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Opinione inserita da Virgilio    29 Giugno, 2021
Ultimo aggiornamento: 29 Giugno, 2021
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Gli sloveni Skyeye giungono al loro secondo album, "Soldiers Of Light", che segue di quattro anni "Digital God". Facciamo subito una premessa per mettere in chiaro che parliamo di una band maideniana fino al midollo e che, per quanto il loro sia un buon disco, non si tratta certo di qualcosa di paragonabile ai capolavori della band britannica. Se dunque non vi interessano i gruppi clone e preferite gli originali, per voi la recensione può anche finire qui. Se invece non avete preclusioni di sorta, possiamo dire che gli Skyeye riescono a proporre una serie di buone canzoni, sempre scandite da poderosi riff, una sezione ritmica veloce e dirompente e la voce del cantante Jan Leščanec, sicuramente emulo di Brice Dickinson, ma anche prodigo a sciorinare acuti a più non posso. In particolare, si mettono in evidenza tracce come "King Of The Skies", la title-track e "Constellation". A parte poi un paio di strumentali che fungono da intro, ci sono poi invece un paio di tracce alquanto lunghe, ovvero "Brothers Under The Same Sun", che annoveriamo senz'altro tra gli episodi più convincenti e la conclusiva "Chernobyl" che, per quanto presenti buone idee, probabilmente, a nostro avviso, avrebbe funzionato meglio se fosse stata snellita appena un po'. Niente male una ballata con ritornello in crescendo come "Eternal Starlight"; non particolarmente significativa, per contro, qualche altra traccia, come la bruttina "Son Of God". Insomma, gli Skyeye hanno senz'altro tante buone qualità e dimostrano di possedere diverse frecce al loro arco: se tirassero fuori un po' più di personalità o lavorassero maggiormente sul proprio stile per renderlo un po' meno derivativo, dimostrerebbero tuttavia di possedere una caratura di ben altro livello che oggi, ad essere sinceri, non possiamo loro ancora riconoscere.

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Opinione inserita da Virgilio    26 Giugno, 2021
Ultimo aggiornamento: 26 Giugno, 2021
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Attivi da circa vent'anni, i Loch Vostok ritornano con un nuovo album, intitolato "Opus Ferox - The Great Escape" e una line-up alquanto rinnovata: non c'è più, infatti, il tastierista Fredrik Klingwall e c'è un nuovo bassista, Patrik Janson (The Murder Of My Sweet); soprattutto, però, il leader e fondatore della band, Teddy Möller, ha deciso di concentrarsi sulle chitarre, lasciando per sé solo il cantato in growl, reclutando per le parti in chiaro un nuovo singer, Jonas Radehorn (The Citadel, Falling Down). Una scelta davvero azzeccata, perché il nuovo cantante dimostra di possedere una voce davvero straordinaria e una versatilità fuori dal comune. Proprio quest'ultima caratteristica, peraltro, risulta molto utile per una band come i Loch Vostok, il cui stile è sempre stato molto aperto a varie contaminazioni. Sotto questo profilo, un aspetto che colpisce è la grande quantità di citazioni espressa dalla band svedese, che nei vari brani sembra divertirsi ad inserire passaggi che stilisticamente possono rimandare a svariati gruppi, tra cui potremmo citare Nevermore, Dream Theater, King's X, Enchant, Emperor, Pain Of Salvation, Evergrey, Blind Guardian, In Flames, giusto elencando i primi che ci vengono in mente. Questo non significa però che i Loch Vostok si limitino ad emulare le loro band di riferimento, anche perché altrimenti rischierebbe di venirne fuori un frullato difficile da mandare giù: al contrario, il loro stile si focalizza su un prog metal alquanto lineare, cioè caratterizzato da brani con strutture non particolarmente intricate ma con qualche ritmica un po' più complessa e con un buon gusto melodico nei refrain, costruiti attorno alla splendida voce di Radehorn, di tanto in tanto supportato ai microfoni dal growl di Möller. Certo, forse, nonostante si tratti addirittura dell'ottavo album della band, si fa ancora un po' fatica ad individuare un autentico trademark, un sound che li caratterizzi e li renda davvero riconoscibili. Ad ogni modo, "Opus Ferox - The Great Escape" è un disco comunque effettivamente ben riuscito, perché il gruppo scandinavo ha saputo far convivere le diverse anime del proprio sound in un album davvero solido, con canzoni ben curate e in grado di fare presa sull'ascoltatore, pur in questo continuo alternarsi di parti aggressive con passaggi caratterizzati da suadenti melodie. Anzi, a ben vedere, forse è proprio questo uno dei punti di forza della band, perché in questi casi spesso è difficile risultare poi effettivamente credibili, ma i Loch Vostok ci sono riusciti benissimo, realizzando un disco piacevole e per nulla scontato. Si segnala che nella versione in CD dell'album è stata inserita una bonus, ovvero una lunga traccia di ben otto minuti, intitolata "Black Neon Manifesto".

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Opinione inserita da Virgilio    17 Giugno, 2021
Ultimo aggiornamento: 18 Giugno, 2021
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Per ogni amante del metal, era già stato un autentico evento il tour "Pumpkins United", che aveva visto esibirsi insieme agli attuali Helloween (una delle band tedesche senz'altro più seminali ed influenti nella storia di questo genere), due ex membri che erano stati fondamentali nei primi capolavori del gruppo, ovvero Kai Hansen e Michael Kiske, i quali, com'è noto, avevano poi preso strade diverse, mentre il moniker degli Helloween, saldamente guidato da Michael Weikath e Markus Grosskopf, nonostante i numerosi cambi di line-up, è giunto fino ai giorni nostri. L'enorme successo riscontrato, ha spinto i redivivi Kiske e Hansen ad andare addirittura oltre, realizzando con la band un nuovo ed intero album: non una raccolta o una semplice riproposizione di vecchi brani, ma al contrario un disco nuovo di zecca, con canzoni originali. Peraltro, a voler essere pignoli si può osservare come, in realtà, non si tratti di una reunion vera e propria, perché gli Helloween non hanno mai avuto di fatto una formazione così composta, anche perché il povero batterista Ingo Schwichtenberg non c'è più e Roland Grapow (che comunque aveva suonato con Kiske su "Pink Bubbles Go Ape" e "Chameleon") non è stato coinvolto, mentre ritroviamo i "nuovi" membri dell'attuale line-up che sono Sascha Gerstner e Daniel Loeble. In realtà, questi Helloween hanno dato vita, come dicevamo, ad un disco che è qualcosa di diverso da una semplice reunion, bensì, forse ancora più del tour che lo ha preceduto, un autentico evento. Già, perché fino a pochissimi anni fa probabilmente nessuno si sarebbe mai potuto aspettare di poter ascoltare un giorno un disco targato Helloween realizzato insieme a Kiske, uno che per tanto tempo aveva di fatto persino rinnegato i suoi trascorsi metal e Kai Hansen che, ben assestato con i suoi Gamma Ray, sembrava ormai su posizioni distanti dai suoi vecchi compagni, per giunta con Loeble che ci tiene a far sapere di aver registrato i brani suonando il drum kit originale di Schwichtenberg. Insomma, roba da far venir giù la classica lacrimuccia di commozione: "Helloween" diventa di fatto la realizzazione di un sogno di tanti ragazzi che sono cresciuti a suon di metal, consumando letteralmente capolavori come "Walls Of Jericho" o i due splendidi "Keeper Of The Seven Keys". A questo punto potrebbe quasi essere persino superfluo soffermarsi sulla qualità di un disco, che magari potrebbe essere stato realizzato anche per gioco, giusto per celebrare quest'evento. E invece no, perché si tratta davvero di un gran disco, il più bello delle "zucche d'Amburgo" da diversi anni a questa parte: questa sorta di mix di vecchie glorie e nuove leve porta a risultati veramente apprezzabili, con canzoni davvero irresistibili. Si parte da un brano classicamente helloweeniano (che più di così non si sarebbe potuto) come "Out for the Glory", passando per "Fear of the Fallen", dove Deris sembra voler ricordare il periodo di "Master of the Rings" e "The Time of the Oath", passando per brani giocosi e, forse, anche un po' autocelebrativi come "Best Time" e l'anthemica "Indestructible", scritta da Grosskopf; ci sono canzoni grintose e impegnate come "Mass Pollution" e altre tendenzialmente più melodiche come "Angels", cavalcate di ampio respiro come "Robot King" o tracce più dirette come "Cyanide", fino al capolavoro "Skyfall", una suite di oltre dodici minuti, scritta per l'occasione da Kai Hansen. Naturalmente, il tutto è affrontato con le tre splendide voci di Michael Kiske, Andi Deris e Kai Hansen e con assoli a iosa da parte dello stesso Hansen, nonché di Michael Weikath e Sascha Gerstner. Superfluo aggiungere a questo punto come non vengano pubblicati spesso dischi così: un must da non perdere assolutamente.

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Opinione inserita da Virgilio    05 Giugno, 2021
Ultimo aggiornamento: 05 Giugno, 2021
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Davvero particolare quest'album di debutto di Devin Martyniuk, musicista canadese, che ha scelto di utilizzare il moniker di Before & Apace. Non si tratta tuttavia di una band vera e propria perché, pur essendoci altri musicisti a coadiuvare Martyniuk, viene subito specificato che lui è l'unico membro permanente, mentre gli altri potranno variare sia dal vivo che per i prossimi dischi. Un'altra particolarità, è che l'album è ricco di riferimenti scientifici: basti pensare che lo stesso autore ha insegnato matematica per dieci anni e adesso è il coordinatore dei programmi scientifici per lo stesso Istituto dove ha insegnato. Già il titolo stesso dell'album, "The Denisovan", è il nome di una specie di ominide (Homo di Denisova); "Lymbics" fa riferimento al sistema limbico, che comprende quelle parti del cervello che governano le emozioni; "Ontogeny" allude a questioni fisiche e biologiche, con riferimento in particolare ad una teoria di Ernst Haeckel; "Simultanagosia", un disturbo che rende impossibile riconoscere più elementi in una scena (ad esempio consente di riconoscere un albero ma non una foresta e viceversa) è una sorta di trilogia con l'aggiunta di un quarto movimento di sintesi, dove addirittura i pattern sono stati costruiti utilizzando prima la sequenza di Fibonacci e poi il cosiddetto triangolo di Pascal; "Zeno" invece, fa riferimento ad un tema filosofico, quello del celebre paradosso di Zenone (secondo cui Achille piè veloce non avrebbe mai potuto raggiungere la tartaruga). Una tale complessità si rispecchia ovviamente oltre che nei testi anche nella musica: basti pensare che le tracce sono appena quattro, per una durata complessiva però di circa cinquantadue minuti. In effetti, i brani sono alquanto lunghi, con influenze che potremmo individuare in act come Devin Townsend, The Mars Volta, Tool o Meshuggah, ma indubbiamente lo stile dei Before & Apace si sviluppa secondo caratteristiche proprie, che potremmo ricondurre ad un contesto prog ma che certamente sfugge a facili catalogazioni. Ogni traccia è alquanto particolare e si articola in vari movimenti caratterizzati spesso, al di là di qualche parte più atmosferica, da sfuriate cariche di groove e da tempi dalla complessa periodicità. Oltre all'interessante esperimento di unire musica e scienza (anzi, in qualche caso di riprodurre la musica stessa sfruttando sequenze matematiche), "The Denisovan" è effettivamente un album alquanto originale che, pur non essendo propriamente di facile ascolto, riesce però ad avere sin da subito un buon impatto ma che, al di là di questo, si rivela un autentico must per chi apprezza un modo di concepire e realizzare musica più impegnata e complessa, che non si basi sulla semplice successione di strofe e ritornello.

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Opinione inserita da Virgilio    02 Giugno, 2021
Ultimo aggiornamento: 02 Giugno, 2021
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I Vokonis si sono sempre contraddistinti per una certa capacità di mescolare generi, che viene confermata pure in questo loro quarto full-length, intitolato "Odyssey": pur partendo, infatti da un tipico stoner/doom, includono nel loro stile anche elementi prog, venature settantiane e una forte componente psichedelica. Anche il cantato è alquanto vario, con una continua alternanza tra extreme vocals e voci in chiaro: sotto quest'aspetto, i due vocalist, rispettivamente Simon Ohlsson e Jonte Johansson, dimostrano effettivamente di possedere una certa versatilità. Sotto il profilo strumentale, i due sono coadiuvati dal nuovo batterista Peter Ottosson e da un guest d'eccezione, ovvero Per Wiberg, tastierista di Opeth e Spiritual Beggars, il quale conferisce senz'altro un contributo non indifferente alla buona riuscita dei brani. La tracklist è composta da appena sei tracce, alcune delle quali sono alquanto brevi, ma anche molto dirette e piuttosto aggressive: in questo gruppo rientrano la bruttina "Rebellion", nonché le più interessanti "Blackened Wings" e "Azure". Le altre tracce presentano invece una struttura senz'altro più dilatata e aperta, con lunghissime divagazioni strumentali, che culminano in un pezzo come "Through The Dephts", il quale sfiora i tredici minuti di durata ed è caratterizzato una forte componente psichedelica, che si avverte in modo particolare in verità anche nella title-track. In effetti, i Vokonis riescono a far convivere sonorità cariche di groove con altre più suadenti, parti aggressive con altre più delicate, riff stoner con dirompenti assoli, ritmiche veloci con altre più complesse, dimostrando di avere buone idee, sviluppate in assoluta libertà espressiva e senza preconcetti, con risultati interessanti. Riconosciamo finora dunque un percorso di crescita continuo per questo trio svedese, che a questo punto siamo curiosi di vedere dove li porterà.

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Opinione inserita da Virgilio    05 Mag, 2021
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I Dreams in Fragments avevano debuttato un paio di anni fa con l'album "Reflections of a Nightmare", un disco alquanto nella media, che non aveva certo fatto gridare al miracolo. Con questo nuovo "When Echoes Fade", tuttavia, ci sembra sinceramente che il gruppo svizzero abbia compiuto addirittura qualche passo indietro. L'inizio dell'album è a dir poco agghiacciante: ritroviamo infatti un paio di brani registrati piuttosto male, con alcuni passaggi quasi ridicoli e alcune dissonanze persino cacofoniche. Peraltro, la cantante ostenta delle tonalità alquanto basse che non rendono merito alla sua voce, che anzi appare così quasi sgraziata. Il tiro sembra finalmente aggiustarsi con la quarta traccia, "By The Sea Forever", dove peraltro si assiste ad un duetto con una voce maschile in chiaro alquanto apprezzabile. In generale, un po' in tutto il disco la band opta per un massiccio uso di tastiere per delle orchestrazioni piuttosto semplicistiche e suoni campionati, con le chitarre relegate perlopiù all'esecuzione di riff abbastanza ripetitivi e con suoni non sempre ottimali. Talvolta ritroviamo dei passaggi con growl vocals ma, come accennato, ci sono anche brani con voce maschile in chiaro ("By The Sea Forever", "She's The Fall", "Showgirl"). C'è in qualche brano anche qualche coro niente male, ad esempio nel finale di "To Avalon", che sicuramente annoveriamo tra i pezzi meglio riusciti. In generale, comunque, non si riscontrano nel disco grandi idee e le cose migliori a nostro avviso potevano essere meglio sviluppate. Siamo rimasti sinceramente molto delusi: dopo l'album di debutto ci aspettavamo qualcosa di più dignitoso, mentre purtroppo questo "When Echoes Fade" è un disco di cui si può certamente fare a meno.

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Opinione inserita da Virgilio    26 Aprile, 2021
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Nonostante l'album sia intitolato "II", si tratta del disco di debutto per i Benthos, una nuova band formatasi da un'idea di due chitarristi conosciutisi al Consevatorio milanese Giuseppe Verdi, ovvero Gabriele Papagni e Enrico Tripoldi, a cui si sono poi aggiunti gli altri componenti. Il loro stile è alquanto particolare e in qualche modo sperimentale: la band, infatti, riesce a coniugare atmosfere delicate ed eteree, ispirate agli A Perfect Circle o ai Tool più soft, con passaggi irruenti e aggressivi, alternando cantato in chiaro con cantato estremo (in entrambi i casi ottimamente interpretati da un istrionico Gabriele Landillo). Il tutto viene proposto con un pizzico di post rock e con un math metal dai tempi sincopati e dalla complessa periodicità, a cura di una sezione ritmica molto tecnica composta da Alberto Fiorani e Alessandro Tagliani. Per la verità l'album è piuttosto breve come durata (potremmo quasi parlare di un ep, dato che supera di poco la mezz'ora), ma riesce ad essere davvero molto intenso ed espressivo per tutta la tracklist. I Benthos catapultano subito l'ascoltatore nel loro universo stilistico con "Cartesio", passando per brani assai efficaci come "Back and Forth" e "Talk to Me, Dragonfly!". Si prende giusto un attimo di respiro con la breve strumentale "Facing the Deep", per poi passare alla seconda metà della tracklist, dove spiccano la titletrack e la conclusiva "Dissolving Flowers" impreziosita peraltro da inserti con la chitarra classica. Un debutto dunque davvero notevole ed interessante, per una band da tenere assolutamente d'occhio.

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Opinione inserita da Virgilio    24 Aprile, 2021
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Dopo l'esordio avvenuto nel 2019 con "Trail of Consequence", i Mastord ritornano con un secondo album, intitolato "To Whom Bow Even The Trees". Motore del progetto è sempre il polistrumentista Kari Syvelä, che ha composto tutte le musiche e i testi: stavolta sembra che il processo realizzativo si sia svolto in maniera un po' più veloce, forse anche perchè le idee erano più chiare e c'era già una line-up pronta per dare forma concreta a queste idee. Mentre il primo album, tuttavia, era concentrato su poche tracce, ma alquanto lunghe, stavolta si sceglie di inserire più brani, con una lunga suite di oltre tredici minuti, "Circle Lies" e altre canzoni dal minutaggio più contenuto, per quanto ve ne siano alcune che comunque superino gli otto minuti. Anche stavolta, comunque, si riscontra una certa varietà di stili all'interno della tracklist: ci sono brani dove si avvertono echi dei Tool ("The Walls", un po' anche "Humble Professor"), c'è un po' di blues ("Master - Savior"), ci sono passaggi dal sapore settantiano, con tanto di hammond, sonorità orientaleggianti (pensiamo al sitar di "Closer to the Void"), tanto prog metal, ma anche la voce del cantante Markku Pihlaja che spesso ricorda quella di Bruce Dickinson. Questa eterogeneità, come nel caso del precedente lavoro, non sempre è un aspetto positivo: c'è di buono che l'album riesce ad offrire una certa varietà di mood e atmosfere, che in qualche modo arricchiscono la capacità di trasmettere emozioni; per contro, l'impressione è talvolta che certi inserti siano un po' frammentari o che presentino qualche forzatura per poter fare convivere le diverse parti. Inoltre, specialmente nei brani più lunghi, si ritrovano intermezzi strumentali alquanto dilatati, che non solo non risultano particolarmente interessanti dal punto di vista compositivo, ma che sembrano anche alquanto fini a se stessi e poco funzionali al brano. Ecco perchè quasi quasi i Mastord ci sembrano più convincenti quando propongono pezzi più compatti come "The Walls" o "Silence Chime", giusto per fare qualche esempio, per quanto tra le tracce più interessanti non possiamo non annoverare anche le già citate "Humble Professor" e "Master - Savior". In conclusione, diciamo che "To Whom Bow Even The Trees" vive un po' di chiaroscuri, così come era avvenuto per il suo predecessore: ci sono parti molto belle, intense ed emozionanti, accanto ad altre non particolarmente incisive o dove la band sembra perdersi dietro a divagazioni strumentali poco efficaci. In generale, l'impressione è che i Mastord abbiano acquisito maggiore consapevolezza dei propri mezzi e del considerarsi come una band vera e propria piuttosto che un estemporaneo progetto solista e questo lascia ben sperare per il futuro.

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Opinione inserita da Virgilio    19 Aprile, 2021
Ultimo aggiornamento: 19 Aprile, 2021
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Attivi da una decina d'anni, sia pure con vari cambi di formazione, gli Achelous hanno di fatto completato il loro secondo full-length ma, non potendo suonare dal vivo per i ben noti problemi legati al Covid-19 (la loro presenza, tra l'altro, era prevista nel 2020 all'Up the Hammers Festival in Grecia e allo Skull Crush Festival in Francia), in attesa della pubblicazione del disco, hanno pensato di anticiparlo con un EP, intitolato "Northern Winds". La title-track dovrebbe essere l'unico antipasto vero e proprio del nuovo disco: un pezzo heavy e cadenzato, dalle tinte epiche, che supponiamo dovrebbe rendere bene l'idea di quella che sarà la loro proposta. Un secondo pezzo registrato in studio è "The River God", recuperato dal loro primo demo, "Al Iskandar". Il disco è completato poi da tre tracce registrate dal vivo: "Macedon" risale ad una performance del 2018, in occasione della presentazione del loro primo album; "Murmidons" è stata invece registrata lo stesso anno al Malta Doom Festival; "Warriors With Wings", infine, li immortala in una serata del 2019 in cui hanno avuto modo di condividere il palco con Battleroar e Lonewolf. Quello degli Achelous è un heavy molto diretto, fondato su riff rocciosi e lunghe cavalcate, con cori epici e una sezione ritmica pulsante e dirompente: insomma, del nuovo album viene offerto magari poco in anteprima, però questa può rappresentare l'occasione, per chi non la conoscesse ancora, di familiarizzare con la band e la sua proposta musicale. A questo punto, non possiamo perciò che attendere l'uscita dell'annunciato full-length, pronti a gustare una nuova bella e potente dose di metallo pesante.

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Opinione inserita da Virgilio    30 Marzo, 2021
Ultimo aggiornamento: 17 Aprile, 2022
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I Geometry of Chaos debuttano con questo primo album, intitolato "Soldiers of a New World Order". Dietro a questo moniker si celano il chitarrista Fabio La Manna e il batterista Davide Cardella, entrambi ex Alchemy Room: dopo lo scioglimento della band, i due hanno continuato a collaborare insieme, specialmente in occasione degli album solisti di La Manna. Quest'ultimo, in particolare, ha pensato di mettere in piedi questo nuovo progetto, dove c'è un apporto anche di parti cantate, affidate a diversi interpreti quali Marcello Vieira, Ethan Cronin ed Elena Lippe. Diciamo che i risultati sono una via di mezzo tra un disco chitarristico e un disco prog metal, dato che le tracce sono mediamente alquanto lunghe, talvolta con alcuni cambi tematici e con un ampio ricorso a parti strumentali incentrate appunto sulla chitarra, per quanto vi sia comunque l'utilizzo anche di tastiere e sintetizzatori. La chitarra di La Manna si muove tra massicci riff carichi di groove ed efficaci arpeggi: gli episodi migliori del disco si possono ascoltare proprio quando c'è un ottimale equilibrio tra tutti gli elementi ed in particolare in tracce come "Joker's Dance", "Spiral Staircase", "Saturated" e il mid-tempo "Observer", onirico e psichedelico nel suo incedere. Ci sono poi anche due strumentali, ovvero "Garage Evil", una traccia molto tirata, davvero niente male nel complesso e la title-track, che per la verità è in assoluto il brano che ci ha convinti meno del disco: probabilmente la traccia è stata concepita nell'ottica di creare qualcosa di "cinematico" (utilizzando un termine ormai sempre più di moda) o atmosferico, ma che finisce invece per girare attorno ad accordi ciclici con risultati alquanto noiosi. Nulla a che vedere invece con la grinta e l'irruenza che gli altri brani riescono a sprigionare e che rendono quindi l'album un disco alquanto complesso ma allo stesso tempo trascinante e coinvolgente: parafrasando il moniker, una sorta di caos che trova ordine e forma in un assetto che diventa così geometrico. In generale, in "Soldiers of the New Wolrd Order" si possono dunque ritrovare tante buone idee, che si concretizzano in un esordio meritevole di essere conosciuto ed approfondito.

PS. Il disco verrà poi ristampato dalla Wormholedeath Records nell'aprile 2022.

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