Opinione scritta da Gianni Izzo
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Top 10 opinionisti -
Mentre scrivo, “The Great War”, concept sulla prima guerra mondiale, è già un ennesimo successo commerciale per i Sabaton, primo disco in Germania, è arrivato persino nella top 50 italiana, che non è cosa da poco nel nostro paese, per un disco metal che non porti il nome di Iron Maiden o Metallica.
La band di Brodén quindi si è aggiudicata un altro buon successo remunerativo. Per il resto i Sabaton non penso che cambieranno facilmente rotta musicale, permangono nella loro comfort zone, sia dal punto di vista lirico che strumentale, un power metal molto quadrato, songwriting semplice e immediato, immerso in tastiere e cori bombastici, guidato dalla voce non particolarmente bella ne potente del buon Joakim, ma riconoscibilissima ed ormai marchio di fabbrica del combo svedese.
La band si presenta più ispirata rispetto al precedente “The Stand Alone” che non mi ha convinto a pieno, i Sabaton cercano di ritrovare chorus più convincenti, qualche riff e ritmica un po’ meno ovvia, guardando alla summa artistica della loro carriera che rimane “Carolus Rex”. Non ci riescono eh! Però “The Great War” è piacevole all'ascolto, pur avendo qualche traccia opinabile, visti anche gli argomenti trattati. Un esempio su tutti è un brano come “82nd all the way”, che trasuda ruffianeria e andazzo fin troppo happy e telefonato, presentandosi subito come il punto più basso del disco, contrariamente a quanto afferma il bassista Sundstrom, che lo vede come carta vincente di “The Great War”.
L’album ha le sue carte vincenti in altri brani dall'appiglio un po’ più cupo e battagliero come la title-track, “A Ghost In The Trenches”, “Fields Of Verdun” e l’ultima e drammatica “The End Of War…”, che sanno immergere l’ascoltatore nella giusta direzione guerrigliera.
Anche l’epicità dell’opener, o la catchy “The Red Baron” non sono niente male, per il resto “The Great War” sta confermando per l’ennesima volta che i Sabaton, volenti o nolenti, sono una band molto amata soprattutto dai metalhead più giovani, ma altrettanto detestata da quelli più old school. Il nuovo album non cambierà certo questa prospettiva nei loro confronti. Per quel che mi riguarda, i Sabaton mi sono simpatici, e trovo che dal vivo riescano a mantenere davvero bene il palco, non saranno ricordati certo per la loro tecnicità, o per avere un cantante stellare, e neanche per l’originalità, ma non è comunque facile immagino saper creare un prodotto che porti tanti consensi, i Sabaton dalla loro hanno un songwriting che funziona bene il più delle volte, e sicuramente si sono ritrovati al momento giusto nel posto giusto, nella lunga storia del metal, sapendo come sfruttare il tutto a loro favore, il che non è poco.
Potete ascoltare il disco nella “History Version” che presenta dei brevi narrati con suoni ambient, messi all'inizio di ogni canzone, che ne riassumono il tema centrale. Se invece siete allergici ai narrati e volete ascoltarvi tutte le tracce di seguito senza interruzioni di sorta, c’è la versione classica del disco.
Ultimo aggiornamento: 30 Giugno, 2019
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Già mi ero occupato dei Nùmenor per la reissue di “Sword and Sorcery”, un album di tutto rispetto, che vedeva anche come guest il cantante dei Gloryhammer.
Questa volta il combo serbo capitanato dal vocalist Miranovic e dal chitarrista dei più famosi Alogia, Srdjan Brankovic, ci ripropongono la ristampa di “Chronicles From The Realm Beyond”, che acquista due brani nuovi in aggiunta alla track-list originale datata 2017, ma purtroppo perde la cover dei Blind Guardian “Valhalla”, che avrei ascoltato con molta curiosità, Anche il libretto e l'artwork sono stati completamente ricreato dall'artista Zivkovic.
Questa volta come guest troviamo il soprano croato Sandra Laureiano, già in forza come vocalist dei Therion fino al 2015. Nel disco ci delizia con la sua voce in “Moria” e “Beyond The Doors Of Night”.
Più o meno la qualità di “Chronicles…” eguaglia quella di “Sword And Sorcery”, la più grande pecca sono i suoni non sempre limpidi, ma questo miscuglio tra heavy/power epico e symphonic black, è per la maggior parte ben riuscito, anche se alcune tracce, come “Witching Hour” e la nuova “Lord Of Chaos”, per quanto buone, virano decisamente verso la sola musica estrema, il che rende l’album in questi frangenti un po' disomogeneo, sembra di ascoltare in effetti un’altra band.
Le restanti tracce riescono invece ad amalgamare meglio l’amore per il metal classico e quello estremo, riuscendo a costruire delle ottime cavalcate epiche, bei refrain, con il continuo botta e risposta tra screaming e clean vocals. L’opener, “The Hour Of The King”, “Over The Mountains Cold” e “The Last Of The Dragonlords” in questo senso sono probabilmente le canzoni più emblematiche e riuscite del disco. L’azzardo gotico aiutato dalla liricità della Laureiano in “Beyond…” dà ancora più varietà al disco. “Carvenstone” ha un buon bridge, ed un ritornello semplice che ti si stampa subito in mente, purtroppo l’influenza dei Rhapsody che furono, è talmente alta qui, che praticamente le strofe sono identiche a quelle di “Land Of Immortals”, cantate solo parecchie tonalità sotto, rispetto a quelle del buon Fabio Lione. Peccato infine per lo strumentale “Realms Beyond” che, con un arrangiamento più ricco e dei suoni più belli, per quanto sintetici, avrebbe avuto sicuramente un risultato migliore.
Per il resto, ribadiamo, "Chronicles" è un buon disco, che potrà sicuramente piacere agli amanti del metal più epico, sia classico che estremo.
Ultimo aggiornamento: 22 Giugno, 2019
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Registrato nel 2018 a Parigi durante il Dowload Festival, “The King Live In Paris” è il primo live degli svedesi Avatar.
Nonostante qualche sbavatura nella produzione, ad esempio ci sono un paio di momenti in cui secondo me il volume dell’ovazione dei fan, si alza in maniera un po’ esagerata rispetto a quanto dovrebbe, così come la voce di Johannes che diverse volte sovrasta gli altri strumenti, “The king live” rappresenta chi sono gli Avatar oggi, e quanto riescano a coinvolgere i metalhead nei loro spettacoli, che letteralmente pendono dalle loro note schizzate.
Intro di presentazione in francese, secondo lo stile (psico)regale dell’ultimo album dei nostri, l’eccentrico “Avatar Country”, e lo spettacolo comincia con la bella “Statue Of The King”. La setlist continua facendosi forza tra alcuni dei brani più amati degli ultimi quattro album degli Avatar, che poi sono quelli con cui la band svedese è stata conosciuta e apprezzata dal grande pubblico, anche se secondo me il loro album omonimo non è niente male, e spero che prima o poi ripeschino qualche brano anche da li.
Setlist comunque di tutto rispetto che li vede passare dall’antemica “Paint Me Red”, alla drammatica e bellissima “Bloody Angel”. “The Eagle…” e “For The Sworm” vengono acclamate a gran voce, ed il carismatico vocalist, mostra la sua destrezza sia come showman che come cantante, passando continuamente dal growling, alle clean vocals, fino agli screaming in stile AC/DC. Dopo tutto la bellezza degli Avatar sta proprio nel fatto che riescono a unire nel loro sound più stili, dall'hard rock più acido al melodic death, senza forzature di sorta.
Il simpatico siparietto bluesy della title-track dell’ultimo disco diverte, i riscoperti teatranti Avatar non si adagiano su basi preregistrate da seguire durante i brani, se non per qualche intro a questi, il che dona al live un'atmosfera più vera, nonostante qualche pezzo, in particolare “For The Sworm”, possa sembrare meno compatto e preciso in quest’esecuzione, rispetto alla versione in studio.
"The King" si conclude con la hit per eccellenza, “Hail To The Apocalypse”, e l’unico rammarico è la mancanza della stupenda “House Of Eternal Hunt” che avrebbe potuto essere messa al posto della ballata “Tower”, ma ovviamente qui si rientra nei gusti di ognuno.
Se siete fans degli Avatar, e non siete ancora riusciti ad ascoltarli dal vivo, questa potrebbe essere una bella occasione per farlo.
Ultimo aggiornamento: 31 Mag, 2019
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Johan Hegg ed i suoi ormai sono delle rockstar affermate, mettono in scena concerti pirotecnici, e quel ghigno vichingo e sonoro degli esordi, ha ormai ceduto il passo alla continua ricerca del riff il più possibile coinvolgente, che possa far esaltare i propri fans dal vivo, e che sia in grado di attirare sempre più ragazzi nella propria gloriosa rete musicale. Inutile dire che se non vi è piaciuto “Jomsviking”, potete lasciare perdere anche il nuovo “Berserker”, tra l'altro sfregiato dall'artwork invero bruttino e banale.
Personalmente a me “Jomsviking”, nonostante fosse palesemente ormai giocato su coordinate heavy/power, con poco death, dove l’unico elemento estremo era rimasto il growling di Johan Hegg, era piaciuto, e l’ho considerato migliore rispetto ad un “Surtur Rising” ad esempio, ma in giro ho visto che è stato condannato da gran parte della critica.
“Berserker” segue più o meno quanto detto sopra, tanto heavy/power epico e roccioso, su cui si staglia il vocione di Johan, che questa volta non duetta con nessuno, ma usa anche il clean, un quasi narrato, che fa capolino in pezzi come “Ironside”.
Duetti chitarristici a la Iron Maiden in ogni dove, tanto che le parti strumentali di “Mjolner” o “Valkyria” potrebbero essere scambiate proprio per pezzi degli Irons, come del resto era già accaduto con “At Dawn’s First Light”.
“Crack The Sky” e “Shield Wall” presentano i migliori groove, pur essendo brani molto semplici, buona anche “Raven’s Flight”, e ottime sono le malinconiche melodie di “Into The Dark”.
Nel nuovo album abbiamo anche brevi fraseggi di pianoforte, che ci stanno pure bene, ma anche alcuni cali di ispirazione un po’ pericolosi, che se rendono “When Once…”, o la dura “Skoll And Hati” abbastanza anonime, diventano irrimediabilmente odiosi in “Wings Of Eagles”, nella quale la ricerca della melodia ruffiana e facilotta dà un risultato talmente mieloso, da invidiare le prestazioni da anni scialbe degli Arch Enemy, e dove il growling di Johan sembra addirittura essere fuori contesto.
Per il resto, la produzione è stellare, e ci sono una manciata di buone canzoni che rendono “Berserker” tutto sommato godibile, ma gli Amon Amarth travolti dalla fama, danno l’idea di essere dei bravi mestieranti, e soprattutto una band che ormai si accontenta di sfornare album di successo, senza impegnarsi più di tanto.
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Ma cosa gli volete dire ai Paragon? Loro son quel che sono, fedeli a se stessi, tamarri quanto basta, ma soprattutto dei bravissimi compositori ed esecutori di uno speed metal di stampo teutonico, non certo originale, ma fatto così bene che tutti i defenders non possono che godere di quei ritmi indiavolati, dei riff taglienti e di quella voce così graffiante e aspra di Andreas Babuschking.
Per chi non li conoscesse, sappia che dalla metà degli anni ’90 i Paragon hanno preso le redini di quella parte del power/speed teutonico che cerca di allontanarsi il più possibile dall’happy power melodicissimo in stile Helloween, con rasoiate ben assestate e atmosfere sinistre di grande effetto, figlie di band quali i Grave Digger, Accept, con il bel tocco british dei Judas Priest.
“Controlled Demolition” musicalmente è il classico disco alla Paragon, vero true metal esplosivo che può contare sulla produzione del buon Piet Sielck, che sa come esaltare i pezzi della band di Amburgo.
“Reborn”, “Abattoir”, “Mean Machine”, l’inizio dell’album è esplosivo, con refrain neri e sparati a manetta, ma anche abbastanza accattivanti da rimanervi subito impressi. La crepuscolare “Deathlines” forse è un po’ troppo lunga, ma in se può contare su strofe malinconiche che giocano a farvi credere di essere di fronte ad una classica ballata, per poi virare verso delle belle accelerazioni e una parte strumentale con le due chitarre ispirate tra ottimi riff e assoli. L’album prosegue pestando ancor di più l’acceleratore, e l’anima speed dei Paragon prende decisamente il sopravvento con pezzi come “Musangwe”, “Timeless Soul”, “The Enemy Within”.
La “Demolizione” dei Paragon, sembra tutto tranne che “Controllata”, il loro metal è devastante, talvolta un po’ troppo derivativo, ma questo è un disco che funziona, forse alcuni pezzi rimangono effettivamente fagocitati dalla loro stessa irruenza, ma molti altri episodi sono più che azzeccati e possono contare su un ottimo gioco di ritmi e melodie, che supportano degnamente l'ugola abrasiva del vocalist.
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Fuori il vocalist Jurgen Dachl, dentro Matthias Kupka, mi stavo appunto preoccupando, in quanto il precedente singer della band ha resistito per ben due album. Questo a dimostrazione che gli StormHammer hanno proprio un rapporto complicato con i cantanti.
Purtroppo questo non è il più grande problema della band tedesca, che continua ad ostentare sulla propria pagina Facebook la scritta “Power Metal band”, e si autodefinisce "Modern Power Metal", ma che di fatto, di volta in volta rincorre i sottogeneri metal che vanno più in voga al momento del lancio del disco.
Ed infatti Kupka è tutto, tranne un cantante power metal. Il look, le buone harsh vocals di cui l’album è zeppo, ed i suoi clean in stile sbarbatello, lo collocano molto più facilmente nella scena melo-hardcore e “Seven Seals” è più o meno li che vorrebbe andare a parare, con l'aggiunta di qualche classico riff secondo di chiara scuola teutonica, ma in breve il disco degli Storm, è il solito guazzabuglio di stili diversi uniti a forza, poche volte fortunati.
Amo le contaminazioni, ma devono essere fatte bene, qui abbiamo una “Prevail” che nella sua semplicità, è l’unico pezzo trionfalmente heavy/power, tra l'altro di vecchia scuola, altro che modern. Per il resto si hanno canzoni dai refrain fru fru, dall'andazzo molto adolescenziale e che guarda alle giovani band americane, strofe tritasassi che si poggiano alla bravura del canto estremo di Kupka, una lunghissima e noiosissima ballata dai toni oscuri, qualche riff accattivante seppur di mestiere, qualche refrain un filo più azzeccato, ma che non basta a salvare un disco per niente compatto, senza particolari highlights che si mettano in mostra dall'inizio alla fine, e che dimostrano ancora una volta che gli StormHammer non riescono proprio, ad una trentina di anni dal debutto, a creare un proprio stile che li renda riconoscibili. Nel passato più lontano hanno scritto anche cose buone, poi sono diventati purtroppo una girandola impazzita.
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Più che un semplice singolo estratto dall'ultimo disco “Okkult II”, gli Atrocity hanno voluto celebrare il trentennale del lancio della seminale “Blue Blood”, tratta dal primissimo Ep di cui era la title-track. Nel 1989 fu stampato in vinile nei colori blu, grigio e nero, anche adesso il singolo viene rilasciato in vinile 7’’ nei medesimi colori, con il blu che può essere acquistato solo online.
“Blue Blood” è stata ri-registrata per l’occasione, niente più intro di batteria come all'epoca, con una produzione moderna, più potente, più pulita ma cercando di lasciare intatte le caratteristiche di quel sound selvaggio che la band tedesca aveva ad inizio carriera. Operazione riuscita per quel che mi riguarda ed è un piacere riascoltare “Blue Blood” con una produzione che dia potenza ai suoni, all'epoca abbastanza impastati soprattutto nelle parti in blast.
“Spell Of Blood”, come detto, viene direttamente dal recente “Okkult II”, secondo capitolo di quella che dovrebbe essere una trilogia in cui gli Atrocity hanno voluto cercare di tornare proprio al sound delle proprie radici, lasciando da parte le sperimentazioni elettroniche e diminuendo drasticamente fino all'osso, anche quelle più gotiche. “Spell Of Blood” in particolare si presenta come una classica canzone death metal, che in realtà potrebbe essere stata scritta da qualsiasi band death in circolazione con un po’ di dimestichezza tecnica. Molto lineare, basica, insomma la differenza di ispirazione e intenti nei due brani si sente e pesa, i primi Atrocity avevano fame, ispirazione e voglia di lasciare un segno, questi ultimi sembrano un po’ come voler dire al mondo che sanno ancora pestare duro se ci provano. In un certo senso mi hanno ricordato alcuni dischi più recenti dei Moonspell, spingono sul pedale ritmico e sulla rozzezza dei riff, ma in realtà tutto rimane abbastanza anonimo e freddo. Ovviamente il singolo è da collezione ed esclusivamente dedicato agli ultrà del gruppo, ma anche qui se ne potrebbe fare a meno. Il voto presenta il divario qualitativo tra i due pezzi, decisamente buona "Blue Blood", facilmente dimenticabile "Spell Of Blood"
Ultimo aggiornamento: 28 Aprile, 2019
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Con “Ira Dei” i Mago tornano al doppio album, non succedeva dalla fine della trilogia di “Gaia”. Il concept si lega a quello del seminale “Jesus De Chamberi”, ne vediamo dei rimandi sulla copertina, anche se qui è una donna ad essere crocifissa, la pornostar Apolonia Lapiedra è stata scelta come modella per l’artwork. Lascio a voi l’approfondimento sul concept, musicalmente parlando invece, a parte l’omaggio al riff principale di “Jesus…” durante la lunga title-track “Ira Dei”, l’album segue in parte quel sound più complesso che ha rappresentato anche la scelta artistica degli ultimi due capitoli di “Gaia”, nonché quello che ha caratterizzato dischi come l’ultimo “Ilussia”.
I Mago mostrano ancora una volta di essere una band capace di scrivere brani grintosi, interessanti e, non di meno, a cui piace mettersi in gioco, assorbendo e rielaborando i differenti input musicali provenienti dall’esterno, senza mai perdere di vista quelle peculiarità strutturali che hanno reso la propria musica, riconoscibile fin dal primo ascolto. Ne sono esempio i primi due brani estratti del disco, che frantumano di nuovo le barriere tra i generi. Da una parte abbiamo “Te Traere El Horizonte” che sorvola con facilità quel confine “invalicabile” che c’è tra il rock e pop. Devo dire che trovo il risultato molto ben riuscito, la canzone ha un ritmo volontariamente ruffiano, con un inizio tra beat elettronici, e strofe che fanno molto hit pop estiva dal sapore iberico/sud americano, i momenti in cui canta Patricia mi hanno ricordato Shakira per dire, poi la canzone esplode in un ottimo refrain acchiappa consensi. In questo brano troviamo il guest Ara Malikian al violino, che ha già partecipato insieme ai Mago per il concerto con orchestra tenuto dai nostri in Messico.
In opposizione a questo pezzo, la band ci ha proposto in anteprima “La cantiga De Las Brujas”, che si snoda tra melodie celtiche, un refrain folkeggiante ed epico e, per la prima volta nella sua storia, vede delle dure strofe cantate in screaming dall’altra guest del disco, la singer Diva Satanica.
Diva Satanica tornerà co-protagonista anche in “El Septimo Sello”, il brano più sperimentale dell’album, che inizia come una hard-rock song dal riff bluesy, passa per strofe dove si alternano la voce di Zeta e di Patricia, che si concede al canto lirico più di una volta in questo album, e rimane impresso grazie ad un bel refrain molto più vicino al classico folk dei nostri, per poi esplodere nel finale tra growling e sinth che affiancano le chitarre, e fanno tanto Industrial facendo salire sul podio il brano, come tra i più riusciti e interessanti del disco.
L’album ha inizio con un buon strumentale orchestrato alla maniera dei Nightwish, ed un corale dal sapore gotico sul finale, giusto per dare il via ad “In Eternum” che, come da programma, è la più tirata tra le tracce, una lunga power metal song, di quasi 10 minuti, intrisa di chiari rimandi alle sonorità celtiche e alla musica classica. Scoviamo qui un azzeccato medley tra la “Sinfonia dal nuovo mondo” di Dvorak e “L’inverno” di Vivaldi. Questa non sarà l’unica celebrazione di musica classica all’interno di “Ira Dei”, poco più avanti troveremo un altro medley riadattato (Opera Mortis) di due arie di Puccini: “Oh mio babbino caro” e “Nessun Dorma”, interamente cantato da Patricia Tapia. La traccia all’inizio accenna anche parte del tema di “Up” della Disney.
Conosciamo i musicisti e sono tutti all’altezza delle aspettative, un voto in più mi sento di darlo proprio a Patricia, che ha decisamente un ruolo molto più attivo che nei precedenti dischi sia come interprete che come songwriter, e mai come in questo disco, dimostra tutta la sua ecletticità di cantante, passando dal suo classico approccio più rock fino a quello più lirico. I duetti con Zeta sono molti, ed è assoluta protagonista in altre due canzoni: la folkeggiante e sinfonica “Ciudad Esmeralda” che vi rimarrà impressa fin dal primo ascolto grazie al suo allegro ed epico refrain, e “Bajo Mi Piel”, una traccia scritta dal tastierista Javi Diez già ai tempi di “Gaia III”, ma proposta solo adesso. E’ una semi-ballad energica e dai toni decadenti, che può puntare su un ottimo fraseggio pianistico ed un semplice ma altrettanto buono arpeggio di violino che vanno a sostenere la voce di Pati.
Tra le canzoni più dirette e vicine agli ultimi due lavori dei Mago, troviamo “El Amor Brujo” (scritta inizialmente per far parte di un anime intitolato “Virtual Hero” a cui poi verrà preferita “El Libro De Las Sombras”), che ha davvero un buon tiro, e scivola via che è un piacere, così come “Y Que Nunca Te Falte…”, entrambe destinate ad essere delle ottime proposte in sede live.
Mentre la parte più allegrotta e folkettara del disco è ben rappresentata dalle alcohol songs, “Tequila Tanto Por Vivir”, e “La Triste Historia De Jimmy”, quest’ultima si rifà in parte alle sonorità di “La viuda De O’Brien” come andazzo (che infatti viene anche citato), ma qui siamo proprio su ritmi irlandesi semi acustici, con un’ottima accelerazione finale in pieno stile Irish Pub.
La parte più gotica e darkeggiante (almeno negli intenti) del disco è rappresentata da “Suspiria” che apre il secondo cd, subito dopo la nenia diabolica che fa da intro, cantilenata dai figli del violinista Moha, e da “Tu Funeral”. Entrambi sono anche i pezzi dall’arrangiamento più lineare e semplice dell’intero album, un po’ sulla scia di “Diabulus In Musica” come atmosfere, ma a cui manca quell’intuizione in più per renderle altrettanto interessanti. Se “Suspiria” tutto sommato non mi è dispiaciuta, “Tu Funeral” dal mio punto di vista si scontra con un refrain un po’ troppo facilone e rockettaro, che non le rende giustizia, contando che il testo è molto duro (si parla di una donna che si rivolge al cadavere del suo stupratore che è riuscita ad uccidere), forse avrebbe voluto musicalmente un approccio più crepuscolare che si perde come niente nel ritornello.
Anche la ballata di turno, dedicata da Txus ad un suo cagnolino morto prematuramente, non rimarrà memorabile, il gap con pezzi come “Desde Mi Cielo” è fin troppo grande.
Il doppio album si conclude con la lunga suite che gli da il nome, interamente interpretata da Zeta con la complicità di un azzeccato coro gotico che gli farà da controcanto. Zeta, ormai da anni ha dimostrato di essere a proprio agio nelle vesti di cantante di un gruppo di fama internazionale come i Mago De Oz, ma credo che qui si superi. Le diverse atmosfere che il brano porta avanti nei suoi quasi 20 minuti di musica (un po’ troppi in realtà), sono ottimamente interpretati dal singer, che passa da toni caldi e introspettivi a quelli più ruvidi con grande padronanza dei propri mezzi.
I Mago De Oz insomma tornano di nuovo al cospetto dei loro fans con un’opera lunga e complessa, non riescono a creare un disco all’altezza di un “FinisTerra” o un “Gaia II”, e viene in mente durante l’ascolto che se fossero state segate un paio di tracce, o fosse stata data una sforbiciata alla suite finale, l’album ne avrebbe sicuramente giovato. Insomma, si sente un certo divario qualitativo rispetto al passato, ma parliamo pur sempre di una band con 30 anni di attività sulle spalle, ci sta che si usi qui e li un po’ di mestiere, e che alcuni pezzi vengano scritti col pilota automatico, ma è altrettanto vero, che siamo sempre di fronte ad un signor album, che dal mio punto di vista acquista valore proprio per il fatto che si contano sulla punta delle dita di una mano le band che riescono dopo così tanto tempo ad avere ancora voglia di mettersi in gioco, e di avere abbastanza ispirazione per scrivere canzoni che continuino ad esaltare la nomea del proprio moniker.
PS: Tutte le curiosità e le perle nascoste dei brani citati nella recensione sono stati scritti anche grazie al sempre presente Fabio Camboni, fondatore del fanclub italiano ufficiale dei Mago De Oz che ringraziamo. Ovviamente vi invitiamo a seguire la sua pagina su facebook: Mago De Oz Italia.
Ultimo aggiornamento: 05 Aprile, 2019
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Nuovo buon lavoro per la band di Piet Sielck, che non si smuove di una virgola dal proprio power metal di stampo teutonico con tematiche sci-fi (questa volta liberamente ispirate al romanzo di Hamilton "Pandora's Star"), ma non penso che alcuno dei propri fans si aspetti altro dagli Iron Savior.
“Kill Or Get Killed” è un ennesimo capitolo dignitoso per i nostri, che in effetti non ci hanno mai “traditi” qualitativamente, a parte quel capitombolo senza precedenti di “Megatropolis”.
Non posso negare che in confronto, ad esempio, a “Rise Of The Hero” o “The Landing”, il nuovo disco soffra un po’ troppo di qualche traccia sotto tono, come del resto successe già con “Titancraft”, ma non c’è motivo per non goderci una bella manciata di canzoni tronfie, in perfetto stile Iron Savior, già a cominciare dalla tirata title-track posta in apertura del disco, per passare alla riuscitissima speed metal song “Heroes Ascending”, al singolo “Eternity Quest” o l’antemica “Stand Up And Fight”, tutte dotate di bei riff e di refrain che entrano subito in testa. Un po’ di mestiere si sente, e qualche calo lo si ha con la troppo gioconda “Never Stop Believing”, o la noiosissima “Until We Meet Again” ballad di turno, con qualche momento ritmicamente più interessante, ma che soffre in generale di un minutaggio fin troppo lungo ed uno stile un po' sciatto.
In ogni caso, i fans saranno soddisfatti con “Kill Or Get Killed”, un disco che non aggiungerà chissà quali novità nella storia degli Iron Savior, ma che non lascia delusi.
Ultimo aggiornamento: 21 Marzo, 2019
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Dopo l’exploit di qualche anno fa, quel “Halo Of Blood” che ci spiazzò positivamente dopo un lungo periodo di poco o niente da parte dei Children Of Bodom, la band di Laiho, incise un disco già minore ma comunque soddisfacente, “I Worship Chaos”.
Dopo gli espliciti richiami al proprio più lontano passato, i Children Of Bodom del 2019 hanno voglia di esaltare la parte più melodica della propria musica, il primo pensiero va allo stile di “Follow The Reaper”, ovviamente con tutte le distinzioni del caso, nel senso che i giovani Children Of Bodom, a quel punto della carriera avevano ancora una certa botta, mentre la band del 2019, sembra che tenda soprattutto a rimescolare le carte, in modo da far uscire dal cilindro qualche nuova hit, ma l’ispirazione di una volta spesso vacilla, e i Children si salvano spesso per il rotto della cuffia, grazie a tanto mestiere.
“Hexed” si adagia per la maggiore su coordinate heavy e catchy, senza disdegnare chiare ruffianate di turno, con riff e ritornelli abbastanza easy listening, che cercano il sicuro impatto con poco sforzo, come succede con “Under Grass And Clover” o “Platitudes And Barren Words”.
Molto meglio la trascinante opener, o "Say Never Look Back" ad esempio, ma è la sola title-track che ci fa sussultare veramente, grazie ad un refrain tritasassi ed ai suoi riff interessanti simil prog.
Non mancano accenni thrashy, come in “Kick In A Spleen”, la più dura del lotto, ma anche abbastanza piatta purtroppo, a cui preferiamo i tempi più dilatati e dal piglio malinconico di una “Soon Departed”. Ci si poteva risparmiare sinceramente la ri-rec della groovosa “Knuckleduster”, datata 2004 e contenuta originariamente in “Thrashed, Lost & Strungout”, qui abbassata di tono e riempita di tastiere, ma rimane un brano abbastanza inutile oggi, come nel 2004.
L’album è come al solito un tripudio di riff e continui solismi di chitarre e tastiere, talvolta complessi e interessanti, altre volte un po’ troppo freddi e distanti dall'ascoltatore. Un disco che nel bene e nel male, rappresenta un nuovo capitolo per i finlandesi, con la sua manciata di canzoni che in realtà non aggiungono molto alla storia dei Children Of Bodom, ma che si fanno ascoltare anche se non sempre convincono. La differenza di appiglio con il recente passato si palesa nella versione deluxe del disco, nella quale basta ascoltare la versione live, messa a fine track-list, di “I worship Chaos” e “Morrigan”, che non sono certo dei capolavori, ma che hanno proprio un altro tiro.
"Hexed" non è un disco da due stelle o due stelle mezzo, saremmo davvero malvagi a bocciarlo in tal modo, ma sicuramente i cinque di Espoo non sono riusciti a eguagliare il proprio recente passato. Un voto giusto sarebbe stato una quasi sufficienza, ma visto che graficamente non possiamo dividere le stelline più di tanto, gliene regaliamo 3, sperando sempre che il futuro ci riservi migliori novità.
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