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Opinione scritta da Gianni Izzo

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Opinione inserita da Gianni Izzo    12 Febbraio, 2020
Ultimo aggiornamento: 14 Febbraio, 2020
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I The Royal sono un gruppo melodic hardcore olandese, ma attenzione, per chi non li conoscesse, non stiamo parlando di fake metal dal ritornello facilone e coretti in clean stile boybands. Qui parliamo di una band si giovane, “Deathwatch” è il loro terzo lavoro, si moderna, ma dalle fondamenta solide, in cui non c’è spazio per le voci pulite, ma dove la melodia, quando esce fuori, emerge solo dai buoni riff di chiara estrazione nord europea.
“Deathwatch” è un album variegato che passa da brani martellanti come l’ottima opener, a momenti in cui la band spinge più sul groove, rallentando i ritmi ed incastonando nei brani dei momenti atmosferici sinistri e soffocanti, come succede con “Exodus Black” o “Lone Wolf”.
Gli olandesi purtroppo non riescono a tenere alta la guardia per tutto il lavoro, e si vanno ad incagliare proprio sulla title-track, in cui è presente l’ospite Ryo Kinoshita dei Crystal Lake. Una canzone quasi rappata che sinceramente ho trovato noiosetta e troppo ridondante. Per il resto un album sufficiente, rappresentato da 10 brani dall'ampio respiro grazie alla loro varietà, con dei buoni highlights, “Savages”, “State Of Dominance”, e qualche brano un po’ sottotono, o con inserimenti un filo fuori luogo, tipo quei terribili sinth di “Avalon”, ostinatamente messi in un brano che non ne aveva bisogno; nonostante questi piccoli passi falsi, "Deathwatch" rimane comunque un buon lavoro.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    07 Febbraio, 2020
Ultimo aggiornamento: 07 Febbraio, 2020
Top 10 opinionisti  -  

I The Fallen sono una giovane band proveniente dal Brasile, arrivata a questo Ep di quattro brani intitolato “Warpledge”. Il loro è un heavy metal vecchio stampo, radicato negli anni ’80, ispirato ai mostri sacri del genere, Judas Priest su tutti.
Non si sa molto di questo gruppo, che non fornisce molte informazioni su di sé neanche sulla propria pagina Facebook. Quindi parliamo direttamente di questo breve Ep intitolato “Warpledge”. Purtroppo devo dire che i The Fallen sembrano ancora troppo acerbi ed hanno molto su cui lavorare. Qualche buon riff esce qua e là, ma tutto passa senza un vero sussulto che riesca a rapire davvero l’attenzione. Eppure l’introduzione della title-track sembra abbastanza attraente nel suo crescendo epico, poi però si cade in una serie di soluzioni troppo piatte, derivative e poco competitive. Purtroppo la produzione approssimativa e la voce con fin troppe forzature del cantante non aiutano il voto a salire.
Insomma i The Fallen devono tirarsi su ben bene le maniche e limare la propria proposta musicale e non si può mai dire che a breve non sfornino qualcosa di davvero interessante, ma “Warpledge” per adesso non può essere considerato sufficiente. Spiace sempre non poter omaggiare un disco, soprattutto se si tratta di una band underground, ma proprio per emergere è importante avere un’idea davvero valida, in modo da farsi notare in positivo. Noi continueremo ad essere qui, per qualsiasi ulteriore disco dei The Fallen, sperando di sentire una tecnica ed uno stile in continua crescita.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    22 Gennaio, 2020
Ultimo aggiornamento: 22 Gennaio, 2020
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I Gentihaa sono una band greca, messa su dal chitarrista George “Valgran” Giannopoulos, nata dalle ceneri di precedenti progetti dello stesso chitarrista. Alla voce troviamo il bravo Boutos, già vocalist dei melodic deathers Sonata Antartika.
Tutte le tastiere dell’album “Reverse Entropy” sono state arrangiate e suonate da un musicista esterno, Bob Katsionis, ed infine abbiamo anche Tom Englund degli Evergrey, come vocalist in “Command” e “Singularity”.
Ora, non so perchè i Gentihaa, o chi per loro, si presentino come un misto tra symphonic death e black metal band. Diciamo subito che di black non c'è neanche ombra qui, l’unica cosa che può aver avvicinato i Gentihaa al symphonic black è stata qualche data come gruppo spalla ai Dimmu Borgir.

Invece direi che i cinque musicisti siano più vicini ad un connubio tra melodic death con diverse incursioni nel thrash più moderno per quel che riguarda i riff delle chitarre e la parte ritmica, il tutto intriso da buoni goticismi sinfonici delle tastiere ed espressi dalle linee vocali, che creano una bell'atmosfera epica quanto cupa.

“Reverse Entropy” è un buon album, tutti e nove i pezzi hanno un buon impatto, risultato di ispirazione e dedizione nel songwriting e nell'arrangiamento, che riesce a farsi apprezzare fin da subito, grazie a refrain d’impatto, e belle bordate ritmiche. Le harsh vocals non sono assimilabili al cantato death, risultando decisamente più vicine a gruppi come Heaven Shall Burn per la maggior parte del tempo, mentre le parti in clean si rifanno al metal più moderno, senza snaturare mai in quei coretti simil pop, che molte giovani band purtroppo ormai usano senza ritegno. Siamo di fronte ad atmosfere darkeggianti, un’epicità malinconica, adornata da tappeti orchestrali in realtà abbastanza lineari, che fanno un bel lavoro di riempimento.

Forse manca qualche highlight nel disco, ma siamo di fronte ad un lavoro senza cali di pressione o giri a vuoto, decisamente una buona prova in studio.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    11 Gennaio, 2020
Ultimo aggiornamento: 11 Gennaio, 2020
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Nati nella canadese Surrey, i 4 musicisti dal 2011 ad oggi si sono autoprodotti 4 dischi ed un Ep live. E per quel che riguarda i live, non solo hanno suonato nel proprio paese, in Sud America ed anche nella nostra Europa, ma vantano di essere stati opening act anche di nomi altisonanti come Blaze Bayley. Purtroppo leggo dalla bio che la loro storia come band non è sempre stata felice, infatti durante una tourneè, dopo un grave incidente stradale, ne morirono dei componenti.

Nel 2019 gli Iron Kingdom sono tornati con questo “On The Hunt”, riassumendo in 9 tracce, ancora una volta, tutto il loro amore per il metal anni ’80. “On The Hunt” all’inizio degli anni ’80 forse avrebbe avuto una certa dose di eco, perché la verità è che le idee ci sono, per quanto molto derivative, gli Iron Maiden sono disseminati un po' dovunque, dai duetti di chitarra, alle classiche galoppate, fino ai refrain, la bella opener ne è degna rappresentate. Non ci sono solo i primi Iron Maiden nelle corde degli Iron Kingdom, si passa presto anche a tracce più vicine allo speed metal, ed a pezzi in stile Judas Priest, Jag Panzer, prendete “Purgatory” ad esempio. Quindi una bell'unione tra metal inglese e quello americano.

Ci sono pezzi come la già citata opener, la seguente e più cupa “Drifter…”, la rockeggiante “Road Warriors” che non passano certo inosservate in quanto a bravura compositiva, nonostante la voce del cantante, (dando comunque atto a Osterman di avere un range abbastanza ampio), non sia di mio gradimento, perché risulta essere fin troppo nasale anche li dove non servirebbe, quindi buoni gli acuti graffianti alla Rob Helford, ma quando rimane su toni medio bassi, un po’ infastidisce. Per il resto i musicisti son bravi sia nelle parti più heavy che in quelle più vicine allo speed metal, il vero problema è che gli Iron Kingdom, se rimangono su queste coordinate compositive, potranno contare sempre e solo sull'effetto malinconia per i bei tempi andati. Buoni per qualche defender dal cuore puro che supporta solo quel metal ancora giovine e spensierato di una quarantina di anni fa.
Ma siamo nel 2019, quindi una produzione old- fashioned, un atteggiamento retrò, e alcuni chorus fin troppo scolastici, sono ottimi per dire al mondo di amare il metal di una volta, ma non abbastanza per essere notati davvero in questo grande calderone di gruppi che costellano la nostra amata musica.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    20 Dicembre, 2019
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Gli Scimitar sono un quartetto canadese dedito ad un pagan metal con influenze folk qui e li, dal forte sapore nord europeo, con le dovute distanze tecniche, un qualcosa di vicino a band come Ensiferum.

Questo "Shadows Of Man" è il loro secondo lavoro dopo 9 anni, quando debuttarono con il disco “Black Waters”. Non tutto ciò che sentirete in “Shadows Of Man” è inedito, delle nove tracce, alcune sono già state rilasciate come singoli nel corso degli anni.
Si inizia con una intro che è un vero e proprio strumentale, quindi niente a che fare con gli ormai classici momenti iniziali sinfonici della durata di un minuto. Gli Scimitar fanno un lavoro anche abbastanza buono, “State Of Nature” è una galoppata metallica con momenti acustici e duetti di chitarre elettriche che fanno un bel botta e riposta gli uni con le altre.
Purtroppo già qui ci si accorge di uno dei diversi nevi che attanagliano l’album, che è quello di una produzione un po’ troppo sotto gli standard della buona qualità che ci si aspetta per un lavoro del 2019, forse per scelta, ma non proprio una scelta giusta, i suoni risultano eccessivamente asciutti, e questo non riesce mai a dare la giusta potenza alle canzoni.
Passiamo ai brani veri propri, e scopriamo che le harsh vocals del cantante per la maggiore hanno poco a che fare con il growling/scraming più classico che ci si aspettere da una pagan metal band. Qui sembra che gli Scimitar abbiano voluto optare per un approccio, che andrebbe bene per una band Nu-Metal o Hardcore. “Knights Collapse” ha un bel tiro, ma certo le strofe fondamentalmente rappate di Angus Lennox, a primo impatto ci spiazzano. Poi ci si abitua e possiamo dire che il pezzo, con quel suo ritornello dal sapore più piratesco che battagliero, non è neanche male. Ma il problema del cantato rimane ed è piuttosto ripetitivo oltre che risultare spesso un fuori dal contesto musicale della band canadese.
Alcuni brani passano senza lasciare molto di se, mentre la title-track divisa in due, la prima parte ha un andazzo molto folk, mentre la seconda è più tirata ed epica, sono un altro gran bel momento dell’album. I chitarristi riescono a ricamare diverse melodie accattivanti e creare insieme alla sezione ritmica parti coinvolgenti come con “Where Ancient Spectres Lie”, tuttavia i quattro musicisti non riescono a resistere su questi livelli per tutta la durata del disco, ed è facile che talvolta vi ritroviate a pensare a tutt’altro mentre i brani scorrono in sottofondo, cosa che non dovrebbe mai accadere purtroppo ad un buon prodotto. Quindi parliamo di un album che a causa di una produzione tutt'altro che eccelsa, alcune scelte stilisticamente opinabili, ed un ispirazione a corrente alternata, non può raggiungere la sufficienza, nonostante ci sia del buono in questo secondo lavoro sulla lunga distanza dei Scimitar.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    18 Novembre, 2019
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Addii importanti a parte, soprattutto quello di Vintersorg, che ha lasciato il compito di portare avanti le vocals ai soli Lazare e Vortex. Senza parlare dell’addio di Ryland, sostituito alla chitarra da Thomassen, i Borknagar riescono ad arrivare con qualche zoppicata, all'undicesimo album della loro carriera, intitolato “True North”.

Ora, ammetto che continuo a preferire il sound dei primi Borknagar, ma una volta esaurita la primordiale ispirazione, soprattutto con l’entrata di I.C.S. Vortex , i Borknagar son riusciti a portare avanti quel loro tipo di epicità struggente, pura voce del nord Europa. “True North” vuole seguire questo cammino, ha buone tracce ad alimentarlo, ma anche momenti forse un po' troppo banali e con una melodia fin troppo pop per un gruppo come i Borknagar, cose che hanno travalicato un po’ i confini della mia pazienza.

Se “The Fire That Burns” può essere considerata la classica canzone a la Borknagar, che sa un po’ di compitino ben fatto, rimane un bel brano efficace nella sua classicità. Già con “Up North” ad esempio ci si ritrova di fronte ad un inizio terribile, una melodia così zuccherosa, che bisogna essere intellettualmente disonesti per non ammettere che qualcosa del genere uno se lo aspetta più da una band come i Foo Fighters che da una metal band, appartenente ancora ad un certo tipo di scena estrema.
Poi la canzone migliora ed ha dei spunti davvero interessanti, e quando entra lo screaming ed il blast beat, allora si ragiona davvero, purtroppo finisce “caramellosamente” così come inizia, ed è un peccato.

“Thanderous” è il pezzo di apertura che ti aspetti, tirata ed epica, e con più momenti maligni posti al punto giusto. Ecco, forse in quest’album c’è una bella consequenzialità tra i momenti in clean e quelli in screaming, tra ritmiche più heavy e quelle extreme, che si incatenano in modo molto naturale, senza quel senso di forzatura, che si sentiva qui e li negli ultimi lavori della band.

“True North” è questo, ancora saldo sulla sufficienza, tra belle atmosfere nordiche (“Into The White”, “Tidal”), alcune concessioni a momenti più sperimentali come “Voices”, che rappresentano anche la parte più interessante del disco, ed una bella ballata malinconica (“Wild Father’s Heart”).
Ancora saldo sulla sufficienza, nonostante una pericolosa deriva verso un easy listening, che cerca di fagocitarsi diversi minuti del disco, e che si spera non prenda il sopravvento nei lavori futuri della band.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    02 Novembre, 2019
Ultimo aggiornamento: 02 Novembre, 2019
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Sono passati addirittura 6 anni dall'ultimo lavoro dei pugliesi Soul Of Steel che, tra varie difficoltà, in particolare i molteplici cambi di line-up, finalmente tornano con questo “Rebirth”, spostando ancora di più il tiro della propria musica verso i lidi del power prog.
Un po’ il percorso che hanno fatto gli stessi Labyrinth e Vision Divine, non è un caso che le tastiere (sempre presenti ed in alcuni momenti davvero caratteristiche) siano state suonate dal bravo De Paoli, già tastierista di entrambe le formazioni sopraccitate. Dopotutto i Soul Of Steel hanno sempre vissuto a stretto contatto sia con i Labyrinth che con i Vision, e fin dagli esordi sono stati seguiti da Olaf Thorsen, il loro sembra proprio un percorso già scritto.
Scritto ovviamente da loro stessi, non parliamo di emulazione, ma semplice condivisione di vedute musicali con dei veri alfieri, almeno per quel che riguarda l'Italia, di questo tipo di approccio musicale. “Rebirth” è un buon album in questo senso, ha parecchi spunti interessanti, e nonostante metta in primo piano sempre una melodia abbastanza ricercata, non mancano certo dei bei riff rocciosi a contornarla, così come delle belle ritmiche telluriche a spingerla con forza.
Altri ospiti dell’album li possiamo ascoltare dietro i microfoni, le inconfondibili voci di Roberto Tiranti e Mark Basile, che effettivamente distaccano per tecnica e personalità il pur bravo Gianni Valente, e che sicuramente impreziosiscono il disco, dandogli quel tocco in più, “Brothers In Arms” è uno dei brani più riusciti, a cui partecipa anche il chitarrista Simone Muraloni, un vero brano corale.

In canzoni come “Sailing To My Fate” e “The Devil’s Bride”, ho risentito quel tocco malinconico nelle linee vocali proprie dei Sonata Arctica più scuri e sperimentali, quelli di “The Days Of Grays”. So che per molti questa osservazione potrebbe avere un connotato negativo, ma penso che il suicidio artistico della band finlandese sia arrivato dopo, ed ho sempre apprezzato quell'album.

Molto intuitive sono anche le “jazzate” della ballata del disco, così come è coinvolgente l’ultima complessa “Trail Of Death”.
Qualche passaggio passa a vuoto, l’intro è davvero inutile e sinceramente la cover di Lady Gaga non mi ha convinto, ma in 50 minuti di musica c’è del buon carattere e buona qualità da godersi a pieno. Auguro ai Soul Of Steel che questa loro “rinascita” segni finalmente un percorso meno travagliato di quello che hanno dovuto affrontare fino ad oggi, in Italia si ha tanto bisogno di buona musica.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    30 Settembre, 2019
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Registrato ai Carriage House Studios, e poi dato in mano al buon Fredrik Nordstrom, nome apparso su alcuni dei migliori album degli In Flames, Dark Tranquillity, At The Gates, Arch Enemy, il debutto dei Bostoniani The Offering, è una vera bomba.
“Home” è un tripudio di tecnica e sperimentazioni, sia vocali che sonore, che di base parte da un power/thrash all’americana, martellante, acido e oscuro, ma si propone di non mettersi alcun limite, quindi ogni brano viene arricchito con qualsiasi sottogenere del metal, che sia heavy, death, groove, nu, con qualche accenno di hardcore, per non farsi mancare proprio niente.

Servono un po’ di ascolti per addentrarsi al meglio nel mondo dei The Offering, soprattutto per la title-track in cui non poco incide la lunghezza di quasi un quarto d’ora, ma “Home” si mostra essere davvero un disco maturo, scritto da ragazzi che non hanno paura di eccedere, e di miscelare al meglio tutto ciò che amano, creando un prodotto originale e riconoscibile. Canzoni dai refrain più accessibili come “Failure S.O.S” o “Hysteria” mi hanno un po’ ricordato proprio in quei chorus le atmosfere dell’ultimo disco dei Morgana Lefay “Aberrations Of The Mind”, ma il paragone è limitato, immaginatevi i tecnicismi in stile Into Eternity, dell’era Stu Block, ma metteteci anche i migliori Slipknot in mezzo, e sfuriate death, insomma non è facile classificare la musica dei The Offering, ma l’ispirazione è al massimo e loro non sbagliano quasi mai per tutto il disco, il tutto esaltato da un'ottima produzione.

Oltre all'enorme bravura tecnica di tutti i musicisti, una menzione particolare va al bravissimo cantante Alex Richichi, che davvero fa di tutto, passa da un clean comunque graffiante, a pezzi in screaming, fino a cori e falsetti molto particolari che sanno evadere dal mondo del metal tout court. Vi basti pensare che proprio nelle parti più lente che si sentono nella title-track, un po’ mi ha ricordato il cantato bluesy e drammatico di Jeff Buckley, se vi comprate la versione con la bonus track, alla fine del disco troverete “Violets” dove questo accostamento non vi sembrerà per niente azzardato.
A parte “Lovesick” che seppur bella, ha un ritornello in effetti troppo easy per i miei gusti, ma immagino fosse il miglior modo per alleggerire le peripezie musicali delle strofe, i The Offering ci regalano un disco nervoso e pirotecnico, da sentire e risentire per assaporarne a pieno tutte le sfumature. I The Offering al momento hanno tutte le carte in regola per regalarci tanta buona musica.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    10 Settembre, 2019
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Attivi dal 2003, i finlandesi Gladenfold dopo vari demo ed Ep arrivano al 2014 con il debutto “From Dusk To Eternity”, un buonissimo lavoro melodic death sulla scia dei conterranei Children Of Bodom, ma ancora ispirati e con un inconfondibile surplus d'amore per il power ed il symphonic.

Cinque anni dopo arriva questo “When Gods Descend”, altro buonissimo album, seppur la proposta sonora si sia ammorbidita parecchio. Già i Gladenfold prestavano ben più di un occhio per sinfonie e melodie accattivanti ed epiche, adesso questa loro attenzione si è alzata ancor di più. Di fatto “When Gods Descend”, nonostante il growling del vocalist Itala, l’album suona a tutti gli effetti più come un lavoro power che melodic death. Ma se la cosa non vi disturba, possiamo senza remore promuovere il nuovo lavoro, che adesso come adesso nelle parti più ricercate si muove tranquillamente in zona Amorphis, mentre per quelle più tirate ed epiche, si passa con facilità dal freddo power in stile Stratovarius, fino ai Blind Guardian, con bei cori e parti in clean che fanno da contrappeso ai momenti più duri, in cui torna in auge riff più aggressivi da parte del duo Knuuttila/Gerdts.

Potremmo dire che qualche “sdolcinatura” di troppo ci sia qui e li, ma tutto sommato, i Gladenfold mi sembrano a proprio agio con queste partiture, ed in un anno terribile nel quale i grandi nomi del melodic death e del power, o ci hanno regalato al massimo un compitino a casa (Amon Amarth, Children Of Bodom), o sono cascati in un baratro senza fondo (Equilibrium, Sonata Arctica), questo lavoro dei Gladenfold ci fa sperare bene per il futuro della nostra amata musica.

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Opinione inserita da Gianni Izzo    31 Agosto, 2019
Ultimo aggiornamento: 01 Settembre, 2019
Top 10 opinionisti  -  

Sesto album per gli Equilibrium, che fino ad oggi tra alti e bassi, in realtà sotto la sufficienza non sono mai finiti, fermo restando che non sono neanche riusciti a ripetersi nel loro vero e unico capolavoro “Sagas”.

Purtroppo prima o poi arriva il momento della caduta artistica per tutti, anche se speriamo che non avvenga mai, io personalmente ho sempre amato i lavori della band tedesca, ma gli Equilibrium del 2019 hanno voluto... osare? Fare una furbata? Hanno cambiato gusti musicali?
Qualsiasi sia la motivazione, il risultato è che su "Renegades" sono venute meno le trame epiche e sinfoniche che hanno da sempre contraddistinto la band, via anche il tedesco, relegato ad un’unica canzone, via i rimandi etnici che, per quanto sintetizzati, sono sempre stati un must della loro musica.
In primo piano qui ci sono sinth, super orecchiabili e modernisti, e le troppe clean vocals pacchiane simil pop, alla maniera dei gruppi di sbarbatelli hardcore/melodeath che intasano il mercato metallico.

Una scelta stilistica abbastanza opinabile per Berthiaume ed i suoi, va bene cambiare genere e sperimentare, già ne avevamo avuto sentore in alcuni episodi degli ultimi album, che abbiamo anche gradito, ma qui è abbastanza palese che si voglia giocare la carta della popolarità, aumentare il proprio bacino d’utenza, conquistando sopratutto il cuore dei più giovani. Ha più o meno funzionato per i Soilwork, ancor di più per gli In Flames, perché no per gli Equilibrium? I brani sono estremamente catchy, le chitarre fanno esclusivamente una comparsa ritmica, giusto per ricordare che gli Equilibrium sono ancora un gruppo metal, ma ruota tutto intorno ai sinth, che in una delle loro peggiori espressioni, “Hype Train”, si rifanno all’Eurodance anni ’90, cosa che si sente anche in alcuni momenti ritmici.

Ma il punto più basso del disco è rappresentato da “Path Of Destiny” dove gli ospiti “The Butcher Sisters”, ci regalano anche una terribile parte rappata. Chiariamoci, non ho niente contro le contaminazioni, è proprio questo pezzo che ti fa rivalutare persino i Machine Head di “Burning Red”.
In tutto questo calvario si salva la title-track, e la tirata “Final Tear” con tanto di blast beat, che comunque sarebbero state giudicate forse i momenti più deboli negli altri album della discografia degli Equilibrium. Le altre canzoni ripropongono lo schema più classico del metal moderno, strofe in growling e banali ritornelli in clean, arricchiti da qualche riff azzeccato qua e là.

Se siete dei teenagers probabilmente vi potrebbe anche piacere “Renegades”, ma se avete amato gli Equilibrium fino al precedente “Armageddon” state lontani da questo disco. Il mercato discografico probabilmente darà ragione alla band tedesca, personalmente spero che il nuovo lavoro degli Equilibrium sia solo un passo falso.

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