tempo massimo ma, calcolando che questo disco ha 16 anni, lo promuoviamo comunque. Brani buoni ce ne sono, ma ci sono anche soluzioni troppo retrò o easy listening, persino per il 2004. Vedremo cosa gli Altaria riusciranno a tirar fuori oggi, intanto invitiamo all'ascolto di questo remaster ovviamente i fans della band, che aspettavano a lungo il disco nuovamente sugli scaffali dei negozi, ed a chi proprio non può far a meno di un melodicissimo e catchy album metal di stampo nordico, che è sufficiente, ma se avesse avuto un po' di grinta in più dietro le pelli e qualche arrangiamento meno scolastico, avrebbe avuto sicuramente migliore esito.
Ultimo aggiornamento: 10 Marzo, 2020
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Mentre il suo ex compagno d'armi Joey DeMaio si è perso da tempo tra dischi beceri, tristi ri-registrazioni di iconici album, ed un "Final Tour" che dura anni, il grande Ross The Boss, si è saputo contornare di grandi musicisti: Mike LePond su tutti, ma anche Steve Bolognese ed il vocalist Marc Lopes che, è giusto dire, non è all’altezza del bravissimo Eric Adams, ma sa il fatto suo per quel che riguarda range ed interpretazione.
“Born of Fire” non è certo “Kings of Metal” o tutto il repertorio dell’epoca d’oro dei Manowar, non rimarrà nella storia della musica, ma è gran bel disco, e si avvale di una produzione moderna, che rende il suono potente e graffiante al punto giusto.
Qui c’è tutto ciò che vorremmo sentire in un album di metal classico, fortemente americano, che porta la firma di Ross Friedman. Ci sono pezzi speed come il duo iniziale “Glory to the Slain” e “Fight the Fight”, pezzi dal sapore più epico come “Maiden of Shadows”, la stessa title-track, pezzi oscuri e Sabbathiani come “The Blackest Heart”.
Ovviamente Ross The Boss è sulla scena da quaranta anni ormai, qualche traccia sa un po’ di mestiere, ma parliamo di buon mestiere, si sente la voglia di voler ancora colpire i fans con energia e buon gusto, ed alla fine gira tutto bene, ogni vero defender, qualsiasi cosa questo significhi, o più seriamente, ogni amante dell’heavy metal più classico ed epico, che ormai ha perso ogni speranza di sentire qualcosa di vagamente decente da parte dei Manowar, può finalmente godersi qualche nuova canzone, e tirare un sospiro di sollievo, Ross The Boss è l’ultimo vero “King Of Metal”, che ama ancora far musica, senza tanti fronzoli e menate puerili.
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I Californiani Imagika sono in giro dagli inizi degli anni ’90, anche se hanno avuto nel corso del tempo molte fermate ai pit stop, non hanno mai raggiunto l’agognata serie A della musica, ed hanno avuto anche diverse defezioni nella line up. “Only Dark Hearts Survive” è l’ottavo album in carriera, che segue l’ultimo lavoro della band “Potrait Of A Hanged Man”, a ben nove anni di distanza, ma vede il ritorno di quasi tutti i musicisti che hanno fatto parte del primo periodo della band, tra cui l’ottimo vocalist Norman Skinner.
Sempre a metà strada tra un power roccioso di chiara estrazione americana, ed un thrash abbastanza melodico, gli Imagika tirano fuori dal cilindro il loro più classico songwriting, che guarda al proprio passato e a band come i Metal Church ad esempio, ma anche molto al thrash più moderno, pieno di groove e cori da stadio come l’ottima “The Faceless Rise”. Accanto a lei, la power song “Prisoners Of Fate”, l’oscura opener, e la tellurica “Cast Into Damnation” son tutti brani da ascoltarsi con vero piacere. L’altra faccia della medaglia purtroppo c’è e si sente, alcuni brani sono un po’ monocorde, in cui l'unico a spiccare è sempre il talentuoso Norman Skinner, ma gli altri strumentisti, ostentano un po’ di stanchezza e ripetitività sia nei riff che nella sezione ritmica, la quale nei momenti più rallentati diventa fin troppo scolastica e noiosetta.
Gli Imagika ci lasciano quindi un ennesimo album sufficientemente efficace, perché di buoni brani ce ne sono, ma niente di più purtroppo.
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