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Opinione scritta da MASSIMO GIANGREGORIO

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    12 Luglio, 2023
Ultimo aggiornamento: 12 Luglio, 2023
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Il metallo a stelle e strisce ha donato alla causa innumerevoli bands che hanno contribuito a innalzarne i fasti, alcune delle quali calcano le roventi scene ed i roventi palchi da diversi decenni senza dare mai segni di cedimento alcuno. Tra queste possiamo annoverare – senza tema di smentita – i Jag Panzer: un gruppo che, quasi fin dagli albori dell’Heavy Metal, ha dato lustro alla celebrazione del metallo. Partiti nel 1981 da Colorado Spring, hanno snocciolato una sequenza incredibile di perverse creature, trasformando in musica i peggiori incubi e le tematiche da sempre care al nostro beneamato genere. Sì, perché – quando si parla di Jag Panzer – si parla di Heavy Metal che più potente non si può! Quello ultra-potente, quello che ti scassa le casse, quello che ti fa pogare fino all’inverosimile, quello che ti fa scatenare un headbanging come se non ci fosse un domani. Dieci sono le gemme che compongono questo loro ennesimo diadema, ultimo solo in ordine di tempo, che va ad arricchire un palmares invidiabile, composto da ben undici full-length, due EP, udici singoli, cinque demo e chi più ne ha, più ne metta. Certo, anche loro non sono stati esenti da turn over nella line up ma – tutto sommato – il nucleo centrale è sempre rimasto ai propri posti di combattimento, fedele ai comandi del Dio metallo, come incrollabili epigoni di un sound fatto di potenza, precisione, melodia e ritmi da infarto. Non a caso ho scritto di dieci perle, perché il livello qualitativo medio delle tracce che compongono questa release è davvero alto: dalla inziale “Bound As One” alla finale “Last Rites” è tutto un susseguirsi di scosse di terremoto, con il basso di Key in gran spolvero (specie in “Prey”) la batteria di Rikard implacabile, delle asce affilatissime (gli assoli di Ken sono virulenti e taglienti) e da un’ugola – quella di “The Tyrant” - degna dei mostri sacri dell’estensione vocale. Un album all’altezza della situazione sotto tutti i punti di vista, che – a sei anni di distanza da “The Deviant Chord” – ci restituisce dei Jag Panzer inossidabili ed in grado di dire la loro ancora per molto tempo nel metalrama internazionale.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    01 Luglio, 2023
Ultimo aggiornamento: 01 Luglio, 2023
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I Virgin Steele sono una delle formazioni storiche del vero Epic Metal. Si può dire - senza tema di smentita - che sono loro ed i Manowar i reali difensori della fede nel metallo epico. E, guarda caso, i Virgin Steele si sono formati nella Grande Mela nel 1981, praticamente simultaneamente alla band di Eric Adams, che fu anche del mitico Ross The Boss. Ricordo ancora quando mi trovai tra le mani il loro primo album, con quella copertina così strana, particolare come il sound che la band newyorchese proponeva nel lontano 1981. Un album di esordio omonimo, che si poggiava (così come i Manowar) sull'asse d'acciaio David DeFeis/Jack Starr, ossia cantante/chitarrista, entrambi dalla personalità sconfinata, tant'è vero che finirono col separarsi artisticamente, esattamente come successe ad Eric e Ross. Incredibilmente, le due bands hanno vissuto una storia parallela infinita, giungendo fino ai giorni nostri superando battaglie su battaglie ed uscendone vittoriosi proprio come i protagonisti delle loro epopee musicali. Sconfinata è la loro discografia, che attraversa i decenni inossidabile e pregiatissima, anche nel post Jack Starr. Il personaggio mitologico protagonista di questa ennesima saga sonora marchiata Virgin Steele è Dioniso, a molti meglio noto come Bacco, un Dio della mitologia greca, poi mutuato in quella della gloriosa, antica Roma (altro concept al quale sia i nostri che i Manowar sono fortemente legati ed ispirati), al quale tutti noi ci sentiamo particolarmente vicini. Se, però, devo proprio tracciare un segno differenziale tra questi due mostri sacri, devo dire che - ad onoro del vero - i Virgin Steele sono quelli che più si sono evoluti. E ciò, grazie alla infinita vena compositiva di David DeFeis, carismatico ed indiscusso leader della band che non esiterei a paragonare a Jaz Coleman dei Killing Joke: pochi sanno che quest'ultimo è il direttore dell'Orchestra Filarmonica di Praga e che eccelle anche nelle composizioni classiche e nelle orchestrazioni; esattamente come David, che, oltre ad essere polistrumentista, è la vera anima della band, offrendoci - in ogni pezzo e da moltissimi anni a questa parte - dei gioiellini variegatissimi sia a livello di trame sonore che di soluzioni orchestrali, pur rimanendo coerente alla matrice epica senza mai sconfinare nel Metal sinfonico. Se non è un marchio di fabbrica questo... D'altronde, anche la durata di ciascun brano, la dice lunga sotto questo punto di vista: ma il bello è che non ci si annoia mai, per quanto ci sono continui cambiamenti di tempo e di melodie, per come sono sapientemente alternate le atmosfere, ora più serrate ed ora evolventi in ariose aperture orchestrali. Insomma, da una grandeur all'altra. Vi troviamo, oltre all'utilizzo notevolissimo del pianoforte (David è anche un eccellente pianista) abbondanti innesti di archi e sintetizzatori ad incorniciare ed impreziosire ogni singola gemma delle dieci che compongono questo ennesimo diadema di Epic Metal ordito da una band della quale non possiamo non ammirare la carriera stratosferica ed alla quale non possiamo non augurare una lunghissima vita, perché i guardians of the flame rimangano ancora a lungo tra noi.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    24 Giugno, 2023
Ultimo aggiornamento: 24 Giugno, 2023
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Certo che, quando sei già a 40 gradi nel luogo in cui ascolti e scrivi, un po' sei già preparato alle roventi atmosfere che solo l'inferno sonoro del metallo pesante sa produrre. Ma non appena - dopo l'immancabile intro che è tutto un programma, visto che ci guida nella traversata dell'Acheronte - ti si butta addosso (guarda caso) proprio "Burn in Hell", la temperatura si fa oltremodo torrida! Gli iberici Iron Curtain fanno davvero sul serio! Sono in grado - fin da quando si sono uniti in un malsano sodalizio nel 2007 - di contribuire a rinverdire i fasti del buon vecchio Heavy Metal canonico, tradizionale, quello votato alla potenza senza confini, quella che mette a ferro e fuoco tutto e tutti. Hanno debuttato con il classico demo "Mosh or Die" nel 2009, seguito dal secondo demo "Dirty & Fast" l'anno successivo. E' stata poi la volta della partecipazione ad una compilation ("B-Days") nel 2012, che ha fatto da preludio al loro primo album "Road to Hell" ed all'EP "Black Fist", tutto nello stesso, magico anno. Quindi, la band partecipa allo split "Heavy Metal Strike" datato 2013, anno in cui vede la luce il secondo full-length "Jaguar Spirit". Poi, tutto un convulso susseguirsi di realizzazioni, tra split, EP intervallati dal terzo album "Guilty as Charged" del 2016, fino a giungere a questo ennesimo EP in cui accostano la figura dell'headbanger a quella del gladiatore; e, a pensarci bene, mai accostamento fu più veritiero e calzante: basti pensare a quello che accade durante i vari moshpit, stage diving e super pogate di gruppo durante i gigs sparsi in tutto il globo terracqueo per rendersi conto di come ogni seguace del Dio metallo combatta una diuturna guerra per la sopravvivenza del beneamato genere musicale che (come ben sappiamo) è in realtà un vero e proprio stile di vita. Il quartetto di Murcia ce la mette tutta per farci investire in pieno da una fiammata lunga poco più di 22 minuti ad altissima carica adrenalinica, senza un attimo di respiro dalla opening track di cui sopra, fino alla finale "The running man", con nel mezzo una title-track moooooolto massiccia. Il tutto eseguito con sacro furore, da liberare dalle casse a tutto volume e con in mano l'immancabile birra di ordinanza che si sparge inesorabilmente dappertutto a causa dell'headbanging sfrenato al quale non puoi assolutamente sottrarti ed indietro non si può tornare, anche perché ci troveresti la cortina di ferro a stopparti, riconsegnandoti al piacevole tormento di questo azzeccatissimo EP intitolato "Metal Gladiator".

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    17 Giugno, 2023
Ultimo aggiornamento: 17 Giugno, 2023
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Il metallo pesante danese ci ha sempre regalato delle gemme favolose, un po' in tutti i sottogeneri: i Mercyful Fate con Sua Maestà King Diamond per l'Heavy Metal, gli Artillery per il Thrash, i Volbeat per l'Heavy/Groove; e per l'Epic/Doom poteva mancare il sigillo della terra della Sirenetta? No di certo! E difatti ecco gli Altar of Oblivion, quartetto formatosi ad Aaalborg nel 2006. La loro produzione si appalesa piuttosto prolifica, con ben cinque EP (compreso quest'ultimo "Burning Memories"), tre full-length ed un album live, oltre a ben tre demo e due singoli. Questa loro ultima opera, tolte due intramezzature ("Cosmic Chaos" e "Radiations") sfoggia tre pezzacci nient'affatto male! La title-track è bruciante di nome e di fatto, perché è come se ci si parasse dinanzi un tizio infuriato con in mano un lanciafiamme, intenzionato ad arrostire tutto ciò che gli capita a tiro con gusto sadico, con il suo riffone azzeccatissimo. Potenza e melodia si fondono alla perfezione, con il cantato di Mik più che centrato ed adatto al sound proposto. L'assolo di Martin è assolutamente pregevole e tecnico quanto basta per impreziosire il brano (e, questa, è una caratteristica che contraddistinguerà anche gli altri due brani). a successiva e lunga "Through the Night" entra con il suo massiccio cadenzone a farci scuotere la capoccia a dismisura; qui sì che la voce di Mik assume contorni epici e altisonanti. La sezione ritmica ha l'incedere tipico di un inesorabile caterpillar con le due asce che si fondono a meraviglia, deliziando oltremodo il nostro headbanging. E poi incombe "Manic Masquerade", con le sue alternanze ritmiche efficacissime e pesantissime: un pezzo che completa degnamente un trittico super-heavy che ci lascia in un bagno di sudore e con i padiglioni auricolari devastati. Davvero notevoli, questi Altar Of Oblivion: secondo me andranno moooolto lontano!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    14 Giugno, 2023
Ultimo aggiornamento: 14 Giugno, 2023
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Gli Xothiani (anche conosciuti come Starspawn of Cthulhu) sono personaggi ideati dal grande HP Lovecraft nell’ambito della sua saga di Cthulhu; appartengono ad una specie che ha grandi somiglianze fisiche con il Grande Vecchio Cthulhu, ma sono di taglia più piccola. Ebbene, gli Starspawn of Cthulhu sono annoverabili tra i tantissimi fans della letteratura di Lovecraft, come dimostra il loro stesso moniker. Sorti nel 2019, hanno esordito nel 2020 con l’EP “Yog-Sothothery”, a cui ha fatto seguito il singolo “Dunwich”, cover del brano degli Electric Wizard. Nel 2012 un altro EP (“Tales from the Unknown”) ed ora questo ulteriore EP - "The Cursed Vision" -, che si inserisce sempre nell’alveo di un Doom Metal a tinte fortemente scure, al limite del malinconico e del depressivo. I 27 e passa minuti in cui si articola questo EP costituirebbero la colonna sonora ideale per qualsivoglia camera ardente e per un funerale in pieno inverno, con tanto di pioggia torrenziale ad allietare ulteriormente gli intervenuti. Pregevolissimi risultano gli arpeggi di chitarra classica, specie nella opening track "Iranon", che denotano una tecnica niente affatto male dei nostri due doomsters veneti, così come degni di rilievo sono gli inserti di pianoforte, lo strumento che meglio degli altri (insieme al violoncello) sa estrinsecare i sentimenti umani più funesti e deleteri. Nel secondo pezzo, "The Last Raft", manco a dirlo, il violoncello giunge a rendere ancor più cupa la già pesante atmosfera mentre nella successiva traccia ("Black Lotus", la più lunga con i suoi oltre 8 minuti) è proprio il pianoforte a tratteggiare una malinconia sempre più dilagante. La seguente "Blind God" è a dir poco asfissiante, con una voce vieppiù cavernosa. Chiude le danze macabre una final track introdotta da un basso iper-compresso che acuisce ancor di più (ammesso che sia possibile) la indicibile sofferenza che accompagna l’ascolto dell’intera opera di questa coppia al nero. Insomma, ci sono tutte le premesse per un primo full-length con i fiocchi. Ovviamente, funerari.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    27 Mag, 2023
Ultimo aggiornamento: 27 Mag, 2023
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Avevo pensato di esordire con la trita e ritrita frase "una band che non ha bisogno di presentazioni", ma poi ho pensato "vabbè, e allora cosa ci sto a fare io davanti al pc?". Eppure, davvero nel caso dei Metal Church, possiamo dire senza tema di smentita che siamo al cospetto di una band che ha scritto la storia dell'heavy metal! Una discografia sconfinata, che parte dai leggendari albori degli anni '80, una interminabile serie di gemme metalliche di inestimabile valore, che è giunta intatta fino ai nostri giorni garantendo un marchio di assoluta qualità sempre mantenuto intonso lungo i decenni, resistendo al fluire delle mode, che sono sempre scivolate addosso ai Nostri, che sono sempre rimasti fedeli al credo della Chiesa Metallica da loro professato incessantemente per tutto il globo terracqueo. Non fa eccezione questa loro ultima release, un concentrato di ultra-violenza sonora, di cattiveria compositiva ed esecutiva, di potenza e tecnica assolute come ci hanno da sempre abituato Kurdt Vanderhoof & Company! Mai titolo per un album fu più azzeccato: il gruppo incarna il concetto di Congrega dell'annichilimento, perché all'ascolto di questo full-length si viene letteralmente rasi al suolo. Il tutto non è stato minimamente scalfito nemmeno dalle vicissitudini della line up (compresa la tragica scomparsa del cantante David Wayne nel 2005). Il credo della Chiesa del Metallo è rimasto imperituro ed indistruttibile nel tempo, incredibilmente prolifico e dannatamente integro ed integralista. Dover scegliere quali siano i brani migliori di questo CD è come chiedere ad un/a bambino/a se vuole più bene a mamma o a papà: impossibile rispondere; dalla opening track "Another Judgement Day" alla conclusiva "Salvation" è un susseguirsi di scosse di terremoto che non si possono misurare né con la scala Mercalli, né con la scala Richter, per di più senza soluzione di continuità. Ecco perché si resta annichiliti dopo l'ascolto di questo capolavoro come ce ne sono pochi ultimamente; e tutto concentrato in poco meno di 50 minuti! Quando si mettono a comporre, si crea qualcosa di veramente magico, perché questa band sa sempre regalarci dei masterpiece esaltanti, con i loro riffs superlativi, una sezione ritmica degna di Terminator, dei duelli di assolo d'ascia affilati come non mai ed un'ugola intrisa di vetriolo sempre in super-estensione. Mi sento assolutamente in grado di inserire i Metal Church nel novero dei veri e propri defenders of the faith di noi metalbangers: finché ci saranno loro, il nostro beneamato Heavy Metal non corre alcun rischio di estinzione. E questa volta sì che lo ammollo un bel cinque stelle a questo "Congregation Of Annihilation", strameritato!!! Long live Metal Church!!!!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    20 Mag, 2023
Ultimo aggiornamento: 20 Mag, 2023
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Confesso di non aver mai saputo che in quel di Gradisca d'Isonzo/Gorizia, nel Friuli-Venezia Giulia, esistesse una band dal nome lungo come la sua militanza sulla scena metal nostrana; eh sì, perché questo quartetto tutto Hard’n’Heavy, i Sacro Ordine dei Cavalieri di Parsifal, calca le metalliche lande italiche da ben 23 anni! Formatisi nel 2000, solo nel 2005 riescono a dare alla luce il loro primo demo, intitolato “Sacro Ordine”; poi, dieci lunghi anni di silenzio rotti da un album dal vivo che ha fatto da preludio a “Heavy Metal Thunderpicking”, il loro agognato primo full-length datato 2018; passano altri cinque anni e finalmente in nostri quattro ragazzotti sfornano questo “Until the End” che, effettivamente, sciorina un bel po’ di idee degne di attenzione. Il nome del gruppo rievoca tematiche tanto care all’Epic Metal e, in realtà, questo album si apre con una efficacissima “Black Lion” che ha un piglio furente, quasi fosse un assalto sonoro diretto ed immediato, giusto per mettere in chiaro le intenzioni dei Cavalieri con quel tocco epico che caratterizza il sound da loro proposto. I nostri epigoni del cavaliere della Tavola Rotonda noto per essere riuscito a recuperare il Santo Graal, continuano a prenderci d’assalto con “Starblazer”, che sfoggia un riff azzeccatissimo ricalcante gli stilemi del Power/Epic più genuino. Analogamente dicasi per la successiva “Inside Me”, in cui la banda rincara la (già massiccia) dose di potenza. “Still Dreaming” è un autentico pezzo-bulldozer, seguito dall'immancabile ballad, “Stone River”, che ci consente di rifiatare giusto il tempo di prepararci psicologicamente all’ennesimo agguato tesoci con “Doomraiser”, con un arpeggio centrale come se ne sentono pochi, che sfocia nell’ennesimo assolo tecnicamente ineccepibile (come, peraltro, tutti gli assoli che infarciscono questo album in maniera davvero pregevole). “Eagle of the Night” si presenta un po’ più orecchiabile rispetto agli altri brani, ma pur sempre dannatamente tosta, mentre “Fallen Hero” costituisce il secondo rallentamento rispetto al resto delle tracce, sempre in modo suggestivo e coinvolgente, lasciando poi il posto all’ennesimo riff tritacarne di “Seal Of Fire”. Si chiude in bellezza con la title-track, anch’essa variegata con il suo mid-tempo e l’innesto pianistico che sugella un lavoro godibilissimo ed oltremodo apprezzabile. Se devo fare un appunto alla band, ancora una volta – come avviene per gran parte dei gruppi nostri compatrioti – è nella pronuncia inglese, non proprio eccelsa, che per poco non finisce con lo svilire le indubbie qualità canore di “The Reaper”: si può e si deve far di più e meglio da questo punto di vista; è davvero un peccato rovinare una release di ottimo livello generale con un piccolo/grande difetto del genere…

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    06 Mag, 2023
Ultimo aggiornamento: 06 Mag, 2023
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Alla maggior parte di voi, probabilmente, il nome dei Savage Grace non dirà granché, ma ai vecchi metallari come il sottoscritto fa fare un tuffo nel passato non indifferente! Questa band in puro stile Power Metal a stelle e strisce ha visto la luce nel lontano 1982, passando la vita a mettere a ferro e fuoco la scena metallica coast to coast, da Los Angeles a New York, generando delle perle di purissimo acciaio sempre sottovalutate. Ricordo ancora quando acquistai il loro primo vinile "Master Of Disguise" nel 1985, che aveva dato seguito al primo demo di prassi datato 1982 ed all'EP "The Dominatress" dell'anno dopo: per me fu come ricevere una frustata a freddo nel bel mezzo della schiena! Da allora, ne è passata di acqua sotto i ponti ma, stranamente, i nostri quattro losangeliani non hanno mai trovato la definitiva consacrazione che a mio modesto avviso meritavano e meritano. Eppure, le condizioni c'erano e ci sono tutte per uscire dal novero delle bands di nicchia: un maestro delle quattro corde italianissimo come Fabio Carito, che ha collaborato on stage con il mitico Tim "Ripper" Owens (il suo sigillo su "Burn in Hell" dei Judas Priest, è qualcosa di davvero mitologico...), con Warrel Dane, così come - per quast'ultimo combo - il picchiatore di pelli Marcus Dotta; un singer che ha militato nei Lynch Mob (anche se inserito in line up di recente) ed un leader fondatore inossidabile come l'ascia che maneggia. Venendo a questa ennesimo lavoro in studio, già l'intro che ripropone un suono tanto caro a noi vecchie rocce, quello della puntina del pick-up del giradischi quando si adagia sul vinile, mi ha messo a mio agio; la opening track "Barbarian at the Gates" mi ha rinnovato quella famosa scudisciata nelle schiena di cui sopra, dando inizio alle vere ostilità sonore alle quali il quartetto ci aveva già abituato. Dopo una "Automoton" massiccia da morire, giunge l'apoteosi con la title-track: una introduzione che più epica e medievale non si può, mutuata dai canti dei Cavalieri Templari seguita da un ammaliante arpeggio, che dà la stura ad un pezzaccio da paura, di una potenza inaudita e di una intensità incredibile! D'altronde loro hanno sempre prediletto, per i loro testi, tematiche storiche e fantasy di tolkeninana memoria. "Slave to Desire" picchia durissimo e ti senti come un pugile in cerca dell'angolo del ring per potersi sottrarre alla gragnuola di pugni, senza trovarlo. "Land Beyond the walls" è semplicemente un caterpillar impazzito mentre "Star Crossed Lover" completa l'opera demolitoria. Solo con "Branded" ci lasciano un po' di respiro, per poi arrivare all'epilogo della bonus track "Helsinki Nights", lasciandoci stremati e sudatissimi ma felici. Bel colpo, Savage Grace!

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    29 Aprile, 2023
Ultimo aggiornamento: 29 Aprile, 2023
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Molto interessante, questo sestetto meneghino a nome Crimson Dawn! Cominciamo col dire che, tra le migliaia di intro che ho ascoltato, "Prospero's Castle" è senz'altro una delle migliori, con atmosfere tra l'horror e l'esoterico. Ottimo viatico per un album che segna la quarta fatica su lunga distanza dopo "In Strange Aeons..." del 2013, "Chronicles of an Undead Hunter" nel 2017 e "Inverno" del 2020. Non male per una band formatasi appena nel 2006, esordendo con il demo "A Dawn in Crimson" per poi essere annoverata nella "Force of Glory", compilation Melodic Metal datata 2009. Il tutto intervallato da due EP: "At the Cemetery Gates" (2015) e "The Open Coffin" lo scorso anno. Altra peculiarità del sestetto milanese è costituita dal fatto che, a differenza di tanti altri gruppi autoctoni, i suoi componenti non utilizzano pseudonimi, apparendo semplicemente con i rispettivi nomi e cognomi. Semplicità ed efficacia, quindi. Ma non nella musica, che risulta efficace si, ma non certo semplice nell'approccio. Innanzitutto per le tematiche affrontate e proposte, in bilico tra fantasy e fantascienza, con venature dark ed esoteriche. Ciò lo si può apprezzare, soprattutto, in "Nera Sinfonia", poiché cantata nel nostro meraviglioso idioma italico. La voce di Claudio Cesari è un misto tra Udo e Bruce Dickinson e mi ha ricordato un po' l'ugola di Tobias Sammet degli Edguy. L'utilizzo delle tastiere di Emanuele è a dir poco sapiente: sempre pronte a tratteggiare il sound nei passaggi tra il sinfonico e l'epico, così come fondamentale nei passaggi più darkeggianti. Le chitarre di Dario e Marco sono affilatissime e giungono a tagliare di fino nel momento degli assoli, tutti ispiratissimi ed altrettanto efficaci. A mio avviso, in un CD composto da tracce dalla qualità media alta, spicca "Hunter's Dream" ma - ripeto - è il livello qualitativo medio di tutto il full-length a lasciare più che soddisfatti dopo l'ascolto, che volge al termine dopo la saga lovecraftiana di "The Colour Out of Space". Un album che - più che alla pogata - invita alla profonda riflessione anche sui massimi sistemi, pur senza mancare di far avvertire tutta la sua possenza.

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Opinione inserita da MASSIMO GIANGREGORIO    22 Aprile, 2023
Ultimo aggiornamento: 22 Aprile, 2023
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Pregevole esordio come full-lenght per i Blood Star, band sorta a Salt Lake City, nello Utah - U.S.A., nel 2017. Dopo tre singoli tra il 2020 ("The Fear" e "Paris Is Burning​ / ​Too Scared to Run") ed il 2021 ("Silver Stallion") non inseriti nella tracklist di questo debut album, i quattro della stella di sangue si cimentano per la prima volta sulla lunga distanza con il loro onestissimo metallo pesante tradizionale di stampo tipicamente "Made in U.S.A."; la loro proposta è, infatti, un giusto equilibrio fra melodico (alla stregua di quello che una volta veniva etichettato come Adult Oriented Rock, quello, tanto per intenderci, dei Ratt, dei Blue Murder, dei Dokken) e Hard Rock, con chitarroni giganteschi in primissimo piano con riffs molto "catchy" ed orecchiabili, sezione ritmica in grado di creare crepe nei muri ed assoli non certo alla Malmsteen ma efficaci quanto basta. La caratteristica che balza subito all'orecchio è la scelta non già di un frontman, bensì di una frontwoman; opzione che, nel caso specifico, risulta più che azzeccata perché Madeline Smith ha un'ugola tagliente, una voce possente ma molto "femminile" (ormai da troppo tempo siamo abituati a voci growl di gentil donzelle che possono dare i punti a moltissimi colleghi maschietti quanto a grevità e penetrazione), che mi ha fatto subito scattare il parallelo con la singer della band tutta al femminile Vixen (anch'essa a stelle e strisce) alla quale assomiglia abbastanza. I pezzi (tutto l'album dura poco più di mezz'ora) puntano dritto allo stomaco, alle viscere, al cervello, con strutture melodiche che si infilano molto agevolmente e ci mettono un bel po' a dileguarsi, come nel caso di "Going Home", a mio avviso il brano più significativo, che meglio sintetizza il sound della band statunitense. Senz'altro degne di rilievo "Fearless Priestess", in cui l'ascia di Jamison esprime il miglior assolo del CD, e "Cold Moon", nonché il piccolo interludio "Dawn Phenomenon" ed il gran bel finale con una "Wait to Die" quasi motorheadiana, che sugella un lavoro che non brillerà di certo per innovazione, ma che è certamente più che degno di rimpolpare la vostra collezione tutta Hard'n'Heavy.

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228 risultati - visualizzati 61 - 70 « 1 ... 4 5 6 7 8 9 ... 10 23 »
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