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Opinione scritta da MASSIMO GIANGREGORIO

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    28 Ottobre, 2023
Ultimo aggiornamento: 28 Ottobre, 2023
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Signore e signori, qui si gode alla grande!!! Qui si parla di uno dei protagonisti assoluti della storia dell'Hard'n'Heavy. Qui si parla del Re indiscusso di quello che fu denominato Adult Oriented Rock (A.O.R.), ossia quel Rock duro sì, ma anche melodico al punto giusto, in grado di coinvolgere e sconvolgere non solo i teenagers, ma anche quelli un po' più cresciutelli. Qui si parla di un singer dalla voce sensuale, ammaliante tipica di chi è stato idolatrato come sex symbol dalle fans, che è in circolazione fin dal lontano 1977, quando prese le mosse dalla mitica Los Angeles - insieme a Juan Croucier, che diventerà poi il bassista dei Ratt - per dar vita ad una serie interminabile di dischi uno più d.o.c. dell'altro, tutti caratterizzati da composizioni maiuscole, possenti ma sempre orecchiabili (nella accezione più nobile del termine) coronate dalla sua ugola da highlander, per la quale il tempo sembra non trascorrere mai e dalla sua inesauribile vena compositiva. Ma ciò che ha reso imbattibile ed inarrestabile la ascesa di Don Dokken e della sua band è stato il sublime sodalizio con un genio delle sei corde di nome George Lynch; pezzi come "So many tears" (dall'album "Back for the attack") rimarranno ad imperitura memoria di ogni rocker, con gli assoli di George tecnicissimi, tanto virtuosi, quanto struggenti. Sodalizio durato una vita, sia pure a fasi alterne, dal 1981 al 1998: poi George ha fondato i suoi Lynch Mob, con i quali ha partorito una ragguardevole mole di dischi, l'ultimo dei quali venuto fuori pochissimo tempo fa. Ma vi chiederete: allora, dopo George, tutto finito? Nient'affatto! Dopo lo split out del 1989, il nostro vecchio leone ha assorbito la batosta nel tempo e si è ri-armato fino ai denti con sessions assolutamente degni (anche se non paragonabili a lui) come John Norum, fondatore degli Europe. Dunque il leone era tornato a ruggire, continuando ad inanellare releases maiuscole; ma, dopo "Broken Bones" del 2012, era nuovamente uscito dai radar. Ebbene, a undici anni (e qualche live) di distanza, il Re è tornato! Ed è tornato in gran spolvero, rinverdendo gli antichi fasti, anche grazie ad un nuovo patto d'acciaio con un altro mago delle sei corde che risponde al nome di Jon Levin; quest'uomo - credetemi - non ha nulla da invidiare al George Lynch di cui sopra: i suoi assoli sono al fulmicotone, ma sempre ispiratissimi, un micidiale mix di tecnica e feeling, esattamente come è stato per il suo grande predecessore. Anche in questo disco si annoverano le immancabili ballads (come "I Remember" e "Lost in You") con tanto di assolo strappa lacrimuccia (anche noi vecchi rockers siamo umani, no?) che si alternano a brani più robusti come la opening track e "Over the Mountains". Il creatore di "Unchain the Night", "Back for the Attack" e "Under Lock and Key" è di nuovo tra noi e auspichiamo che questa lieta novella si perpetri ancora a lungo. The King is back! Long live the king!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    22 Ottobre, 2023
Ultimo aggiornamento: 22 Ottobre, 2023
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Ed eccoci qui, ancora una volta, ad approcciare un'altra band ellenica, gli Obscurus Rex. Utilizzo il verbo "approcciare" non a caso; infatti, trattasi di un gruppo all'esordio assoluto e che ha affidato ad un EP (come fanno tantissime altre bands) la propria prima proposta musicale, con tutte le buone intenzioni di ben figurare nel metalrama internazionale. Questi four horsemen si sono assemblati un paio di anni orsono nella capitale greca, all'ombra del Partenone e, in relativamente poco tempo, sono stati (messi) in grado di sfornare questo loro debutto. Quando ho letto il titolo dell'EP mi sono subito tornati alla mente pezzi omonimi risalenti agli albori dell'Heavy Metal, come - ad esempio - quello dei mitici Saxon anche se qui la musica (è il caso di dire) è ben diversa. Pronti, via...ed è subito assalto con "It" che - per compattezza e decisione - mi ha dato l'impressione di avere nelle immediate vicinanze la orribile creatura clownesca inventata dall'immenso Stephen King, pronta a colpirmi alle spalle. Pezzo pregevolissimo e decisamente heavy con un cantato ragguardevole da parte di Manos ed una vera perla di assolo di Kimonas. "Your Enemy Tonight" parte con una sezione ritmica in gran spolvero e delle atmosfere da brivido notturno, per poi sfociare in un contesto sempre molto Power classico. La seguente "4 Justice" è vieppiù massiccia, conferendo ancor maggior accelerazione all'EP, pur segnando svariati cambi di tempo culminati con un ennesimo, convincentissimo ed ispiratissimo assolo di Kimonas. La conclusiva "Red" prende le mosse dal bassone di Panos e si dipana con uno slow pesante ed accorato, per poi evolversi in un mid-tempo assassino. Insomma, più che buona la prima prova con questo "Stand Up and Be Counted" per gli Obscurus Rex che, lo confesso, dal nome mi aveva fatto prefigurare una proposta Doom ed invece si candida ad entrare nel firmamento delle bands Classic/Power più talentuose.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    14 Ottobre, 2023
Ultimo aggiornamento: 15 Ottobre, 2023
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Questo quintetto di assassini a nome Meurtrières proviene dalla dotta Lione, in Francia. Il primo aspetto che balza all'orecchio è l'utilizzo dell'idioma transalpino nel cantato; il secondo è quello di avere una voce femminile (cosa che, ammettiamolo, avviene non certo sovente nelle bands di metallo pesante...). Formatisi nel 2018, hanno esordito con un EP recante il loro nome, composto da cinque pezzi, peraltro non presenti nella tracklist di questo loro primo full-length. Il genere proposto è un Heavy/Power Metal alquanto classico, di robusta struttura e di buon dinamismo con tematiche ispirate a storie perdute di cappa e spada, ambientate nel periodo forse più buio ancora del Medioevo, quello tra il '500 ed il '600 quando l'unica che girava di notte con le fiaccole era la ronda (da cui il titolo del CD e la title-track, "Ronde de Nuit"). L'impatto è frontale (e non solo con la opening track) con i nostri cinque che riescono - grazie ad una produzione all'altezza della situazione - a farci sbattere contro un muro sonoro eretto dalle due chitarrone di Flo e Olivier, supportate da una sezione ritmica-tsunami composta dal premiato duo delle demolizioni Xavier/Thomas; a coronamento, l'ugola selvaggia e carica di pathos di Fiona, davvero adattissima a tutto il contesto. L'intero album è una lunga e tosta cavalcata a venature epiche, che ti trascina in un vortice maideniano della miglior specie, che, a tratti, mi ha riportato alla memoria i primissimi Omen, quelli di "The Axaman" e "Warning of Danger" (in particolar modo nella traccia "Chevaleresses du Chaos", così come degna di nota è la traccia finale "La Revenante"); cavalcata inframezzata dai frequenti duelli chitarristici, non certo virtuosistici, ma comunque efficaci al punto giusto, esattamente come questa realizzazione killer dal titolo "Ronde de Nuit" dei cinque francesi Meurtrières, che si disvela non certo come miracolo musicale, ma che si può a giusta ragione ritenere efficace quanto basta per giustificarne l'acquisto.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    07 Ottobre, 2023
Ultimo aggiornamento: 07 Ottobre, 2023
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Non capita spesso di imbattersi in una band interamente al femminile; se poi, addirittura, si tratta di una all-female band italiana, allora c'è davvero da brindare con robuste pinte di birra, trattandosi di una rarità! Nel non tanto lontano 2015, in quel di Milano, nascevano le Wicked Asylum, band molto interessante che ha dato alle stampe ad un fuoco di fila di singoli, poi confluiti nel full-length di debutto "Out fo the Mist" nel 2020. A seguire, gli aperitivi costituiti dalla title-track e "Crystallased", affluiti in questa loro nuova opera intitolata "Kintsugi", ispirata a una filosofia orientale che significa letteralmente “riparare con l'oro”, un'antica pratica e tecnica giapponese che consiste nel riparare oggetti in ceramica utilizzando l'oro per saldare insieme i frammenti. In realtà, rappresenta la metafora delle fratture, delle crisi e dei cambiamenti che l’individuo può trovarsi ad affrontare durante la vita. E questo disco mi piace tantissimo: intanto perché le ben dodici tracce sciorinano un bel po' di buone idee e di altrettanto buoni spunti, manifestandosi come tutt'altro che scontate; le nostre cinque ragazze riescono a ricreare un mix corrosivo e venefico tra System of a Down, Infected Rain e, sotto il profilo prettamente vocale, dei loro concittadini Lacuna Coil (Cristina Scabbia, volenti o nolenti, ha influenzato molte cantanti anche straniere), solo molto più ruvide. I testi sono incentrati sui conflitti interiori, sulla introspezione e sulle problematiche esistenziali e ben collimano con il sound alquanto articolato, caratterizzato da svariati cambi di ritmo ed accelerazioni al cardiopalma. Certo, non ci troveremo i tipici assoli da virtuosi delle sei corde né vocalizzi con grande estensione, ma vi assicuro che l'effetto complessivo è di grande impatto e l'ascolto dei pezzi richiede un bel po' di attenzione in più: questo è un album tutt'altro che di evasione e di intrattenimento, pur non risultando mai stucchevole o eccessivamente indigesto. Lungo tutto il CD, infatti, si denota un giusto equilibrio nel songwriting e nella qualità del suono, sempre massiccio, ma mai né orecchiabile né ostico. Se poi l'intento è solo quello di pogare a più non posso, anche questo viene accontentato in pieno, filando via liscio e heavy. Il carillon di "Heart in Two" mi ha inquietato e sorpreso allo stesso tempo. Ma, in generale, tutta l'opera è permeata da una sottile vena di follia, a tratti tra il paranoico e l'infantile: persino la ballad "Drown" è "malata". Certamente una bella conferma per la band meneghina, di cui, ne sono convinto, sentiremo parlare a lungo.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    01 Ottobre, 2023
Ultimo aggiornamento: 01 Ottobre, 2023
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Per quei tre o quattro che non sanno chi sia KK Downing, basti dire che trattasi di uno dei due maestri d'ascia dei divini Judas Priest, di cui è stato fondatore. E scusate se è poco! Per quei cinque o sei che non sanno chi sia Tim "Ripper" Owens, basti dire che è stato - sia pure per una breve parentesi - colui che ha sostituito Sua Maestà Rob Halford come singer degli stessi Judas Priest; nell'album "Jugulator", la performance vocale di Tim in "Burn in Hell" è qualcosa di eccelso, quasi inarrivabile, tanto che - al solo pensiero di quel pezzo - sento dei brividi lungo la spina dorsale. E, anche qui, scusate se è poco! Se queste sono le premesse, dobbiamo dedurne che stiamo parlando di un vero e proprio super-gruppo, una mega-band che ha lasciato la sua prima traccia di fuoco con un debut album del 2021, "Sermons of The Sinner": un full-length sulla scia mortale del quale si situa questa nuova opera al metallo di KK & soci. Laddove, per soci (oltre al succitato Tim) si intende comunque gente che vanta una lunga ed onorata militanza metallica; insomma, non stiamo certo parlando di session, bensì di musicisti di tutto rispetto, che tanto hanno dato, danno e daranno per la causa dell'Heavy. Commentare le nove gemme componenti questo diadema duro e puro è arduo veramente, atteso che siamo al cospetto di autentici giganti del Metal: come si può commentare un assolo del mitico KK? O gli acuti di Ripper? Tutte cose che non si possono minimamente mettere in discussione! Ecco, se proprio devo trovare il classico pelo nell'uovo, devo dire che la voce di Tim è stata un po' troppo "halfordizzata", quasi a renderlo un clone della divinità canora summenzionata... Per me, l'ex-Iced Heart è quello di "Burn in Hell" in cui - senza dubbio - nel finale ha ricalcato sì le sue impervie orme, ma per quasi tutti i quasi sei minuti della sua durata ha mantenuto una sua ben precisa identità vocale distinta (anche se contigua) rispetto a quella di Rob. KK ha giocato facile, a cominciare dal nome della band che rievoca i fasti del passato, che ripropone nei duelli chitarristici che era solito ingaggiare con Glenn Tipton, il cui compito viene qui egregiamente svolto da A.J. Mills che regge più che bene l'inevitabile paragone, così come con i richiami all'epiteto "sinner", che rievoca uno dei tantissimi pezzi sacri dei Judas. Se proprio devo scegliere un brano tra questo ensamble di gioielli di metallo pesante, scelgo l'accoppiata "The Sinner Rides Again" e "Keeper of the >Grave". Oh, ovviamente, opinione puramente personale, eh? Invece, il fatto che questo CD sia una vera e propria lezione di Heavy Metal impartita da chi può davvero permetterselo, è un dato oggettivo ed incontrovertibile.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    23 Settembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 23 Settembre, 2023
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Avevo già recensito gli Apostolica in occasione dell'uscita dell'album "Haeretica Ecclesia" due anni orsono e ne sono stato ben felice perché sono un appassionato del Medioevo e, soprattutto, delle tematiche legate all'eresia ed alla Santa Inquisizione. Tematiche dalle quali attingono a piene mani gli Apostolica, forse anche perché - in quanto italiani - hanno anche loro nel DNA le reminiscenze connesse alla costante presenze del Vaticano nella nostra storia, con tutto ciò che ne scaturisce e ne consegue. Diciamo subito che, questa loro seconda fatica sulla lunga distanza, segna una prosecuzione senza soluzioni di continuità, con il full-length di esordio; praticamente è come se iniziasse esattamente da dove era finito il predecessore: i cinque membri dal biblico nome e dal look inquietante (tipo chi ha osato guardare Medusa) hanno, così, inteso dare ulteriore spinta alla loro proposta, ritagliandosi il giusto spazio nel metalrama autoctono ed internazionale. La opening nonché title-track si appalesa quanto mai maestosa nel suo incipit, per poi aggredirci subito con un organo monumentale in grande evidenza (come sarà lungo tutto il percorso del CD) con un coro da brividi, degno di fungere da supporto musicale di una allegra sessione di torture varie in puro Torquemada-style. La traccia seguente - dedicata alla amazzone che fu fondatrice di Smirne - è vieppiù grandiosa nella sua struttura epica, quasi orchestrale/operistica; così come fortemente epicheggiante è il pezzo dedicato alla controversa figura di Rasputin, tacciato di essere amante della moglie dello Zar di tutte le Russie Nicola II Romanov. La successiva "Black Prophets" si discosta un po' dall'alveo dell'album, manifestandosi più mid-tempo Heavy, con Ezechiele che sfodera una performance vocale ragguardevole mentre con l'accoppiata "Gloria" ed "Heretics" i nostri cinque tornano subito a riprendere il filo del discorso, in guisa - se possibile - ancor più furente e con la chitarra di Isaia sugli scudi. A tratti, mi hanno riportato alla mente i teutonici Powerwolf, i quali, peraltro, trattano le medesime tematiche. Dopo una "Tomorrow Belongs to Me" un po' fuori luogo, non poteva mancare un pezzo inneggiante al potere del fuoco ("Fire") con la sua forza purificatrice, espressa attraverso i famigerati roghi sui quali le streghe decedevano (beninteso, per soffocamento e non in quanto bruciate vive). "Veritas" invece si riferisce alle pseudo confessioni che venivano estorte a tutti (ma, soprattutto, a tutte) i/le malcapitati/e nelle grinfie degli esperti torturatori della Santa Chiesa. Una potente e ben calibrata "Skyfall" funge da anticamera alla traccia finale, più che mai classicheggiante e che pone il sigillo definitivo ad un'opera al nero sontuosa, questo "Anima Haeretica" che consegna agli annali del metallo una band di alto livello, certamente destinata a fare grandi cose e che seguiremo con grande interesse.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    16 Settembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 16 Settembre, 2023
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Di formazione piuttosto recente (2019), i Vision Master sono duo in cui ci si è divisi la sezione ritmica da una parte (Reuben), ascia e ugola dall'altra (Dan). Mi sembra di vederli, i due amiconi, che - al pub, davanti ad una birra - in quel di Snohomish / Olympia, Washington complottano per prendere d'assalto il metalrama mondiale. Certamente, tantissimi buoni propositi, innumerevoli idee bellicose, una pletora di proclami... Un EP uscito nel 2021 ("Orbs") ed un singolo ("Wolves in the Shadows") quest'anno come antipasto del full-length di esordio, nel quale è stato inserito. Il risultato? Non ci siamo proprio! Un debutto alquanto opaco, composto da pezzi quasi tutti spompati, con (a tratti) delle idee decenti ma avvilite da una esecuzione al limite dello scolastico. Un compitino striminzito, da minimo sindacale in cui "spicca" la voce di Dan del tutto fuori luogo... da ragazzino che si cimenta con il metallo, una vocina che vorrebbe giocare con l'Heavy, ma che finisce con il bruciarsi. Che poi, è la sensazione che pervade tutto l'ascolto di questo album al punto da sperare solo che finisca il prima possibile, per quanto è banale e - a tratti - persino urtante. Già alla quarta traccia non se ne può più. Che si tratti di una coppia di giovani che vogliono giocare a fare i metallari duri e trve? Poco importa, perché ciò che conta davvero è la proposta musicale che - in questo caso - risulta da declinare fermamente. Concedo loro un due di incoraggiamento, auspicando che - alla prossima release - elevino notevolmente la media compositiva ed esecutiva, in questo incipit discografico davvero bassina... In più, anche l'artwork è tutt'altro che affascinante.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    09 Settembre, 2023
Ultimo aggiornamento: 09 Settembre, 2023
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Questa volta siamo al cospetto dei Breforth, quintetto tedesco di recente formazione che, dopo aver dato alle stampe buona parte dei brani di cui si compone questo loro full-length di esordio, vengono fuori ora con questo lavoro niente affatto malvagio, dal titolo eloquente "Metal in My Heart". Il five piece teutonico (che, presumibilmente, ha mutuato il moniker dal cognome del suo fondatore ed axeman Jurgen) ci propone un metallo iper-classico con venature di quello che un tempo veniva definito "Adult Oriented Rock" (A.O.R.), ossia con una strizzatina d'occhio al riff "catchy" di pronta presa melodica - di quelli che ti si schiaffano immediatamente nel cervello e non ne vogliono più sapere di uscirne - al punto che, in taluni passaggi, mi hanno riportato alla mente gli Europe della prima ora (quelli ante-"The Final Countdown", tanto per intenderci), solo più incazzati. Prova ne sia la voce di Peter, che vanta un'estensione di tutto rispetto e risulta, nell'arco dei brani, tutt'altro che monotona, ben coordinandosi con il sound massiccio originato dal resto della band: la sezione ritmica formata dal tandem di acciaio Jens/Arne costituisce il giusto alveo nel quale vanno a confluire le asce di Jurgen ed Eric, affilate come bisturi. Apre le ostilità una anthemica "Reset My Sanity", a cui fa seguito "Diggin' in the Dirt" che ti colpisce in pieno volto. In "Dynamite" la band sfodera un innesto di hammond davvero sapiente sul quale irrompe un assolo al fulmicotone davvero ragguardevole. "Wheel of Fortune" è la immancabile ballad, alquanto struggente e con l'ugola di Peter in gran spolvero, mentre "Social suicide" addirittura snocciola a sorpresa il ritornello della mitica "Balls to the Wall" dei colossi Accept; "Nighttrain to Paris" irrompe a in stile bulldozer. La traccia finale "Need More Rock'n'Roll" chiude degnamente una fatica che consegna alle cronache metalliche una band assolutamente annoverabile tra quelle delle quali sentiremo sicuramente parlare in futuro, perché in grado di propagare il verbo e la tradizione del Metal negli anni a venire. Da tenere d'occhio.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    30 Agosto, 2023
Ultimo aggiornamento: 30 Agosto, 2023
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Davvero singolare la breve (ma intensa) storia di questo sestetto italo-tedesco, sorto appena lo scorso anno e che – nel volgere dei dodici mesi – ha sfornato quasi tutte le tracce che compongono questo loro full-length di debutto sotto forma di singolo, per poi approdare all’album di esordio ricomprendendoli nella tracklist di cui sopra. Questa loro opera prima mette subito le cose in chiaro: gli All For Metal hanno come missione quella di rinverdire i fasti dell’Epic Metal di matrice nordico-teutonica, ispirata alla fulgida storia dei Vichinghi, attingendo a piene mani dalla loro copiosa mitologia. E di farlo attraverso delle composizioni caratterizzate dal rispolverare una modalità che, a dir il vero, si era un po’ persa per strada: quella dell’anthem. Infatti, tutti i pezzi che compongono questa loro release sono dei potenziali inni da cantare a squarciagola durante i concerti: immaginiamoci l’effetto da brividi che provocherebbero se cantati all’unisono da migliaia di fans, magari abbinata alla classica remata di gruppo, ormai diventata un classicone dei gigs di bands come Amon Amarth (tanto per fare un nome qualunque da accostare al nostro sestetto teutonico/italico). C’è da sottolineare la superba performance vocale di Antonio e Tetzel: voci come se ne sentono poche, all’altezza della energica altisonanza dei brani, in grado di rievocare efficacemente la grandeur dei mitici Manowar che furono (vedi la speech-intro di “Prophecy of Hope”). Più che un album, questa è una vera e propria saga - coerentemente al suo titolo ("Legends") - nella quale anche gli assoli di Ursula e Jassy appaiono epici. Il suono è sempre altamente vigoroso e muscolare, esaltato da una produzione in grado di esaltare viepiù la maestosità delle linee melodiche proposte e magistralmente eseguite. Nessuna sbavatura, nessun cedimento di sorta: questo CD è un monolite massiccio come pochi. Persino il look della band è perfettamente in linea e coerente con il tutto, atteso che i componenti sono tutti palestratissimi e fisicatissimi, agevolando in tal modo una indiscussa credibilità a tutti i livelli. Monumentali!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    25 Agosto, 2023
Ultimo aggiornamento: 25 Agosto, 2023
Top 50 Opinionisti  -  

E rieccoci ad avere l’incommensurabile onore di recensire ancora una volta l’altrettanto immenso Udo! Riuscire a trovare i termini più calzanti per esprimere ciò che crea quello che – senza tema di smentita - è uno dei pochissimi frontmen per antonomasia rimasti, è impresa davvero ardua. La sconfinata discografia del cantante teutonico è paragonabile ad un inesauribile giacimento di tesori metallici: la vena compositiva del leader indiscusso del metallo germanico sembra non avere mai fine. Sicuramente, tra i suoi tanti meriti, c’è anche quello di riuscire a circondarsi sempre non di semplici gregari, bensì di musicisti con i contro-attributi in grado di dare il loro significativo apporto in termini di freschezza sia compositiva, che esecutiva. Difatti, questa ennesima release di Udo riesce – pur mantenendo intatto il sound costituente il “marchio di fabbrica” di casa Dirkschneider – a proporre dei pezzi di puro ed incontaminato Heavy Metal tedesco sempre al passo con le ultime evoluzioni del nostro beneamato genere, ma sempre con un occhio alla tradizione che fu dei mitici Accept (come, ad esempio, l’innesto di scampoli di musica classica alquanto noti come in “Fight for the Right”). L’ugola è quella di sempre, pronta a sfoggiare vocalizzi al vetriolo come ai vecchi tempi (davvero un’ugola “highlander”!) mentre il “cucciolo” di famiglia Sven sfodera performances bestiali dietro le pelli, assecondato dal basso modello scala Richter di Peter. Le chitarre di Andrey e Dee sono come bisturi impazziti, sia pur nel pieno controllo di questi due virtuosi axemen. Il risultato è un sound vigoroso, di grande impatto, caratterizzato da caterve di riffs che ti trapanano la scatola cranica e non ne escono più se non dopo averla fatta esplodere causa headbanging iper-scatenato, innescato da pezzacci da paura che si susseguono senza requie, portando sugli scudi la opening track "Isolation Man" super-efficace, “The Flood” e “The Double Dealer's Club”, senza dimenticare l’ennesimo riff-killer di “Sad Man’s Show” e quell’autentico terremoto della title-track finale. Insomma, ancora una volta Udo si conferma tra i mostri sacri degni di sedere nell’Olimpo del Dei del metallo! Imperituro!

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