Opinione scritta da Virgilio
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Ultimo aggiornamento: 28 Marzo, 2021
Top 10 opinionisti -
I Dvne sono un gruppo scozzese che aveva pubblicato quattro anni fa il proprio primo album, "Asheran". Il loro secondo full-length, già dal titolo scelto, "Etemen Ænka", lascia intendere di come si tratti di un disco alquanto complesso e ricco di sfumature. Si tratta fondalmentalmente di un concept, incentrato sulla storia di una civiltà, dominata dai cosiddetti "celestials" e su come questi si siano adoperati per dare vita alla propria visione utopistica. Il concept peraltro non impedisce loro di proporre alcuni precisi rimandi letterari: così, ad esempio, "Enuma Elis" fa riferimento espressamente al poema epico babilonese, mentre "Towers" è ispirata ai libri "Terminal World" di Alastair Reynolds e "Bay City (Altered Carbon)" di Richard K Morgan. Questo tipo di impostazione porta la band a realizzare dei brani alquanto vari e in qualche modo anche ricchi di contrasti, nei quali possiamo ritrovare passaggi molto oscuri e pesanti, con un massiccio utilizzo di extreme vocals e toni ribassati, rispetto ad altri più atmosferici ed eterei, che arrivano ad essere davvero minimalisti e soffusi (forse anche troppo), se prendiamo il caso di "Adrӕden" e "Asphodel". C'è anche una certa tendenza al progressive, con cambi tematici che si susseguono con totale naturalezza, specie in tracce di lunga durata, quali possono essere ad esempio "Omega Severer", "Mleccha" o la suggestiva "Satuya". La band opta peraltro per fare un massiccio uso di tastiere e sintetizzatori, che arricchiscono la loro musica con particolari effetti, non inficiando la pesantezza dei suoni, ma contribuendo a creare un sound che riesce a introdurre in maniera più efficace e suggestiva l'ascoltatore nell'impianto narrativo e atmosferico da essi creato. Per un paio di tracce viene fatto ricorso anche ad una voce femminile, che aggiunge ulteriore profondità a dei brani già ricchi non solo, come specificato, di più temi, ma anche alquanto stratificati nelle linee vocali e strumentali. "Etemen Ænka" è un disco che riesce ad essere alquanto affascinante e che dimostra la maturità artistica già raggiunta dalla band, per cui non c'è da stupirsi a questo punto se la Metal Blade abbia deciso di puntare su di loro.
Ultimo aggiornamento: 20 Marzo, 2021
Top 10 opinionisti -
Cominciavamo seriamente a sentire la mancanza degli Ainur, un progetto ispirato alle opere di J.R.R.Tolkien, che aveva realizzato degli ottimi album pubblicati tra il 2006 e il 2009, unendo con grande bravura prog rock, folk e elementi orchestrali. Il seguito di "Lay of Leithian", nei programmi originari, avrebbe dovuto essere dedicato alla caduta di Numenor: evidentemente, ha poi prevalso l'idea, già pure in cantiere, di sviluppare il tema delle battaglie dei Silmaril (con una gestazione durata più di dieci anni), concentrandosi in particolare sul personaggio di Fëanor, il nobile elfo dei Noldor che con il suo carattere infuocato ("Spirit Of Fire" è infatti il titolo di una canzone, ma di fatto anche il significato del suo nome, derivato dalla forma sindarin di Fëanor, che significa proprio "spirito di fuoco") è certamente stato il motore di tante vicende della mitologia tolkieniana, con conseguenze che si ripercuoteranno per intere epoche. A livello di line-up, notiamo l'assenza di Gianluca Castelli, che era stato uno dei principali compositori degli Ainur in passato e si è anche ridotto il numero dei musicisti e dei cantanti solisti, ora limitato a due voci maschili e due femminili. In compenso, sono presenti alcuni ospiti di livello internazionale: Ted Nasmith è la voce narrante, poi ci sono Roberto Tiranti che canta nella già menzionata "Spirit Of Fire" (arricchita non poco dalla sua performance) e Derek Sherinian che suona in "Battle Under the Stars". Rispetto ai precedenti lavori, probabilmente anche per le tematiche trattate, la musica è senz'altro più dura e aggressiva: quest'aspetto porta con sè una serie di pro e di contra. Se, infatti, in passato, lo stile degli Ainur risultava davvero molto particolare, quasi unico nel suo genere per certi aspetti, ma probabilmente anche per questo non necessariamente popolare o immediatamente accessibile ad un grande pubblico, ora appare più vicino a quello di tanti gruppi prog metal o di metal sinfonico e forse così anche più facilmente "etichettabile", riconducibile ad un genere piuttosto che ad un altro. Queste sono però chiaramente scelte di fondo del gruppo, rispetto alle quali non entriamo nel merito. Passando ad analizzare la tracklist, la nostra impressione è che questa inizialmente stenti un po' a decollare e ad entrare nel vivo: la prima traccia, "Fate Disclosed", è interamente narrata; "Wars Of Beleriand" è una strumentale un po' frammentaria, ma che accenna una serie di temi che si ritroveranno nel corso dell'album; "Hell Of Iron" è un pezzo duro che non ci ha colpiti particolarmente; "Wars Begin" comincia con il suo crescendo a riscaldare gli animi, ma i primi veri sussulti arrivano solo con l'emozionante "Kinslaying (The First). Da questo momento l'album diventa davvero splendido, con il bell'intrecciarsi di cori e voci soliste e gli squisiti arrangiamenti, che caratterizzano brani mediamente alquanto lunghi, con una struttura aperta e cangiante, che proiettano l'ascoltatore nel magico mondo creato dalla fantasia del Grande Scrittore inglese, ancora oggi più che mai in grado di appassionare ed incantare, del quale gli Ainur sono profondi conoscitori e rispetto al quale hanno avuto sempre un'attenzione e una cura meta-musicale, che va cioè oltre il semplice aspetto musicale, per coinvolgere anche quello visivo e poetico. "War of the Jewels" è dunque un'opera davvero maestosa e appassionante, sicuramente consigliata a chi ama Tolkien e non solo.
Ultimo aggiornamento: 18 Marzo, 2021
Top 10 opinionisti -
"Mark Bravi's Origins" è il titolo di quest'EP che rappresenta il debutto solita per il tastierista dei Virtual Symmetry, Mark Bravi. Il disco, composto da sei tracce strumentali, raccoglie brani composti e registrati dall'autore in vari periodi, sin dal 2013. Tra i pezzi più interessanti, annoveriamo proprio un paio di pezzi di quel periodo, poi ri-registrati nel 2017 insieme al chitarrista Matteo Pelli: si tratta dell'opener "Beyond The Unpredictable", senz'altro il brano più progressive del disco, nonché di "The 10th Dimension", una traccia incentrata sulle tastiere, nella quale i due musicisti si cimentano in diversi begli assoli. Gli altri brani sono invece alquanto differenti: "Phoenix" è incentrata su piano e tastiere ma va man mano ad arricchirsi di varie orchestrazioni, mentre la conclusiva "Reborn" è una traccia propriamente cinematografica, essendo stata composta nel 2019 per la colonna sonora del film "I Morcc de la Scabla", diretto da Stefano Cutugno. Non particolarmente incisivi invece altri due brani, basati fondamentalmente su arpeggi o accordi pianistici, intitolati "Strange As Life" e "Val".
Diciamo che, in generale, "Origins" non è magari il tipico disco destinato a chiunque: proprio per come è stato concepito, è rivolto principalmente a chi ama tastiere e synth o magari a chi piace il prog e certa musica atmosferica e cinematografica. L'autore riesce tuttavia a trovare soluzioni in grado di essere accattivanti sin dai primi ascolti o che possono risultare in certi casi un piacevole sottofondo per cui, in questo senso, anche per questa sua composizione molto eterogenea, può effettivamente rappresentare un gradevole ascolto per chiunque.
Ultimo aggiornamento: 08 Marzo, 2021
Top 10 opinionisti -
Ci sono band che per la natura stessa del loro stile, sfuggono a qualsiasi catalogazione. Potremmo dire semplicisticamente che i Cyrax, giunti con "Experiences" al loro terzo full-length, suonino progressive metal: tuttavia, questo potrebbe significare tutto e niente, perchè questa potrebbe essere una definizione corretta ma al tempo stesso fuorviante per descrivere la loro musica. Ciò perchè la band effettivamente propone brani dai temi cangianti e con tempi dalla complessa periodicità, destrutturando la classica forma-canzone, ma va anche detto che si muove tra generi totalmente diversi, mischiando con assoluta semplicità metal, jazz, country, cori gotici e chi più ne ha più ne metta. I loro brani sono assolutamente geniali ed imprevedibili, frutto di una "follia" (in senso buono) creativa che sfugge a qualsiasi schema o convenzione. Basti ascoltare quanto siano totalmente spiazzanti in un brano come "Dorian Gray", che parte da un piano jazz per poi passare ad un'autentica commistione tra jazz, death metal e power metal. Oppure "Truemetal", con il suo titolo forse un po' provocatorio, perchè presenta un testo magari davvero tipico di band che si professano "true", ma che invece va a mettere dentro blues, sonorità elettroniche, country, parti in growl, cori metal e un finale molto cinematografico. Ancora, si passa dal mathcore di "Wozzeck" al jazz rock di "Odysseia" o al metal aggressivo e sincopato di "Global Warming".
Questo è reso possibile anche dal fatto che la band, un quartetto composto da voce, due chitarre e batteria, in realtà si avvale di un numero molto ampio di musicisti e cantanti, immaginiamo in alcuni casi anche di estrazione alquanto distante dal metal, creando così un insieme molto variegato, aperto alle più svariate soluzioni.
Un album davvero sorprendente dall'inizio alla fine, probabilmente non adatto a chi preferisce la semplicità e la linearità o a chi non è aperto alla commistione tra generi diversi, ma a nostro parere si tratta di un disco davvero geniale ed originale, sia a livello compositivo che per gli arrangiamenti, che non esitiamo a considerare come un piccolo capolavoro, assolutamente meritevole di attenzione.
Ultimo aggiornamento: 17 Febbraio, 2021
Top 10 opinionisti -
I Marble avevano pubblicato un album nel lontano 2008, seguito da un EP del 2010. Abbiamo dovuto attendere quindi ben undici anni per poter ascoltare un loro nuovo disco: il lavoro in questione è un full-length, intitolato "S.A.V.E.". I brani sono tutti focalizzati sui sette peccati capitali e sulle tre virtù teologali, per cui ciascuna traccia affronta, in ordine sparso, uno di questi temi, più l'ultima, conclusiva, che è una strumentale intitolata "Sins And Virtues End". Naturalmente, oltre che a livello di testi, anche sotto il profilo musicale la band cerca di trasmettere determinati sentimenti o sensazioni che possano richiamare un determinato vizio o virtù, anche se poi lo fa in modo per nulla scontato: può succedere, infatti, che "30 Silver Coins", brano dedicato alla speranza, sia poi uno dei più aggressivi, (tra l'altro con l'apporto delle growl vocals di Maurizio Caverzan degli In-Sight), mentre per contro "A Darker Shade Of Me", dedicato all'ira, è una delle tracce più soft, interpretata con chitarre acustiche e archi. A livello di line-up, ci sono due novità rispetto al passato, ovvero Norman Ceriotti alla batteria e Eleonora Travaglino dietro ai microfoni. Quest'ultima, si rende autentica protagonista dei brani, con la sua voce alquanto versatile, tra passaggi dolci e suadenti e altri carichi di grinta e vigorosi. Lo stile è un metal melodico dalle venature prog, caratterizzato da un buon mix tra potenza e melodia, con una sezione ritmica solida e tecnica, un ottimo lavoro chitarristico ad opera del duo composto da Paul Beretta e Omar Gornati, nonché con le tastiere di Jacopo Marchesi, che conferiscono alla band un sound più pieno e corposo, senza tirarsi indietro quando si tratta di lanciarsi in dirompenti assoli. L'album si rivela in generale ben strutturato e arrangiato; da segnalare, altresì, come il lavoro di produzione sia stato curato da Giulio Capone (Moonlight Haze, ex Temperance, Bejelit), ad eccezione della canzone "Mine", in quanto, avendo vinto la band un contest, questa è stata affidata a Marko Tervonen (The Crown), il quale si è occupato anche del mixaggio e del mastering. Per questo ritorno, i Marble, dunque, non puntano su effetti speciali o su chissà quali innovazioni: al contrario, si focalizzano su un metal melodico abbastanza classico, offrendo però un prodotto con diverse belle canzoni e realizzato con la massima serietà e professionalità possibili. "S.A.V.E" si rivela dunque un piacevole ascolto, per cui non possiamo che auspicare che la band riesca a stabilizzare la line-up, confermandosi come una presenza più costante della scena metal nazionale, almeno più di quanto non sia avvenuto finora.
Ultimo aggiornamento: 10 Febbraio, 2021
Top 10 opinionisti -
I Perduratum si formano in Messico nel 2019 con musicisti che hanno una notevole esperienza in ambito underground, ma qualcuno anche in band con una discografia alle spalle di tutto rispetto (in particolare, il batterista Aruh milita anche nei thrashers Tulkas). Questo primo EP, intitolato "Exile's Anthology", è composto da quattro tracce, per una durata complessiva di circa venti minuti. A parte l'opener "Anachrony", una breve intro strumentale, la parte più interessante del disco è composta dai successivi tre brani, con i quali la band mette in mostra un prog metal molto tecnico, ispirato ai principali act del genere. "Assumption" è tendenzialmente più diretta e lineare rispetto alle altre due, nelle quali invece la band sfodera una struttura un po' più articolata, con cambi tematici e ampie digressioni strumentali. La sezione ritmica è molto solida e tecnica, mentre il chitarrista James Ponce e il tastierista Edgar Butanda danno dimostrazione di virtuosismo con fraseggi complessi e intricati e splendidi assoli. Buona anche la prova del cantante Diego Cholula, dotato di una voce molto alta, influenzato da singer prog metal come Michael Eriksen dei Circus Maximus e Nils K.Rue dei Pagan's Mind, ma anche da cantanti di generi differenti quali Einar Solberg dei Leprous o Matt Bellamy dei Muse. Davvero un buon biglietto da visita per questa band, che dopo questo assaggio ci aspettiamo di ascoltare presto anche con un vero e proprio album.
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Proprio un anno fa gli Elegy Of Madness avevano pubblicato l'album "Invisible World", un disco con cui hanno riscosso buoni consensi e con il quale hanno partecipato ad un contest e ricevuto un premio nella loro città di origine, Taranto. Ne è conseguita la possibilità di riprendere il video di uno show speciale registrato con l'accompagnamento della Giovane Orchestra Jonica, diretta dal Maestro Fabio Orlando. Per un concerto speciale, serviva anche una location speciale, per la quale è stato scelto il Teatro Fusco di Taranto. Lo show ha avuto luogo lo scorso 7 ottobre e ne è stato ricavato un DVD, con il quale gli Elegy Of Madness si confermano ancora una volta una band davvero di talento e di valore, che propone un metal sinfonico che certamente strizza l'occhio ad act come Nightwish o Epica, ma che allo stesso tempo ha saputo trovare la propria dimensione espressiva, riuscendo a proporre canzoni affascinanti ed in grado di emozionare, arricchite da squisiti arrangiamenti, come dimostra più che mai con questo video. Il gruppo pugliese presenta una bella scaletta, concentrata quasi esclusivamente sugli ultimi due album, "New Era" del 2017 e, appunto, il nuovo "Invisible World", eseguito nel corso della serata praticamente per intero. Uniche eccezioni rispetto a brani estratti da questi due dischi sono due strumentali, una che funge da intro e un'altra traccia intitolata "To Esperia", nella quale viene data maggiore evidenza all'orchestra: in particolare, peraltro, la prima consente alla cantante un ingresso solenne percorrendo tutto il teatro con un abito dotato di un lunghissimo strascico e persino due valletti, che la accompagnano fino al palco, aiutandola poi, al termine della prima canzone, ad assestarsi con un abbigliamento almeno un po' più agevole da indossare. Proprio la singer Stefania "Anja" Irullo è una grande protagonista con la sua bellissima voce, davvero in gran forma e, in qualche occasione, come di consueto, affiancata anche dal growl del chitarrista e fondatore del gruppo, Tony Tomasicchio. In generale, però, la performance della band è davvero eccellente e i brani acquistano maggiore profondità e ricchezza espressiva con l'apporto di una vera orchestra, tanto che anche qualche traccia che non ci aveva entusiasmato particolarmente nella versione in studio dell'album, qui appare decisamente più convincente. Con riguardo al dvd, evidenziamo come il palco magari non fosse particolarmente grande rispetto al numero dei musicisti, ma il gruppo pugliese ha saputo offrire un bello show anche per quanto riguarda la presenza scenica, le luci, nonchè per una considerevole presenza di telecamere, che ha consentito di ottenere diverse inquadrature da tante angolazioni, conferendo anche maggiore vivacità alla parte video; a ciò si aggiunge tutto il calore del pubblico tarantino, che con grande partecipazione ha presenziato all'evento, tanto che il Teatro Fusco era davvero gremito. Insomma, un prodotto realizzato davvero come si deve, da parte di una band che magari non dispone normalmente di un budget paragonabile a quello di tanti altri gruppi di punta europei, ma che in quest'occasione ha dimostrato di saper fare le cose per bene, valorizzando ulteriormente la propria già bella musica.
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TDW altro non è che l'acronimo di Tom de Wit, cantante, polistrumentista e produttore, che alterna la propria produzione discografica con questo moniker e con quello dei Dreamwalkers Inc. Questo nuovo lavoro, intitolato "The Days The Clock Stopped" è un concept album ispirato a reali esperienze vissute da de Wit: infatti, all'età di diciannove anni, il musicista olandese ha avuto diagnosticata una grave malattia all'intestino, che lo ha portato a subire una serie di vicissitudini e persino a rischiare la vita in più di un'occasione. Già questo può fare intuire come si tratti di un lavoro dunque molto sentito dall'autore a livello personale, perchè finora si era servito nel corso della sua carriera magari di personaggi inventati per descrivere anche propri stati d'animo, ma che qui ha deciso di mettersi in gioco proprio di prima persona. La musica appare dunque sin da subito incentrata molto sull'aspetto emotivo, nello sforzo di trasmettere realmente delle sensazioni e delle situazioni vissute in maniera diretta. L'album, per la verità, stenta un po' a partire nella fase iniziale, tra passaggi lenti e voci soffuse, ma soprattutto dalla terza traccia in poi comincia a svelarsi in tutta la propria forza espressiva, con brani davvero molto articolati, con trame intricate, arrangiamenti meravigliosi e un utilizzo imponente sia di strumenti, con tanto di archi e orchestrazioni, sia di voci, che si trovano a duettare, concertare o ad intrecciarsi, grazie ad un autentico coro che riesce ad arricchire non poco le composizioni. Un prog metal di pregevole fattura, che a tratti tradisce influenze dei Pain Of Salvation dell'epoca d'oro e che tocca il culmine nella suite "No Can Do", una traccia di oltre diciotto minuti. Peraltro, va anche detto che de Wit si avvale dell'apporto di una line-up di tutto rispetto, nella quale spiccano Rich Gray (Aeon Zen, Annihilator) al basso e Fabio Alessandrini (Annihilator) alla batteria, oltre ad una serie di chitarristi solisti di notevole spessore: non li citiamo tutti perchè sono tanti ma, giusto per rendere l'idea, ci limitiamo a menzionare Marco Sfogli, Daniel Magdič (Prehistoric Animals, Ex-Pain of Salvation), Koen Romeijn (Detonation, Heidevolk), Chris Zoupa (Teramaze) e Luca Di Gennaro (Soul Secret). Insomma, pur conoscendo Tom de Wit, siamo rimasti sinceramente stupiti da questo lavoro, davvero ricco per contenuti e per qualità musicale, che va apprezzato con calma e senza fretta.
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Vedendo questa nuova uscita degli Edenbridge, ci viene da pensare davvero quanto il tempo passi in fretta! Sono trascorsi infatti ben quattordici anni da quando la band austriaca pubblicava "The Chronicles Of Eden", una raccolta antologica che comprendeva il meglio dei propri primi cinque album. Peraltro, a ben riflettere, si sono mediamente allungati i tempi di pubblicazione della band, se consideriamo che la prima compilation uscì ad appena sette anni dal debutto "Sunrise In Eden", mentre ne sono passati un po' di più perchè si giungesse ad altri cinque album. Ad ogni modo, questa seconda parte raccoglie canzoni tratte da "MyEarthDream" del 2008, fino a "Dynamind" del 2019: per l'occasione, sono stati coinvolti i fan, in modo da scegliere quattro tracce per ogni album. Per completare la tracklist, sono stati inseriti anche alcuni brani strumentali, inizialmente pubblicati solo come bonus track: in particolare, si tratta di "MyEarthDream Suite (For Guitar and Orchestra)" e di due tracce tratte dalle sessioni di "Solitaire", ovvero "Inward Passage" e "Eternity" (due brevi strumentali non particolarmente degne di nota). Di propriamente inedito non c'è molto, a parte qualche versione alternativa: in particolare, vengono riproposte in doppia versione (cioè sia l'originale sia una nuova inedita acustica) le hits "Higher" e "Paramount"; inoltre, c'è una nuova versione solo per voce e piano di "Dynamind" (della quale, invece, non è stata inclusa l'originale). Insomma, non c'è tantissimo per ingolosire i fan che conoscano già la discografia della band, però bisogna riconoscere come in questo doppio album, contenente ben ventisei tracce, la scelta sia stata davvero molto varia e assortita, cosicchè, accanto ovviamente a brani magari più catchy e diretti, ritroviamo anche tracce monumentali e di lunga durata come "The Greatest Gift of All", "The Bonding" e "MyEarthDream". Un buon campionario, dunque, di quello che la band austriaca ha saputo realizzare, con il suo metal melodico dalle tinte sinfoniche, che l'autore e polistrumentista Lanvall ha costruito attorno alla voce di Sabine Edelsbacher: una discografia di tutto rispetto, che ha permesso alla band austriaca di conseguire un buon successo e una solida base di fan in tutto il mondo; a tal proposito, anzi, non escludiamo che, magari, proprio questa compilation, potrà essere utile anche a conquistarne di nuovi.
Top 10 opinionisti -
Dei Return To Void avevamo davvero apprezzato particolarmente il secondo album, "Memory Shift The Day After", nel quale segnavano una decisa svolta verso il progressive metal. Con questo nuovo lavoro, intitolato "Infinite Silence", la band finlandese mischia nuovamente le carte in tavola, tornando ad un sound meno complesso, con un certo flavour settantiano (già presente nel loro omonimo debut album) che ogni tanto fa capolino, enfatizzato dall'utilizzo dell'hammond. Non vengono tuttavia totalmente eliminati gli elementi prog, per quanto comunque i pezzi siano certamente meno complessi e puntino maggiormente su una struttura più tipica della forma canzone, con strofe e bridge, un refrain melodico e qualche divagazione strumentale, con assoli a cura del chitarrista Saku Hakuli e del tastierista Antti Huopainen. Dobbiamo dire che comunque tutti i musicisti dimostrano buona personalità e riescono a dare il proprio significativo contributo: una menzione a parte merita però il cantante Markku Pihlaja, che ogni tanto tradisce i proprio trascorsi da "coverista" di Bruce Dickinson, ma che in generale riesce ad emanciparsi dalle proprie influenze per offrire delle performance che si coniugano alla perfezione con lo stile della band. In generale, in tutta sincerità, preferivamo i Return To Void ascoltati nell'album precedente: va anche riconosciuto, tuttavia, come il combo finlandese si sia impegnato per ottenere un sound corposo e rotondo, che riesce ad essere convincente. Per contro, qualche traccia in quest'ottica risulta forse eccessivamente dilatata, come anche in qualche brano non ci hanno convinto i suoni delle chitarre, quando invece i riff sono un elemento fondamentale nella loro musica. Ad ogni modo, nell'insieme, "Infinite Silence" riesce ad essere alquanto coerente ed omogeneo, con alcune tracce davvero niente male, quali ad esempio l'opener "Aliveness", "Full Circle", "Mosaic Of Light And Shadow" o "Departed And Arrived". Un disco, dunque, con il quale va dato atto di come i Return To Void stiano conducendo, album dopo album, un autentico percorso artistico, che vale la pena senz'altro di seguire e di conoscere, ascoltando anche questo nuovo tassello della loro discografia.
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