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Opinione inserita da Virgilio    27 Settembre, 2021
Ultimo aggiornamento: 27 Settembre, 2021
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Gli A Dying Planet avevano debuttato nel 2018 con l'album "Facing The Incurable", ma bisogna evidenziare come il leader del gruppo sia Jasun Tipton, musicista di vecchia data che si ricorderà in tanti altri progetti come Zero Hour, Abnormal Thought Patterns e Cynthesis. La band, con questo nuovo lavoro intitolato "When The Skies Are Grey", propone sei tracce dalla durata media alquanto lunga ("Embrace" sfiora addirittura i quindici minuti), con un approccio che trae spunto dal Prog Metal americano (tra le influenze potremmo menzionare Fates Warning e Redemption), in certi passaggi però si può riconoscere pure qualche concessione di derivazione Djent. C'è poco spazio tuttavia per virtuosismi o trame complicate, perché Tipton privilegia nel disco soprattutto un mood intriso di atmosfere malinconiche e decadenti, con tantissime chitarre arpeggiate e la voce del cantante Paul Adrian Villareal (Sun Caged) che cerca di essere suadente e introspettiva, sulla scia della musica proposta. Ci sono indubbiamente anche passaggi dove ritroviamo riff più decisi e una maggiore aggressività, però non è certamente questa la caratteristica preponderante nello stile degli A Dying Planet. Tendenzialmente, i brani tendono ad indugiare su temi così strutturati e sotto questo profilo risulta importantissimo il lavoro alla batteria di Marco Bica, che magari in mezzo ad un andamento un po' piatto del brano, riesce invece a conferire un certo dinamismo con il suo drumming irruento e tecnico. Peraltro, non sono neanche molti gli assoli nel disco, ma tra questi si mette senz'altro in evidenza quello di Derek Sherinian, guest d'eccezione che davvero illumina il brano "Embrace" nella sua parte finale. A nostro avviso, bisogna riconoscere per "When The Skies Are Grey" la bella performance dei suoi interpreti e questo suo approccio atmosferico così particolare; per contro, a nostro parere nell'insieme il disco risente di questo suo mood così triste e deprimente (in parte "corretto" solo dalla conclusiva "A Father's Love", più pregna di speranza e un po' più vivace) che non incoraggia ripetuti ascolti e non rende l'idea di un equilibrio ottimale tra le varie anime della band e le varie sfaccettature presenti nel suo stile. Peccato, perché la classe e la qualità dei musicisti, per quanto già così comunque senz'altro validi, erano tali da poter conseguire risultati di ben altro livello.

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Opinione inserita da Virgilio    11 Settembre, 2021
Ultimo aggiornamento: 11 Settembre, 2021
Top 10 opinionisti  -  

Gli Aeons si erano messi in evidenza con un buon album di debutto, "A Tragic End" del 2019: da molti accostati agli Opeth, si sono ritrovati in qualche modo con la pressione di realizzare un seguito di buon livello. Liberiamo però subito il campo da ingombranti paragoni: in questo nuovo "Consequences" certamente ci sono forti influenze della band di Akerfeldt, ma parliamo sostanzialmente di un gruppo differente. Il combo inglese, proveniente dall'isola di Man, fonda il proprio stile su una continua alternanza tra parti in growl aggressive, spesso dal sapore metalcore e ritornelli più soft, con il cantato pulito. C'è poi anche qualche eccezione, come nel caso di "Blight", tutta con voci clean e chitarre arpeggiate, nella quale vengono mantenuti comunque ritmi abbastanza veloci. Si cerca anche qualche velleità progressive, in particolare nella conclusiva "Evelyn", una traccia della durata di undici minuti e mezzo.
A conti fatti, "Consequences" è un disco onesto, nel quale la band cerca di far convivere le diverse anime del proprio stile, con buoni risultati (tra gli episodi migliori annoveriamo sicuramente "Thoughts of a Dying Astronaut"), ma senza neppure andare significativamente oltre la media, soprattutto senza però riuscire in realtà mai a sorprendere o a brillare per originalità, percorrendo schemi e sentieri ormai già ampiamente battuti. Alla fine, comunque, "Consequences" merita di avere la sua chance, a patto che ci si approcci ad esso senza aspettarsi necessariamente un capolavoro e sgombrando il campo da inopportuni paragoni.

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Opinione inserita da Virgilio    20 Agosto, 2021
Ultimo aggiornamento: 20 Agosto, 2021
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I Legions of the Night nascono l'anno scorso, in pieno periodo di pandemia, da un'idea del polistrumentista Jens Faber (Dawn of Destiny, MalefistuM, ExoS), il quale pensa ad un progetto ispirato allo stile e alla musica dei Savatage. Riesce così a coinvolgere il batterista Philipp Bock (suo compagno di band nei Dawn of Destiny) e il vocalist Henning Basse. In particolare, la scelta di quest'ultimo si è rivelata molto azzeccata: sapevamo già che l'ex singer di Metalium e Firewind fosse un ottimo cantante, ma questi si è dimostrato effettivamente credibile senza per forza dover apparire come la controfigura di Jon Oliva o Zak Stevens. Come accennato, i Legions of the Night nascono proprio con l'intento di rendere tributo ai Savatage e perciò, per forza di cose, ne sono fortemente influenzati, specialmente dai loro album degli anni '80, in particolare da lavori come "Sirens", "Power of The Night" o "Hall of the Mountain King". In tutta sincerità, non siamo particolarmente entusiasti quando ci ritroviamo di fronte a gruppi così fortemente derivativi, però va riconosciuto come Faber giochi assolutamente a carte scoperte e come abbia saputo realizzare un buon disco, con diverse belle canzoni. Certo, nulla di lontanamente accostabile ai capolavori della band americana, però sicuramente si tratta di brani ben strutturati ed interpretati. L'unica traccia che si discosta significativamente dalla band dei fratelli Oliva è "Rescue Me", la cui musica, che accompagna delle belle linee vocali, è tutta incentrata su un giro di tastiere, con un approccio decisamente più vicino al pop/rock. Tra gli highlight, potremmo citare "Train to Nowhere", "Walls of Sorrow", la title-track e la ballata pianistica "Someday Somewhere", ma un po' tutti i brani in effetti presentano un buon livello. Nel finale, invece, ritroviamo una vera e propria cover, ovvero "Sirens", tratta proprio agli albori della discografia dei Savatage. "Sorrow is the Cure" è dunque un disco che certamente non vuole avere la pretesa di sostituire il vuoto lasciato da un po' di tempo da Jon Oliva e compagni ma che, tenendo conto di tutte le premesse e le precisazioni che abbiamo fatto, può tranquillamente essere apprezzato dai fan della band americana.

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Opinione inserita da Virgilio    09 Agosto, 2021
Ultimo aggiornamento: 09 Agosto, 2021
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I Plant My Bones sono un trio finlandese composto dalla cantante/bassista/tastierista Jenna Kosunen e dai fratelli Ruuska, Elias (chitarra) e Konsta (batteria), che segna il suo esordio con l'EP "Stage 1.0". Il disco, nella cui tracklist ritroviamo cinque tracce per una durata complessiva di venti minuti circa, ci presenta una band dedita ad un rock energico, carico di groove, con un forte flavour settantiano, accentuato da azzeccati inserti di hammond. L'approccio della vocalist è molto grintoso, con un cantato tendenzialmente alto, quasi urlato: sotto questo profilo, non offre grande varietà anche se, in effetti, in qualche traccia, come l'opener "The Tiger Song", mostra di possedere un buon range vocale; sicuramente, però, questo suo modo di cantare colpisce e, anzi, in tal senso, il brano che più rimane impresso è probabilmente "The Scheme". Peraltro, le parti vocali sono certamente il fulcro di queste canzoni, molto dirette e incentrate appunto sulla voce prorompente e squillante della Kosunen. Un disco che rappresenta un buon biglietto da visita per la band finlandese, che probabilmente però sulla lunga distanza dovrà dimostrare di possedere un po' più di varietà e fantasia. I Plant My Bones denotano comunque già una buona personalità e uno stile ben definito, lasciando perciò ben sperare circa quelle che sono le proprie potenzialità.

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Opinione inserita da Virgilio    04 Agosto, 2021
Ultimo aggiornamento: 04 Agosto, 2021
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I Mr.Big nascono alla fine degli anni '80 come un supergruppo formato dal cantante Eric Martin, dal batterista Pat Torpey e da due tra i maggiori virtuosi al mondo con i rispettivi strumenti, ovvero Paul Gilbert alla chitarra e Billy Sheehan al basso. Dopo il buon esordio con l'album omonimo, è però il secondo full-length, "Lean Into It", che li lancia definitivamente come uno dei gruppi di maggior successo degli anni '90. Grazie ad un mix tra hard rock, metal, rockblues, psichedelia e splendide ballate, il disco si può senz'altro annoverare tra i capolavori della band americana, con milioni di copie vendute in tutto il mondo (ben oltre un milione solo negli USA), forte di una tracklist dove ogni canzone è praticamente una potenziale hit e in effetti saranno estratti dal disco alcuni singoli di enorme successo, come le splendide "Daddy, Brother, Lover, Little Boy (The Electric Drill Song)", "Green-Tinted Sixties Mind", "Just Take My Heart" e soprattutto "To Be With You", una canzone che rappresenterà un po' la "croce e delizia" della band, la quale farà persino fatica a spiegarsi una così clamorosa popolarità raggiunta da questo brano, provando nel corso della propria carriera a replicarne ostinatamente il successo, senza però mai riuscirci. In occasione del trentesimo anniversario dall'uscita dell'album, avvenuta nel 1991, è stata realizzata questa speciale versione dove tutti i brani sono stati rimasterizzati, ma c'è in più un secondo cd pieno di bonus. In particolare, in questo disco aggiuntivo si possono ritrovare le versioni rimasterizzate di "Shadows" e "Strike Like Lightning" (incluse nella colonna sonora del film "Navy Seals - Pagati per morire"), nonché di alcune canzoni già pubblicate a suo tempo come bonus track quali "Love Makes You Strong", "Stop Messing Around" e "Wild Wild Women". Inoltre, vengono proposte le prime versioni di "Alive And Kickin'" e "Green-Tinted Sixties Mind" (molto più bassa della versione definitiva), oltre una versione reggae di "To Be With You" e una con il piano di "Just Take My Heart". Per finire, sono state incluse anche altre due versioni di "Daddy, Brother, Lover, Little Boy (The Electric Drill Song)" (una senza chitarra e una senza basso), una di "Green-Tinted Sixties Mind" (senza chitarra) ed una di "Love Makes You Strong" (senza basso). Una bellissima occasione per rispolverare il disco con l'aggiunta di tante altre canzoni, in qualche caso anche con interessanti versioni che fanno apprezzare quella che è stata la loro evoluzione prima di arrivare al risultato che tutti conosciamo.

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Opinione inserita da Virgilio    29 Luglio, 2021
Ultimo aggiornamento: 29 Luglio, 2021
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Dietro il moniker Esquys si cela in realtà un progetto solista del musicista francese Sébastien Normand, in passato attivo con band quali Polarys (come chitarrista) e Nepenthys (come bassista). Questo nuovo progetto si rivela alquanto ambizioso, perché cerca di far convivere elementi ispirati a generi alquanto diversi, tra symphonic metal, folk metal, un pizzico di death metal e musica orchestrale da colonne sonore. Un obiettivo certamente non semplice da raggiungere, perché può risultare alquanto arduo trovare un equilibrio ottimale. Sotto questo profilo, in effetti, possiamo subito notare che le tre strumentali che si ritrovano nella tracklist appaiono alquanto trascurabili: solo "Ddawnsiwr" sembra un po' illuminarsi nel finale, ma nell'insieme neanche questa traccia entusiasma particolarmente. A ben vedere, un talento da riconoscere a Normand è certamente quello di saper scegliere ottime cantanti per i propri brani e in effetti le singer ospiti impreziosiscono parecchio con la propria performance le canzoni. In particolare, Anna Fiori è assoluta protagonista, alternando voci in chiaro e in growl, in "Open Your Eyes", la traccia più dura del disco, nella quale peraltro suona un bell'assolo Mattias Ekhlundh (Freak Kitchen), così come sono molto brave Jen Janet, eterea e soave in "Your Smile" e Micky Hujsmans, davvero affascinante in una cover di "Frozen" di Madonna alquanto particolare. Dove però gli Esquys risultano superlativi è in tracce come "Ghosts", cantata meravigliosamente da Ranthiel degli Slania e "Shadows", un brano alquanto introspettivo, in cui Anna Murphy (Cellar Darling, ex-Eluveitie) si rende protagonista di un'interpretazione davvero da brividi. Per contro, talvolta ci lascia perplessa l'equalizzazione tra i vari strumenti, anche perché si fa ricorso a diversi suoni campionati e capita che alcuni timbri in qualche passaggio sovrastino un po' troppo gli altri. Diciamo che in "Instinct" si possono ascoltare buone cose, ma è un disco che procede un po' a sprazzi, cercando di barcamenarsi tra le diverse influenze, propendendo per un genere piuttosto che un altro, senza però trovare sempre necessariamente la quadratura del cerchio. Le premesse sono buone e certamente hanno dato un contributo importante le cantanti coinvolte ma auspichiamo che Normand riesca per il futuro a migliorare alcuni aspetti critici (che abbiamo in parte evidenziato) e a delineare meglio lo stile degli Esquys.

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Opinione inserita da Virgilio    23 Luglio, 2021
Ultimo aggiornamento: 23 Luglio, 2021
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I Lost in Grey giungono al loro terzo full-length, intitolato "Under The Surface". La band finlandese, dedita ad un approccio in qualche modo teatrale con le proprie performance, realizza un album in stile Metal Opera, nel quale i personaggi sono in linea di massima coperti dalle tre voci della cantante solista, Anne Lill Rajala, nonché di Harri Koskela (principale compositore e tastierista) ed Emily Leone (anche violinista). Lo stile è incentrato su una via di mezzo tra un tipico Metal sinfonico e un Gothic/Death molto anni '90: ci sono tante orchestrazioni, cori magniloquenti, qualche passaggio con cantato lirico, voci in chiaro ed extreme vocals. Certo, quando si fa ricorso a così tanti elementi, è molto importante anche l'aspetto della produzione e del successivo mixaggio e mastering e sotto questo profilo non possiamo dire di essere rimasti particolarmente entusiasti: soprattutto il modo in cui sono registrati i cori, dà l'impressione che le voci siano state "catturate" ad una certa distanza e l'effetto non è proprio eccezionale. Parlando dei brani, può notarsi come questi siano alquanto articolati e infatti presentano una durata mediamente lunga, anzi, in tal senso, il culmine è rappresentato dalla lunga suite "Stardust", suddivisa in tre parti. Più compatta ma sicuramente tra le tracce meglio riuscite è "Disobedience", mentre si evidenzia la presenza di una canzone come "Varjo", cantata interamente in finlandese. Non si tratta però dell'unica lingua utilizzata dai Lost in Grey insieme all'inglese, perché su "Souffrir", uno dei brani senz'altro più particolari (in cui peraltro compaiono in veste di guest, tra gli altri, anche Emmanuelle Zoldan e Nils Courbaron dei Sirenia), ci sono anche alcune parti in francese, estratte dal romanzo "I Miserabili" di Victor Hugo. Il disco è in linea di massima alquanto piacevole, per quanto vi sia talvolta la tendenza, soprattutto nelle tracce dal minutaggio più elevato, di inserire intermezzi più o meno atmosferici, soprattutto con le tastiere, che tendono un po' a smorzare il ritmo e dinamica del brano (così, ad esempio, in "Waves" o nella stessa "Souffrir"). Nulla di particolarmente innovativo ma se vi piace il genere meritano di avere la loro chance.

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Opinione inserita da Virgilio    12 Luglio, 2021
Ultimo aggiornamento: 12 Luglio, 2021
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L'anno scorso i Virtual Symmetry avevano pubblicato "Exoverse", loro secondo full-length e disco alquanto ambizioso, in quanto caratterizzato da brani abbastanza complessi, come da tradizione metal prog, peraltro con la presenza di ospiti di un certi rilievo, tra cui Jordan Rudess (Dream Theater), Tom Englund (Evergrey). Non era dunque per nulla scontato che la band optasse per portare l'intero disco dal vivo: l'occasione avviene all'interno del Cine Plaza di Mendrisio, con la partecipazione peraltro di coriste e di un trio d'archi. Insomma, uno show impegnativo, che viene affrontato dalla band italo-svizzera con grande professionalità e cura per i dettagli. La setlist è grosso modo la stessa dello studio album, con l'omissione della sola "Vortex" e con un ordine un po' diverso, ma anche con l'aggiunta giusto di qualche altra traccia della loro precedente discografia, ovvero "Program Error" (tratta dal primo album "Message From Eternity"), nonché "Eyes Of Salvation" ed "Elevate" (entrambe incluse nell'EP "X-Gate"). Per il resto, viene riproposto appunto l'album quasi per intero, che ha così modo di beneficiare ovviamente di nuovi arrangiamenti curati per l'occasione e dello speciale trasporto che può offrire una performance dal vivo, con il calore e l'entusiasmo del pubblico. La prova offerta dalla band è davvero magistrale, in quanto riesce a districarsi senza indugi tra brani già di per sé alquanto complessi, affrontandoli con un elevato tasso tecnico, scandito dai prolungati e dirompenti assoli del chitarrista Valerio "Æsir" Villa e del tastierista Mark Bravi, con il cantante Marco Pastorino, coadiuvato dalla soprano Jennifer Vargas e dai cori, che tira le fila facendo da collante con la sua voce e dialogando con il pubblico tra un brano e l'altro. L'apice della serata è ovviamente costituito dalla conclusiva "Exoverse Suite", un brano straordinario che si sviluppa nel corso di circa ventidue minuti, ma tutto il concerto è davvero molto godibile e in grado di offrire tante emozioni, per cui vale davvero la pena attenzionarlo, sia che abbiate già avuto modo di apprezzare "Exoverse", sia che invece non abbiate ancora avuto occasione di ascoltarlo.

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Opinione inserita da Virgilio    29 Giugno, 2021
Ultimo aggiornamento: 29 Giugno, 2021
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Gli sloveni Skyeye giungono al loro secondo album, "Soldiers Of Light", che segue di quattro anni "Digital God". Facciamo subito una premessa per mettere in chiaro che parliamo di una band maideniana fino al midollo e che, per quanto il loro sia un buon disco, non si tratta certo di qualcosa di paragonabile ai capolavori della band britannica. Se dunque non vi interessano i gruppi clone e preferite gli originali, per voi la recensione può anche finire qui. Se invece non avete preclusioni di sorta, possiamo dire che gli Skyeye riescono a proporre una serie di buone canzoni, sempre scandite da poderosi riff, una sezione ritmica veloce e dirompente e la voce del cantante Jan Leščanec, sicuramente emulo di Brice Dickinson, ma anche prodigo a sciorinare acuti a più non posso. In particolare, si mettono in evidenza tracce come "King Of The Skies", la title-track e "Constellation". A parte poi un paio di strumentali che fungono da intro, ci sono poi invece un paio di tracce alquanto lunghe, ovvero "Brothers Under The Same Sun", che annoveriamo senz'altro tra gli episodi più convincenti e la conclusiva "Chernobyl" che, per quanto presenti buone idee, probabilmente, a nostro avviso, avrebbe funzionato meglio se fosse stata snellita appena un po'. Niente male una ballata con ritornello in crescendo come "Eternal Starlight"; non particolarmente significativa, per contro, qualche altra traccia, come la bruttina "Son Of God". Insomma, gli Skyeye hanno senz'altro tante buone qualità e dimostrano di possedere diverse frecce al loro arco: se tirassero fuori un po' più di personalità o lavorassero maggiormente sul proprio stile per renderlo un po' meno derivativo, dimostrerebbero tuttavia di possedere una caratura di ben altro livello che oggi, ad essere sinceri, non possiamo loro ancora riconoscere.

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Opinione inserita da Virgilio    26 Giugno, 2021
Ultimo aggiornamento: 26 Giugno, 2021
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Attivi da circa vent'anni, i Loch Vostok ritornano con un nuovo album, intitolato "Opus Ferox - The Great Escape" e una line-up alquanto rinnovata: non c'è più, infatti, il tastierista Fredrik Klingwall e c'è un nuovo bassista, Patrik Janson (The Murder Of My Sweet); soprattutto, però, il leader e fondatore della band, Teddy Möller, ha deciso di concentrarsi sulle chitarre, lasciando per sé solo il cantato in growl, reclutando per le parti in chiaro un nuovo singer, Jonas Radehorn (The Citadel, Falling Down). Una scelta davvero azzeccata, perché il nuovo cantante dimostra di possedere una voce davvero straordinaria e una versatilità fuori dal comune. Proprio quest'ultima caratteristica, peraltro, risulta molto utile per una band come i Loch Vostok, il cui stile è sempre stato molto aperto a varie contaminazioni. Sotto questo profilo, un aspetto che colpisce è la grande quantità di citazioni espressa dalla band svedese, che nei vari brani sembra divertirsi ad inserire passaggi che stilisticamente possono rimandare a svariati gruppi, tra cui potremmo citare Nevermore, Dream Theater, King's X, Enchant, Emperor, Pain Of Salvation, Evergrey, Blind Guardian, In Flames, giusto elencando i primi che ci vengono in mente. Questo non significa però che i Loch Vostok si limitino ad emulare le loro band di riferimento, anche perché altrimenti rischierebbe di venirne fuori un frullato difficile da mandare giù: al contrario, il loro stile si focalizza su un prog metal alquanto lineare, cioè caratterizzato da brani con strutture non particolarmente intricate ma con qualche ritmica un po' più complessa e con un buon gusto melodico nei refrain, costruiti attorno alla splendida voce di Radehorn, di tanto in tanto supportato ai microfoni dal growl di Möller. Certo, forse, nonostante si tratti addirittura dell'ottavo album della band, si fa ancora un po' fatica ad individuare un autentico trademark, un sound che li caratterizzi e li renda davvero riconoscibili. Ad ogni modo, "Opus Ferox - The Great Escape" è un disco comunque effettivamente ben riuscito, perché il gruppo scandinavo ha saputo far convivere le diverse anime del proprio sound in un album davvero solido, con canzoni ben curate e in grado di fare presa sull'ascoltatore, pur in questo continuo alternarsi di parti aggressive con passaggi caratterizzati da suadenti melodie. Anzi, a ben vedere, forse è proprio questo uno dei punti di forza della band, perché in questi casi spesso è difficile risultare poi effettivamente credibili, ma i Loch Vostok ci sono riusciti benissimo, realizzando un disco piacevole e per nulla scontato. Si segnala che nella versione in CD dell'album è stata inserita una bonus, ovvero una lunga traccia di ben otto minuti, intitolata "Black Neon Manifesto".

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