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Opinione scritta da Luca Albarella

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Opinione inserita da Luca Albarella    13 Novembre, 2013
Ultimo aggiornamento: 13 Novembre, 2013
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Il Rock italiano non è affatto morto come molti vogliono far credere ostentando con fierezza un’esterofilia cronica spesso dettata da un’avversione verso la stessa lingua italiana. In Italia esistono realtà davvero interessanti che affondano le proprie radici in ambito Hard ‘n Heavy prendendo le distanze dai classici stereotipi Vasco-Liga-Litfiba per citare i nomi più conosciuti; è il caso dei romani Ushas che con il loro debutto “Verso Est” dimostrano di avere idee chiare, grinta, buone capacità e tanto coraggio nel proporre certe sonorità in lingua madre. “Fuorilegge” è una legnata Hard Rock davvero trascinante che mette subito in evidenza la potente ugola tagliente di Giorgio Lorito pronto a raccontare la propria voglia di libertà attraverso liriche che a volte dimostrano tutte le difficoltà della lingua italiana.Il timbro e lo stile di Lorito mi ha ricordato tantissimo un certo Jorn Lande o Aurelio Fierro Jr voce dei progster partenopei Mind Key. Complimenti davvero. “Sangue e Carne” mi convince decisamente di più con una metricamente più fluente; in generale siamo vicini al pezzo precedente anche se il taglio più Hard Rock retrò è più spinto e caldo. Bello il solo di chitarra in cui si lancia Filippo Lunardo di scuola Zeppeliniana ma con un piglio decisamente più compatto e moderno. “Io non sono qui” decisamente immediato e più rock ‘n roll e in questo caso anche se non siamo di fronte a un testo ricercato il tutto lega bene complice armonie vocali molto aperte. I toni si smorzano con “La Via della Seta”, un’elegante quanto ricercata ballad blues con leggeri riferimenti orientali sui quali la voce offre una magica interpretazione. Le chitarre sono calde e avvolgenti e finalmente posso apprezzare la sezione ritmica con Guido Prandi al basso e Stefano "Black" Rossi alla batteria (in veste di guest al momento della registrazione del lavoro!!) malgrado quest’ultimo si sia messo in evidenza nei pezzi precedenti con un drumming preciso e trascinante, soprattutto non autocelebrativo. Entrambi disegnano trame ricche di groove che in pezzi di questo tipo sono fondamentali. Siamo arrivati alla title track “Verso Est” ennesimo treno in corsa impazzito e Lorito che canta come un pazzo nel senso buono del termine. Il testo lega decisamente meglio con ciò che gli Ushas vogliono esprimere. Libertà e voglia di abbracciare il percorso della saggezza e dell’individualità energetica buddista. Ritmi decisamente più blandi per “Shri Heruka” e anche il sound è orientato verso un canonico rock seppur spigoloso mettendo in luce ancora una volta capacità tecniche e grande coesione, elemento indispensabile per una vera rock band. Arriviamo a un’altra piccola perla di questo Verso Est; “Dai Tetti Di Gaden” è passionale, caldo e originale per quanto sia difficile essere davvero originali. Le difficoltà sulle liriche ogni tanto emergono ma su questo farò una considerazione finale. Lorito è da brividi; in questo pezzo è emotivo, pulito e melodico, ancora; rabbioso e potente, ottimo controllo del vibrato e pienezza vocale. Posso tranquillamente affermare di essere al cospetto di uno dei migliori cantanti italiani, voci del genere ce ne sono poche in giro. La passione dei nostri per le moto e per il viaggiare liberi da tutto e tutti si rifà viva con l’immediato “Desperados” uno dei pezzi più riusciti. Tre minuti dritti senza troppi fronzoli, chorus apertissimi e va benissimo così. La lirica in questo caso la sento più riuscita legando in pieno con le armonie vocali e con il pezzo in se. “Yama” caldo e avvolgente nel suo incedere e a tratti anche sperimentale. Uno degli episodi che mi ha colpito di più; da rimarcare uno dei soli più intensi del disco. In chiusura l’hard rock roccioso di “Maledetta Notte” cala il sipario su un lavoro indubbiamente di alto livello ma che mi porta a fare la considerazione di cui sopra accennata. Gli Ushas non hanno fatto solo una scelta coraggiosa utilizzando la lingua madre in un canovaccio esclusivamente Hard ‘n Heavy complice l’importante voce di Lorito, ma si sono presi una bella gatta da pelare cercando una comunicazione molto diretta per ciò che concerne il loro Moniker e l’album “Verso Est”, a volte ci sono riusciti a volte meno e la mia è una considerazione dettata anche dall’esperienza personale in merito. In definitiva un lavoro che consiglio caldamente a tutti gli amanti del Rock italiano sanguigno e roccioso. SUPPORTATELI!!

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2.5
Opinione inserita da Luca Albarella    01 Novembre, 2013
Ultimo aggiornamento: 02 Novembre, 2013
Top 50 Opinionisti  -  

Il Rock duro in Spagna vive la sua massima espressione da molti anni a questa parte con gli Heroes del Silenzio e, in ambito più Heavy, direi Avalanch, Mago De Oz e Tierra Santa, per citarne a memoria qualcuno. Di nomi con piglio decisamente più Hard Rock ne ignoro l’esistenza e, sarà probabilmente una mia mancanza, ma il gruppo di cui mi appresto a parlarvi suona del nudo, quanto retrò Hard Rock complice una voce molto Ac/Dc, Airbourne. Mi arriva questo pacchettino direttamente dalla terra iberica e incuriosito inizio l’ascolto di “Play or Die” e già il titolo è tutto un programma. La copertina la vedete da voi, ma due paroline le spenderei sull’artwork di questo autoprodotto di dieci tracce, ponendo l’attenzione su come avere un barcode, ma ignorando quasi completamente il booklet. Ci sono i testi e la foto della band ma nessun nome, il che lo trovo assurdo. Direi di entrare nel cuore della musica. “Play or Die” è anche l’apripista e denota fin da subito pregi e difetti. I pregi sono una grande compattezza di band e, come già accennato, una grande voce adatta al genere, i limiti sono palesi in qualche incertezza tecnica e in una produzione non al top, nello specifico la batteria è davvero piccola, oltre a non offrire soluzioni tecniche di gusto. Il pezzo in se è carino, trascinante, sostenuto da una voce al vetriolo. Proseguiamo con “Runnin’ With Fear” altro inno da canticchiare, diretto e senza fronzoli, la voce tira la carretta come si suol dire, bruttino il solo di chitarra scialbo con un “wah-wah” ossessivo quasi a volerne mascherare i limiti e che inizia a farmi pensare, ma spero di sbagliarmi con i pezzi a venire. “Go Out” è a mio avviso al momento la track migliore. Avete presente un serpente che con fare ammaliante si avvicina alla preda per poi colpire? Il cantato è caldo, graffiato ed evocativo pronto ad aprirsi in un ritornello molto gradevole. Ancora una volta emergono chiari limiti della chitarra che non sembra trovarsi a proprio agio quando c’è da recitare il ruolo da prima donna e disposto solo a tirar giù le mura per capirci. “Cry Baby Cry” è molto Kiss-oriented e percepisco ancora di più la necessità di dimostrare le influenze passate e la musica con la quale si è cresciuti. Il problema non è tanto l’originalità ,che ormai in giro non ne vedo, ma il come si utilizza quel canovaccio riciclato milioni di volte, il che per chi recensisce può essere un problema visto che si ritrova con pezzi molto simili fra loro. "Rebel Child” è potente nel suo incedere, grandi chorus messi in risalto dalla sempre ottima prova del singer. “Endless Road” non si discosta molto dalle composizioni precedenti e il tutto davvero inizia a diventare pesante da digerire. Che dirvi? Sarà che sono abituato da anni a masticare il genere, che alla fine la mia soglia di valutazione si sia alzata verso l’alto, ma presumo invece che gli Hard Buds siano una band che bada di più all’aspetto live che al lavoro in studio, di questi tempi però è decisamente rischioso guardarla in questa prospettiva. “Hell Bless Rock” mi da lo spunto per parlare di una voce che figura come guest dai toni ancora più aspri ai limiti del thrash. Il registro cambia leggermente con la saltellante e più rock‘n'roll “Wild Young”, le voci sono più morbide e pacate e anche le chitarre riescono a tirar fuori qualcosa di meno macignoso. Siamo quasi in dirittura d’arrivo con l’emblematica “Long Live Rock and Roll”. Da segnalare la cover “Venus” delle Bananarama completamente stravolta e, a mio avviso, rovinata. Il progetto Hard Buds dovrà ripartire da ciò che ha di buono, cercando di smussare il grezzo. In bocca al lupo!!

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Opinione inserita da Luca Albarella    17 Ottobre, 2013
Ultimo aggiornamento: 17 Ottobre, 2013
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Le proposte che mi vengono propinate su questa bella e movimentata webzine da quasi un anno ormai, raramente mi hanno colpito al punto che ancor prima di mettermi a recensire abbia ascoltato il lavoro almeno tre volte per intero. Il materiale che arriva è tanto e quindi si ha quell’atteggiamento annoiato e scazzato da manina sotto il mento tipo “vabbè ascoltiamo questi che combinano”. I milanesi Never Trust mi hanno mazzolato per bene e poi accarezzato, poi di nuovo bastonate e ancora di nuovo ammansito. Capite in sintesi cosa rischiano di fare all’incauto ascoltatore? Creano dipendenza. Quando una band crea questo vuol dire che ha confezionato un grandissimo prodotto; indipendentemente dalla caratura tecnica. Qui non troviamo assoli di chitarra mirabolanti, cambi di tempo o una voce particolare, ma il prodotto in se è di taglio assolutamente di prima fascia, internazionale oserei dire. Produzione curatissima, senza sbavature, completamente prodotto negli States; giusto per mettere le cose in chiaro su quali siano le intenzioni della band. Il termine di paragone è palese con gli Halestorm o Fireflight per dare un’idea che ci troviamo di fronte a un ottimo Rock‘n'Roll moderno, complice anche il timbro a tratti incisivo e graffiato della singer Elisa Galli. A questo punto direi di iniziare a parlare di “Morning Light”. Ottimo apripista è “Fade Away”, produzione ricca ma dinamica, ritornello presente e orecchiabilissimo e chitarre che sanno quando avvolgere e ammaliare e quando tagliare come cesoie. La voce di Elisa enfatizza al meglio l’ottimo inglese di cui sembra davvero padrona. “Worthless” è più ricercata e sperimentale in alcune soluzioni, anche se marginali rispetto a impatto e chorus ancora una volta in prima linea. Inizio a definire anche l’ottima sezione ritmica quadrata e ben affiatata. Proseguiamo con “Rebound”, spettacolare power-ballad dal sapore lievemente malinconico, ma pur sempre carico di passione. Una vera hit da classifica e ogni altra parola è superflua. “Honey” è un altro treno in corsa impazzito. Ottimo solo di chitarre, privilegiando sempre il gusto melodico al virtuosismo, e sezione ritmica ancora una volta precisa, rocciosa e carica di groove. Rischia di diventare una celebrazione assoluta per i Never Trust ma che posso farci se anche “More Than This” è un altro piccolo capolavoro? Meno esplosivo e più ricercato nelle strofe, ma sempre ficcante nei chorus. Elisa dimostra di essere a suo agio in ogni contesto interpretando al meglio ogni singola parola e nota. Seconda ballad dai tratti acustici, delineando strade più soft in cui i quattro ragazzacci dimostrano di saper essere molto intimisti con la freschezza che solo una giovanissima band può avere. Grande pathos ed energia positiva. “Morning Light” è ruffiano quanto basta con il solito piglio commerciale; di impronta più punk‘n'roll con l’irruenza che ne caratterizza. La manciata di piccole perle inanellate continua con “Against The Tide”, la formula resta vincente, ancora una volta mi sento di rimarcare l’ottimo drumming. I ragazzi sanno bene di non aver riscritto le coordinate del nuovo hard rock, ma ciò che fanno dimostra quanta bontà ci sia nella musica fatta con il cuore e non artificiosa e finta cercando la novità a tutti i costi. Siamo quasi in dirittura d’arrivo con gli ultimi due episodi; il riuscitissimo punk‘n'roll di “Lucky Star” e la stupenda e apertissima power ballad “What Is Mine”, altra potenziale hit da classifica, supportata da un grande video e rotazione a manetta. Chiude il lavoro la versione acustica di “Against The Tide”, con la magia che solo le chitarre acustiche e un pezzo vincente di per se possono donare. Ok ragazzi, credo di aver detto veramente tutto di questi giovincelli e sono convinto che, per qualcuno, sarò stato troppo celebrativo. I prodotti di un certo tipo pronti a regalare scariche di adrenalina devono SEMPRE essere elogiati. Avanti Never Trust!!

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Opinione inserita da Luca Albarella    15 Ottobre, 2013
Ultimo aggiornamento: 15 Ottobre, 2013
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La band di cui mi appresto a parlarvi non ha certo bisogno di presentazionib palesemente referenziata per ciò che negli anni è riuscita a costruire. Personalmente mi sento di fare una premessa: considerando che non sono esattamente un fruitore del genere power–gothic con voci femminili, ergo cercherò di vivere l’ascolto di questo loro ultimo lavoro in studio con distacco e non preda di entusiasmo da fan incallito. Riconosco Tristania come combo dotato di grande personalità, lontanissima dal voler cavalcare l’onda mainstream intrapresa con gli ultimi lavori da una band di cui mi rifiuto anche solo di farne menzione. L’avvicendamento alla voce femminile Stene-Demurtas non apporta significativi cambi di rotta, malgrado ci sia una produzione più nitida e moderna, nello specifico mi riferisco a “Rubicon” che presenta la nuova singer e in parte ad “Illumination”. Seconda prova dunque per l’italiana Mariangela Demurtas, singer dotata di una voce che potrebbe prestarsi al blues e ancor di più al soul per tecnica, intensità e colore. Il settimo lavoro in studio “Darkest White” ci presenta una band che in parte fa un passo indietro, anche per il ritorno al cantato maschile growl/scream e per una maggiore aggressività e ricercatezza nella scelta delle linee vocali. “Number” oscilla abilmente in territori dove l’irruenza e acidità del black metal si fonde con la magniloquenza avvezza al genere. Chitarre rocciose e voce growl maschile accompagnano abilmente la calda interpretazione femminile in un chorus di chiaro stampo gothic. “Darkest White” rafforza ancor di più le premesse espresse in merito a questo platter. Siamo ai limiti del thrash di stampo moderno e la voce femminile in questo caso sarebbe stata un attimino schiacciata e penalizzata. Uno di quei pezzi che in ambito live miete vittime. “Himmelfall” è cadenzato e cupo; il cantato maschile ritorna pulito con un Kjetil Nordhus decisamente profondo ed evocativo e la carismatica Demurtas dona una prestazione da brividi con un cantato fluido e naturale. Questo è ciò che davvero mi piace di questa singer, la sua estrema naturalezza a differenza di tantissime sue colleghe che vantano studi lirici, ma che delle vere voci liriche non hanno nulla. “Requiem” è al momento il pezzo meno immediato e ricercato che vive più movimenti non perdendo mai di vista la grande peculiarità che caratterizza il quintetto norvegese, ovvero linee vocali sempre ispirate interpretate magistralmente. Per certi versi “Diagnosis” segue molto da vicino l’incipit della traccia precedente, ammetto di non essere stato molto coinvolto, pur riconoscendo la bella prova dei due singer che è il caso di dire fanno proprio la voce grossa, intrecciandosi e armonizzandosi alla perfezione. A questo punto, incuriosito, arrivo al giro di boa del disco. Toni decisamente teatrali in “Scarling”. Possente nel suo incedere ma, al tempo stesso, dinamico dove arrangiamenti orchestrali fanno capolino ed ai quali, anche se a gusto esclusivamente personale, avrei dato maggior rilievo (caratteristica comune a tutto il disco!!). “Night on Earth” ripercorre sentieri più aggressivi e acidi enfatizzati dai growl duellanti con una Demurtas aperta e potente nei chorus come mai finora. A dimostrazione che il tutto è stato curato nei minimi dettagli, ben supportato da una produzione davvero importante. “Lavender” è l'unica ballad del disco, se la si può etichettare così. Non aspettatevi qualcosa di facile presa perché ormai, arrivato alla traccia numero otto, posso confermare che il disco in questione è un lavoro difficile, rivolto esclusivamente ai fans dei Tristania, consapevoli di trovarsi al cospetto di una band sincera che fa del songwrting ricercato il proprio marchio di fabbrica. “Cypher” presenta il lato più doom e apocalittico; mi ha ricordato molto i primissimi My Dying Bride e, ponendo l’attenzione sulla bella prova vocale maschile, Nordhus dimostra di sapersela cavare sui toni caldi, ma anche su registri medio alti offrendo un’ottima prestazione interpretativa. In chiusura troviamo la sintesi di ciò che la band è riuscita a proporre in questo articolato e non facile prodotto: “Arteries” offre aggressività, potenza, toni epici e chorus ficcanti che in questo caso sono decisamente aperti e orecchiabili. In conclusione ribadisco che i Tristania sono una band dalla fortissima personalità che non vanno di sicuro dietro a mode del momento e facili scorciatoie battute da tanti gruppi e questo per me è un grande pregio. Un lavoro da assaporare lentamente, con il desiderio di scoprirne ad ogni ascolto nuove caratteristiche. Le note negative (non le chiamerei nemmeno così, ma dettate da un gusto personale!!) sono lo spazio esiguo dato alla voce femminile. Mariangela Demurtas mi ha davvero sorpreso; una voce stupenda capace di trasportare con naturalezza e, allo stesso tempo, perizia tecnica l’ascoltatore. “Darkest White” una piccola perla di vero gothic senza compromessi che potrà far storcere il naso a qualcuno, ma sarà apprezzato al tempo stesso da palati raffinati.

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Opinione inserita da Luca Albarella    28 Settembre, 2013
Ultimo aggiornamento: 28 Settembre, 2013
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La band di cui mi appresto a parlarvi viene da una terra tristemente famosa nell’ultimo ventennio per le vicende che riguardano le guerre civili d’indipendenza della ex Jugoslavia e magari per le bellezze locali (ogni tipo di bellezza, a buon intenditor!!), ma sicuramente non particolarmente riconosciuta in ambito hard‘n'heavy internazionale. Mi preme pensare positivamente al combo sloveno in questione, al desiderio di infondere energia positiva attraverso la musica. Gli Stone Orange sono autori di un interessante hard rock dai leggeri connotati progressive, “The Dreamcatcher” è un dischetto che si lascia apprezzare, pur avendo qualche caduta di tono, godendo di una produzione superiore alla media, ma non bombastica e moderna. Un lavoro godibile che ha il gran pregio di non stancare, malgrado non spicchi per idee e musicisti talentuosi. “Broken Man” è un piacevole apripista, rock‘n'roll scanzonato, buoni chorus e forti richiami ai mostri sacri del genere. Chitarre non eccessivamente invadenti lasciano spazio a una buona voce chiara e pulita. “I Am (Whatever)” è ricercata nella scelta delle linee vocali, decisamente più cadenzata e antemica, ma non appesantita da chitarroni moderni che in questo caso donano leggerezza al tutto. Ho certezza ormai che l’intera produzione seguirà queste direttive. Proseguiamo con “Pride And Pain”, hard rock a tratti progressive, stupendo il ritornello arioso e malinconico al tempo stesso, da cantare a squarciagola. I tempi si alzano di nuovo e ci troviamo di fronte il punk‘n'roll di “Rockin’ & Rollin’”, già il titolo è tutto un programma, non lascia gridare al miracolo, due minuti e mezzo senza infamia e senza lode. Arriva l’immancabile ballatona, occhio però perché “It Keeps On Raining” è raffinata e non pacchiana e scontata. Avrei preferito un’interpretazione vocale più sentita e arrangiamenti più curati, ma nel complesso è ok. “Lovetron” è hard‘n'heavy melodico di pregevole fattura dove l’unica pecca è la totale mancanza di originalità e, anche in questo caso, arrangiamenti più curati avrebbero fatto fare il salto di qualità a un pezzo, ripeto, ben eseguito ma piatto. “Scare Me” mi convince decisamente, cupa inizialmente per poi aprirsi ed esplodere in chorus avvolgenti, bella la solista che finalmente riesce a emergere e ritagliarsi lo spazio che merita; nulla di autocelebrativo ma gradevole. “Nobody Cares”: mid tempo ruffiano a tinte blues, sembra decisamente ispirato, carico di malata sensualità che ahimè il singer purtroppo non riesce a trasmette appieno, ci avrei visto un cantato alla Coverdale per intenderci. “Whites Of Their Eyes” è un ibrido riuscitissimo fra i Priest del periodo “Screaming For Vengeance” e i Queensryche di “Rage For Order”, chitarre taglienti e “flangerate” e keys essenziali (forse troppo!!), peccato per un basso che in questo contesto avrebbe potuto donare quel tocco di groove di cui il pezzo necessitava. In chiusura troviamo la strumentale eterea “Frozen Sky” e la seconda ballad “The Age Of Stars” ricca di dinamica; acustica per poi crescere in chiave elettrica, rappresentando per l’ennesima volta il lato più malinconico di una band che, a mio modesto avviso, rende molto meglio quando si poggia delicatamente in questi ambiti, viceversa paga dazio se c’è da pigiare il piede, non avendo la grinta carismatica che contraddistingue la classica band hard rock. In definitiva “The Dreamcatcher” è un lavoro da tenere in considerazione e che lascia intravedere sicuri miglioramenti per una band che può osare di più.

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Opinione inserita da Luca Albarella    15 Settembre, 2013
Ultimo aggiornamento: 15 Settembre, 2013
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Ragazzi avete presente The Hostel? Ok, caricatelo su PC, togliete l’audio e, una volta fatta vostra una copiuzza di questo omonimo lavoro di cui mi appresto a parlarvi, fatelo girare da colonna sonora. Gli svedesi Hex sono autori di un horror metal con elementi industrial; prodotti da Logic(Il)logic, distribuiti da Andromeda e curati in veste di booking/agency dalla attivissima Atomic Stuff.
Direi di iniziare a snocciolare il dischetto in questione premettendo che ci si trova al cospetto di una produzione oserei dire impeccabile.
Synth malati e acidi introducono la bellissima e trascinante “Succubus”, voce acida perfettamente integra al genere e chitarroni ultra compressi. Industrial che a volte strizza l’occhio a Manson, a volte invece mi ha ricordato il periodo più catchy del mito italiano Steve Sylvester e dei suoi Death SS, mi riferisco a lavori tipo “Panic” per capirci. Le ottime premesse vengono mantenute con un’altra potenziale hit, “Little Devil Ride” mantiene ad alti livelli gli elementi cardini del genere con una produzione davvero granitica e pulita, di caratura internazionale. Una breve litania tutt’altro che rassicurante ci introduce alla più ossessiva e aggressiva “Ave Satani”, la voce malata di Hygren si alterna a una seconda voce dai toni decisamente growl, ma anche in questo aleggia un rock‘n'roll malato pronto ad essere prontamente vomitato con tonnellate di decibel in sede live. I toni si fanno più rarefatti e cupi con “Voodoo Girl”. Stupendo il solo di chitarra e la relativa coda in chiusura; il solista Jorgen Vard dimostra in questo frangente di essere un chitarrista di gusto e talento impreziosendo una piccola gemma di hard rock “sabbathiano”. Il mio viaggio claustrofobico e perverso continua con la stupenda “Hellbound”. La mia convinzione che sia questo il pezzo scelto per trascinare l’intero platter è confermata dalla presenza promozionale sul “tubo” e in altri circuiti promozionali. Basso pulsante dona tanto groove a un pezzo già di per sé ammaliante. La breve e orrorifica “Intermission” ci catapulta nel secondo capitolo più dark del lotto; “7ven” è monolitico meno diretto e necessita di un ascolto più accurato per essere apprezzato, in compenso offre soluzioni industrial più presenti e un hammond fa capolino a rendere il tutto più retrò. “Dead Inside” è un altro colpo basso, avrei preferito una maggiore sperimentazione per ciò che concerne l’utilizzo di Synth e dare respiro a un lavoro che, arrivato alla traccia numero otto, potrebbe anche stancare. Nulla da eccepire, ottima esecuzione e riffing ai limiti del thrash nel supportare le strofe ma, ripeto, mi aspettavo qualcosa di più ricercato che fortunatamente arriva in mio soccorso con la bellissima “Grub Girl”, rock‘n'roll tondo e avvolgente, i Kiss che incontrano Alice Cooper e Ozzy in un cocktail di follia pura. “Sin Eater” rischia di farmi diventare ripetitivo. Abbiamo impatto, bei chorus, ma purtroppo qualcosa di già sentito troppo vicino ad altre composizioni dello stesso platter. Peccato davvero, viste le premesse iniziali credevo mi trovassi al cospetto di un grande disco sotto tutti i punti di vista. “Lady Death” alleggerisce il tiro fortunatamente e ci troviamo di fronte a un buon hard rock con una bel solo che si lascia ampiamente apprezzare ancora una volta per gusto e non sfoggio di tecnica fine a se stessa. Siamo in dirittura d’arrivo, “Spider Baby” pur restando monolitica e oppressiva, riserva un ritornello orecchiabilissimo, il pezzo più asciutto e scarno del lotto ma particolarmente fruibile in un contesto live. “Haunted Hill” in chiusura, racchiude tutto il disagio e il malessere che gli Hex possono infondere quando i tempi calano e la sperimentazione riesce a prevaricare i muri di chitarre. Siamo alle conclusioni. Che dire, il quintetto svedese ha sicuramente confezionato un bel lavoro di Horror-industrial metal ma, come già accennato, con un pizzico di coraggio e sperimentazione in più e con qualche pezzo in meno sarebbe stato perfetto, fermo restando che il livello è decisamente alto; consigliatissimo agli amanti del genere!!

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Opinione inserita da Luca Albarella    12 Settembre, 2013
Ultimo aggiornamento: 13 Settembre, 2013
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La Band di cui mi appresto a parlarvi proviene dalla bella scena fiorentina, attiva e aperta ad ogni tipo di sonorità. Il Rock ha avuto la sua punta di diamante in “Via dei Bardi” e, volente o nolente, odiati e amati, ma se parli di Rock in senso lato non puoi non associare Firenze a quel discorso altisonante e carismatico nato da zero, dalle cantine, dalla polvere; è stata la massima espressione, ma ci sono state altre belle realtà che, seppur di minor rilievo, artisticamente hanno creato un bel movimento socio-culturale. Piccola breve parentesi per introdurre una giovane band che non ha nulla da spartire con il “cornacuore”, ma lega a filo doppio le proprie influenze con i nomi più altisonanti dello street ‘n'roll d’oltreoceano. “Let’s Roll”, un EP di cinque tracce, dimostra quanto il combo fiorentino voglia mettere subito le carte in tavola decisi a darmi una bella scoppola, non posso fare altro che arrendermi a tanta arroganza lasciandomi “rockenrollare” di brutto. Mi stappo la mia piccola birretta (nastro azzurro fetente ed economica!!) e si parte con “Let’s Go”. La scuola è Motley Crue, L.A. Guns, Sex Pistols, voce sguaiata, chitarroni ruvidi e di impatto e ritornello di facile presa. Non mi hanno convinto alcuni passaggi vocali e, in generale, voce troppo effettata e leggermente fuori dal mix complessivo. “Midnight” è più articolata con belle chitarre che dialogano nella giusta misura senza pestarsi i piedi, anche il cantato in questo caso mi convince di più; malgrado la scuola street’n roll sia sempre presente, ho notato buone idee e originalità per quanto un genere abbastanza chiuso e definito possa offrire soluzioni davvero originali. ”Thief Of Love” è una power ballad strutturata in modo egregio offrendo emozioni più variegate esaltando le buone capacità tecniche di una band capace di essere anche raffinata e intimista. “Can’t Stop” al momento è il pezzo che mi convince di più; decisamente caldo, trascinante ed ottimamente eseguito; chitarre in bella evidenza anche per ciò che concerne la scelta dei soli, il tutto ha un piglio Hard Rock e la voce che, malgrado non abbia il tipico “graffiato”, dimostra di stare più a suo agio quando c’è da tirare in alto. La trascinante e blueseggiante “Beach Blues”, ultimo atto di "Let’s Roll", conferma un’idea di base che mi sono fatto riguardo la band fiorentina. A parer mio ci sono le possibilità per osare e lavorare affinché il sound diventi più originale e moderno, le capacità tecniche ci sono tutte, ma ovviamente dipende dalle aspirazioni che si hanno. Ci sono band che amano mettersi in discussione preferendo il lavoro in studio e altre più propense allo stage fregandosene altamente di essere originali. Ad ogni modo un buon lavoro, a parte qualche piccola sbavatura in fase di produzione, per questi Milf che dimostrano di saperci fare, teniamoli d’occhio!!

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Opinione inserita da Luca Albarella    16 Luglio, 2013
Ultimo aggiornamento: 19 Luglio, 2013
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Quando mi è stato proposto di recensire questo prodotto inizialmente ho avuto non poche remore nel farlo e mai avrei creduto di trovarmi in difficoltà nel giudicare una band e un artista che in generale suona un genere che seguo da anni, ovvero un hard rock a tinte epiche. Trovandomi in difficoltà nel giudicare questo “Once Upon a Long Ago”, ho deciso di fare prima le necessarie premesse e poi addentrarmi nel consueto “track by track”. Produzione scarsa, voce poco incisiva bianca e traballante, inglese non perfetto e suoni che sembrano uscire da una tastiera Bontempi anni ’80. Detto questo e ingoiato il boccone amaro e con grande dispiacere mi accingo a parlare di ciò che di buono può esserci per ripartire da zero o quasi.
“Once Upon a Long Ago” ha una buona linea vocale melodica che non pretende di stravolgere nulla a ciò che il genere per certi versi impone; il pezzo in sé potrebbe essere carino, se non fosse per la voce e per i brutti suoni. “Sensual Woman” è una bella power ballad hard rock/aor, anche in questo caso nulla di innovativo, ma almeno gradevole all’ascolto e, con un cantato e con una produzione diversa, il risultato sarebbe stato migliore, segno che Dimitri in veste di compositore non è affatto male. “Alone” è una delicata ballad introspettiva e carica di pathos; almeno concettualmente. Non voglio più ripetermi. Proseguiamo con “Memories of You” dal sapore Aor, gradevole e leggero si lascia facilmente memorizzare e aumenta la desolazione e tristezza per la situazione generale che mi porta a “Time Has Gone”. Dimitri prova a cantare su registri medio-bassi e un tantino meglio riesce a rendere ma, in questo caso, anche la linea vocale non riesce a farmi risollevare il morale, e quindi senza troppi indugi vado avanti con la rocciosa “Feel the fire” confermando che Dimitri riesce a sviluppare anche idee carine, ma è tutto il contorno che poi manca. Credo sia giunta ora di mettere fine a questa recensione e, a onor di cronaca, i pezzi a seguire sono “Dreaming”, “What do you Want” , “Love at First Sight”, “Girl From The East”.
Dimitri ho cercato di mantenere un certo aplomb, mi spiace, ma non ci sono riuscito.
Produrre un disco a questa maniera nel 2013 non è soddisfacente, anche perché chi deve valutarti si beccherà probabilmente i tuoi improperi. Non si ha la possibilità di produrre un disco? Pazienza; si aspettano tempi migliori. Purtroppo, come ormai è noto, mi trovo anche dall’altra parte della barricata e, visto che di tanto in tanto incrocio scribacchini “crucchi” che cercano di pescare il pelo nell’uovo, mi rattrista molto (come tanti altri che decidono di non sbandierarlo; io lo faccio perché, quando c’è da aiutare chi merita, la mia valutazione sarà sempre un po’ più ampia, viceversa ……!! nda). Ok passo e chiudo, anche un tantino triste per la recensione più brutta, non solo per la qualità del prodotto.

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Opinione inserita da Luca Albarella    11 Luglio, 2013
Ultimo aggiornamento: 11 Luglio, 2013
Top 50 Opinionisti  -  

Il lavoro di cui mi accingo a parlarvi dimostra ancora una volta che ormai in Italia non siamo pronti (fortunatamente!!) solo per fare epic e power metal, ma di confrontarci all’estero con un genere arduo a cui rapportarci; Hard rock-street-glam-AoR, a volte troppo frettolosamente e ironicamente bollato con “Hair Metal”. E’ risaputo, il nostro paese pullula di rockers novizi e vecchi nostalgici come il sottoscritto che non ne hanno mai abbastanza di un genere a mio avviso assolutamente in vita, almeno artisticamente, e non morirà mai seppur ammaliato da produzioni più moderne come è giusto che sia.
Discorso diametralmente opposto per ciò che concerne la qualità delle band e la difficoltà nel reperire musicisti avvezzi alla proposta in questione.
I friulani Roxin’ Palace riescono a convincermi pienamente di quanto amore abbiano per un genere discograficamente morto e, con l’aiuto della teutonica Saol Music, producono il loro primo disco omonimo di grande rilievo. E’ tempo di iniziare a parlarne.
“Roxin Palace” è un impetuoso biglietto da visita della band friulana; grande produzione moderna calda e compatta. Perfetto ibrido fra Crue e Hardcore Superstar; la band svedese per il tipo di produzione moderna che sarà l’incipit di tutto il platter. Ritornello che si lascia canticchiare a tutto volume strapazzandovi senza tregua. Il cantato di Axel Lessio è perfettamente integro al genere e forse con una maggiore dose di melodia nel timbro, il che non guasta. “Wildest Party” è un’altra scarica di adrenalina e il cantato, in questo caso, ricorda molto Jocke Berg degli Hardcore Superstar e Austin Winkler degli Hinder. Quindi non altezze vertiginose, ma un graffiato melodico dimostra la grande attitudine di Axel e il paragone mi è servito solo per dare un’idea in quanto il frontman non ha nulla da invidiare ai suoi più quotati colleghi. “Relaxin’ Shock 108°” potrebbe essere stata scritta dai veri Skid Row, quelli di "Skid Row" e del granitico “Slave To The Grind”; notevole il solo di Alessandro Corona (dalla scheda in mio possesso deduco sia lui la chitarra solista!!) che dimostra di avere anche ottima tecnica e non solo cuore e sudore. “We are losing both” è di matrice più settantiana e cupa inizialmente, per poi aprirsi in un ritornello quasi AoR. A dar manforte ad Axel dietro al microfono troviamo Damna degli Elvenking. Ho perso le tracce da anni della band in questione, ricordo che proponevano una sorta di folk metal, ma il cantante attuale dimostra di cavarsela alla grande anche sullo street/hard rock; non è una questione di pura estensione ma di approccio. Ritornando al nostro dischetto, direi di andare avanti con “Viper’s Advice” e si ritorna su territori di un rock moderno e pesante. Cupo per ciò che concerne produzione e utilizzo delle chitarre sempre sorrette da linee vocali e cori tipicamente sleazy. Le mie orecchie trovano un attimino di ristoro con “Gothic L.A.”, bella ballatona che, per come è strutturata e per le armonizzazioni sui chorus, sembra uscita dalla penna di Schenker e dei suoi Scorpions. Trasuda feeling, tanta passione e malinconia con un bridge molto retrò pronto a lanciare un ritornello stupendo non troppo scontato come ci si potrebbe aspettare. Piccolo gioiellino aor in cui un po’ tutti i membri riescono a ritagliarsi il proprio spazio come è giusto che sia. “Empty Virus” è un punk‘n'roll carino e ben suonato, non lascia certamente gridare al miracolo, ma ripeto si lascia ascoltare piacevolmente senza particolari sussulti. “Collapsin’ Parks” è malato e acido quanto basta almeno per come entra e pian piano si sviluppa dal sapore più hard‘n'heavy, ma il solito ritornello catchy ci riporta su territori stradaioli e polverosi. Uno dei miei pezzi preferiti in assoluto. Arrivati quasi in dirittura d’arrivo, troviamo il secondo ospite alla voce che risponde al nome di Demian Von Dunkelwald, frontman degli industrial Overnuit Machine. Azzeccatissimo il connubio, in quanto l’ospite in questione poggia la sua potenza vocale su basi ritmiche metal corpose dal taglio melodico. “Modern Middle Ages” è un cingolato pronto a schiacciare l’incauto ascoltatore; da evitare accuratamente l’ascolto in cuffia. Il validissimo platter si chiude con la ruffiana “Tears on The Road” dove i cinque ragazzacci tributano doverosamente gli anni d’oro dello street/hard rock e, anche se posto in chiusura, potrebbe tranquillamente essere estratto come singoletto. Bene ragazzi, sembrerebbe essere tutto, mi preme però spendere due parole sulla produzione assolutamente competitiva con i grandi nomi del genere. Missato da Fabio D’amore (bassista dei Serenity!!) e Ivan Moni Bidin agli Artesonika Studios e masterizzato da Staffan Karlsson (ha lavorato per nomi quali Roxette, Arch Enemy, ecc!!) Bello anche l’artwork molto urban style ed essenziale al tempo stesso. Nulla è stato lasciato al caso e in chiusura mi andava di rimarcarlo; “Roxin’ Palace” DEVE ESSERE VOSTRO!!

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Opinione inserita da Luca Albarella    26 Giugno, 2013
Top 50 Opinionisti  -  

Progetto italo-americano altisonante di cui sto per parlarvi che vede alla voce Mr. Mark Boals. Mi rifiuto di presentare il nome in questione e spenderei qualche parola in più su chi ha reso possibile questo piccolo gioiellino di hard ‘n heavy prodotto dalla VideoRadio.
Frank Caruso e Corrado Ciceri rispettivamente chitarra e batteria dopo vent’anni e esperienze di gran livello artistico quali Firehouse, (hard rock band meneghina in parte debitrice di omonimia con la più quotata band d’oltreoceano ) Arachnes (power prog band italiana con 8 album all’attivo e grande rilevanza per il mercato nipponico molto recettivo a certe sonorità ) si rincontrano e danno vita a questo nuovo progetto Thunder Rising. Di lì a poco contattano Boals, il quale accetta volentieri la proposta offrendo pieno supporto scrivendo linee vocali e testi. Inizia un lavoro intenso di songwriting fra Caruso e Boals e in pochi mesi il lavoro esce fuori in maniera del tutto naturale e veloce. La band va a delinearsi definitivamente con altri due nomi di esperienza, Gabriele Baroni al basso (anche lui con Arachnes) e Andy Ringoli degli Homerun (pregevole realtà hard rock figliocci dei Gotthard stilisticamente e apprezzati in Giappone). Ora credo sia arrivato il momento di fare un viaggetto in compagnia dei Thunder Rising e del loro omonimo debut album.
“Something to Believe” è il classico apripista di un album di questo tipo. La produzione è cristallina ma calda al tempo stesso e il sound è decisamente hard rock moderno ottimo tappeto sul quale Boals disegna linee vocali pur sempre vicine al suo intenso percorso artistico più vicino all’hard rock/aor degli eighties. Vocalmente? E’ Mark Boals, nulla da aggiungere. In “Without You” si fa notare l’esperienza di Caruso come arrangiatore e l’esperienza maturata anche in altri campi esuli dal rock duro con orchestrazioni presenti ma mai eccessive. Le strofe in se potrebbero lasciar pensare a un pezzo più granitico ma il chorus è di un AOR raffinato e americanissimo. Apparentemente nulla di nuovo o originale, ma se c’è qualità questo aspetto credo possa passare in secondo piano. “Without You” si fa ascoltare ripetutamente e ho avuto difficoltà nel proseguire il mio viaggio con la rocciosa “Live Fast”. Ritorniamo a fare il verso a Nickelback, Alter Bridge, Staind. Synth introducono un vero e proprio assalto frontale privo di orpelli come il genere impone. Boals è aggressivo e tagliente dimostrando di calarsi pienamente nel cantato di questo genere. Arriva il momento della tregua con la bellissima ballad “An Angel Cries” dove Boals concede momenti di grande interpretazione giocando su toni più caldi e dimostrando di essere a suo agio in qualsiasi contesto. Sembra un monologo pro Boals ma se alla voce è stato reclutato un personaggio del genere ci sarà pure un motivo no? Questo non deve lasciar pensare che gli altri quattro siano semplici spettatori perchè siamo al cospetto di musicisti che personalmente contrattualizzerei pur di averli con me. A parte le battute proseguiamo con “Tonight” messo strategicamente a fare da ponte con il pezzo precedente. Una Power Ballad orecchiabilissima nelle linee vocali ma arrangiata in maniera magistrale atta a mettere in luce qualora ce ne fosse bisogno l’abilità dei cinque. Anche in questo caso c’è il “rischio” concreto di pigiare il ditino sul tasto play più volte. “Hip Hop Blues Inspiration” un hard rock blueseggiante strumentale carico di pathos e feeling che scorre via senza annoiare e se qualcuno riuscisse a consigliarmi un album interamente strumentale che segue la scia del pezzo in questione gliene sarei grato. Siamo quasi in dirittura d’arrivo ed è il momento della seconda versione di “without you”; definirla acustica è riduttivo, in quanto è solo concettualmente acustica. Quindi scordatevi le solite due chitarrine acustiche messe in croce e abbracciate un sound ricco di percussioni, cori e tanto groove. A questo punto perché non scrivere un altro inedito seguendo questa direzione? In chiusura troviamo il secondo strumentale decisamente più raffinato del precedente e vicino ai vari Satriani, Petrucci, Vai e l’elenco potrebbe continuare. Bene ragazzi, in conclusione l’unico appunto che mi sento di fare è sulla durata del dischetto e sulla scelta artistica di proporre otto pezzi; sei cantati ma di cui uno riproposto in versione acustica e due strumentali. Detto questo non mi sento di togliere punti alla valutazione finale in quanto la band e la produzione tutta avranno avuto i loro buoni motivi per optare su una scelta del genere. Ora senza indugi fate vostra una copia di questo lavoro. Consigliatissimi!!

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