Opinione scritta da Daniele Ogre
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#1 recensione -
Torna oggi uno dei gruppi più chiacchierati del sottobosco Death Metal europeo, i turco-danesi Hyperdontia freschi di pubblicazione con "Harvest of Malevolence", rilasciato dalla solita premiata ditta Dark Descent/Me Saco un Ojo. C'erano diverse aspettative riguardo questa nuova opera dei Nostri per svariati motivi; a partire da una discografia che si è fatta col tempo sempre più riconoscibile e qualitativamente soddisfacente, fino alla loro intensissima attività live che li ha portati ad accrescere la propria esperienza in maniera esponenziale. E sinceramente, "Harvest of Malevolence" non delude le aspettative, riproponendoci gli Hyperdontia alle prese con ciò che sanno fare meglio, ossia un Death Metal che si vive come su delle montagne russe tra i continui interscambi di up e mid-tempo in cui si può notare sin da subito una certa propensione al Death floridiano (Monstrosity su tutti) con punte della vecchia scuola finlandese più tecnica (Adramelech, Demigod). Sugli scudi, manco a dirlo, Mustafa Gürcalioğlu: il chitarrista turco dimostra di star vivendo un'annata particolarmente favorevole dopo il già ottimo disco degli Engulfed, offrendoci in questa nuova fatica targata Hyperdontia una colata lavica incessante di riff, ottimamente supportato da una sezione ritmica tellurica in cui si fa notare non poco l'operato di Malik Çamlıca, alle prese qui con una delle migliori prestazioni della sua sinora iperbolica carriera. Forse manca solo giuto un po' il piglio del precedente "Hideous Entity", ma ciò non toglie che gli Hyperdontia mettono sul piatto otto bordate d'obice: pezzi come "Salvation in Death", "Marking the Rite" e - la nostra preferita del lotto - "Pervasive Rot" sono chiari esempi di come sia impossibile rimanere indifferenti alla solida tracklist di quest'album. Immaginiamo che ora si prospetteranno mesi di nuova intensa attività live per gli Hyperdontia: consiglio da chi li ha potuti già vedere (Frantic Fest 2022), alla luce di questa buonissima nuova uscita se ne avrete la possibilità non perdeteveli, ne varrà davvero la pena.
#1 recensione -
Puntuali come un orologio svizzero, a due anni dal precedente album tornano con un un nuovo full-length i Darkened, band Death Metal i cui componenti si dividono tra Svezia e Canada; "Defilers of the Light" - licenziato nuovamente da Edged Circle Productions - è l'ennesimo solido lavoro per i Nostri, cosa questa che però non deve affatto stupire visto che in formazione troviamo gente come Tobias Cristiansson al basso (Necrophobic, In Aphelion ed ex di Dismember e Grave) o l'ex-Deströyer 666 Perra Karlsson. "Defilers of the Light" porta però qualche novità in seno ai Darkened: rispetto ai precedenti due album in cui l'impronta Bolt Thrower/Hail of Bullets era predominante, in questa nuova opera il quintetto si avvicina maggiormente alle sonorità più dure e brutali della vecchia scuola svedese (Dismember e Bloodbath su tutti), pur non mancando quelle ritmiche groovy e marziali che hanno contraddistinto le prime opere (vedasi "In Praise of Shadows") e con in più una maggior attenzione a taglienti melodie che unite ad un mood epico di fondo potrebbero in un certo qual modo ricordare gli Amon Amarth dei primi, rabbiosi dischi. Ma i Darkened sono anzitutto una band formata da musicisti esperti, viene dunque loro naturale tirare su un accoppiata riffingwork/sezione ritmica di tutti rispetto quadrata e rocciosa in cui, per l'appunto, una grande importanza viene data alle melodie, atte a dare una maggior ariosità ad un comparto strumentale che costituisce un imponente muraglia sonora attorno al growl di Gord Olson (sicuramente più in palla qui che negli AngelBlast). Tirando le somme, ascoltando pezzi come "On We Slaughter", la title-track, e "Those Who Dwell Below" possiamo facilmente notare come "Defilers of the Light" è l'ennesima solida prestazione per i Darkened, band che magari difficilmente ruberà mai l'occhio - come si suol dire -, ma che effettivamente si mantiene costantemente su livelli qualitativi medio-alti.
#1 recensione -
Debutto assoluto direttamente con il primo full-length per i trevigiani Miasmic Serum, trio formatosi giusto un paio d'anni fa che ha rilasciato in questi giorni "Infected Seed" tramite Chaos Records (per il formato CD) e Night Terrors Records (in cassetta). Forse un azzardo quello della band veneta, ma che le intenzioni dei Nostri siano serie lo dimostrano anche i due ospiti d'eccezione presenti su questo debutto: Jason Netherton dei Misery Index su "Mortal Training" e Fiore Stravino dei Fulci sulla title-track, entrambi pezzi scelti come singoli insieme a "Lethal Bite". Il più classico Death Metal floridiano è alla base delle sonorità dei Miasmic Serum: Malevolent Creation e Morbid Angel in primis, ma non mancano di certo rimandi ai colossi Obituary ("Mortal Training", "Immortal Entity"...). Ritmiche quadrate dunque, ma soprattutto un riffingwork bello roccioso e ricco di groove, con diversi momenti che potranno mettere a dura prova le vostre vertebre cervicali. Una serie di pezzi dunque nella più pura tradizione old school che mostrano una band che suona questo genere con passione viscerale mettendo sul piatto un lotto di brani di sicuro impatto, specie se visti in ottica live. Se proprio vogliamo cercare il pelo nell'uovo, a convincere meno è la voce di Julian Serrato: buonissimo bassista, ma vocalmente forse troppo poco profonda per il genere e che sembra perdere qualche colpo di tanto in tanto. Comunque sia, i musicisti qui coinvolti hanno ognuno alle spalle una discreta esperienza pregressa nel sottobosco Metal nostrano, cosa questa che possiamo facilmente notare dal livello di maturità di questo loro debutto: non brilleranno certo per originalità, ma non si può non dire che non sappiano quello che fanno. Una scelta coraggiosa, come dicevamo, quella dei Miasmic Serum di debuttare direttamente con il primo album, ma per quanto ci riguarda una prova sicuramente superata con una sufficienza piena ampiamente meritata.
#1 recensione -
Mentre nella Terra d'Albione muovevano i primi passi i genitori del Doom/Death (Paradise Lost, My Dying Bride, Anathema), in Spagna il ruolo di pionieri del genere andava ai maiorchini Golgotha, band attiva dapprima dal 1992 al 1998 - periodo in cui hanno rilasciato due album oltre a diversi demo ed EP - per poi ritornare definitivamente in attività nel 2014 (nel 2005 c'è stato un fuoco di paglia con l'album "New Life"); dalla loro reunion sono nati un EP e tre album, l'ultimo dei quali è "Spreading the Wings of Hope", appena rilasciato da Ardua Music, label che assume di settimana in settimana un ruolo predominante per quanto riguarda queste specifiche sonorità. Pur essendo coetanei dei mostri sacri poc'anzi nominati, il sound dell'act di Palma di Maiorca guidata indefessamente dal chitarrista Vicente J. Paya si muove attraverso le trame melodiche della scuola scandinava (Swallow the Sun, October Tide, Draconian, Saturnus e così via... senza ovviamente dimenticare gli americani Novembers Doom e Daylight Dies!). Musiche dalle arie tetre e malinconiche dunque in cui però un ruolo predominante lo hanno le melodie imposte dalle chitarre dello stesso Paya e di Dan García; il tutto è un impianto che sorregge il "gioco" di voci tra quelle pulite e vibranti di María J. Lladó ed il cavernoso growl di... beh, esatto: Vicente J. Paya. In particolar modo l'impostazione vocale quasi teatrale della Lladó si sposa alla perfezione con le uggiose atmosfere dei Golgotha, capaci tra l'altro di riuscire a dare alle loro composizioni quel qualcosa di più catchy senza però snaturarsi: un esempio lampante è il singolo "Gilded Cage", pezzo che musicalmente può facilmente risultare accessibile anche a chi mastica meno questo genere. L'highlight dell'album lo troviamo però subito dopo con la bellissima "A Solitary Soul", canzone sentita che sprigiona malinconia da ogni singola nota e da ogni aspetto vocale, una vera e propria fotografia perfetta delle capacità del combo iberico, grazie anche all'apporto alle tastiere di Javier Fernández (Nexus 6, Yskelgroth, ex-The Heretic). Ascoltando altre tracce degne di nota come "Hear the Cries" - pezzo questo che nell'incipit può facilmente ricordare gli Insomnium -, "Closed Heart" e la conclusiva "Hope as Guide", viene da pensare che l'unico neo di "Spreading the Wings of Hope" sia che è uscito nel periodo sbagliato dell'anno: supportato da una produzione pulitissima e potente, quest'ultima fatica dei Golgotha è il classico album da godersi nel grigiore e nei primi freddi autunnali e non alle porte dell'estate. Ma a parte questo, i fans della frangia melodica del Doom/Death potranno sicuramente giorie nel ritorno di una band veterana che sembra finalmente non volersi più fermare.
#1 recensione -
Il Brutal Death è un genere che sta vivendo un (lunghissimo) periodo di stanca, complice anche un mercato saturato da uscite praticamente tutte simili; prendete Comatose Music o altre label di livello d'un gradino sotto che inondano il suddetto mercato di bands epigone dei Devourment. Fortunatamente, qualcosa di buono ancora esce e per lo più è ad opera di veterani del genere: in tal senso sono stati accolti sicuramente con favore i ritorni di Brodequin e Gorgasm, o più in generale gente come i Dying Fetus non sbagliano un colpo... ed in questa scia si immettono i Malignancy: la band newyorchese torna oggi sotto l'egida di Willowtip Records con "...Discontinued", quinto album di una carriera ormai più che trentennale e... beh, come da titolo, discontinua. Aiutati al basso da un mostro come Jacob Schmidt dei Defeated Sanity, Danny Nelson e soci ci regalano una mezz'ora abbondante di Brutal Death ricco di groove e dal tasso tecnico altamente elevato. Come sempre nell'operato della band americana colpisce come riescano ad inserire elementi progressivi all'interno di un impianto sonoro soldo e che non rinuncia mai ad un impatto brutale rimasto praticamente immutato sin dagli esordi nell'ormai lontano 1992. Ed in questo vengono aiutati da una produzione bella pompata che mette in risalto un comparto strumentale solido quanti assolutamente psicotico: prendete ad esempio i due singoli rilasciati "Purity of Purpose" e la conclusiva "Biological Absurdity", ma va detto che il meglio i Malignancy lo danno in quest'opera con la massacrante doppietta iniziale "Existential Dread" - "Binary Paradigm", cui segue un altro pezzo dal tasso Progressive elevato come "Irradiated Miscreation". Avrete insomma intuito quale sia il leitmotiv di questo disco - così come del resto ci han sempre abituati i Malignancy -; "...Discontinued" magari non sarà un disco adatto proprio a tutti i palati, ma chi ha gusti fini, predilige la frangia più tecnica del Brutal Death e, perché no?, come il sottoscritto di è ampiamente rotto le palle delle decine e decine di gruppi Slam che escono a cadenza settimanale, troverà sicuramente con questo quinto disco dell'act newyorchese pane per i propri denti. A patto di ascoltare "...Discontinued" con estrema attenzione per non perdersi il vorticoso lavoro chitarristico ed una sezione ritmica in stato di grazia.
#1 recensione -
C'è ormai sempre un'attesa spasmodica quando è coinvolto il nome degli Ulcerate: da qualche anno ormai la band neozelandese è IL punto di riferimento di un certo modo d'intendere il Death Metal, avanguardista e dissonante. Aspettative che si sono ulteriormente alzate quattro anni or sono, quando i Nostri pubblicarono quel capolavoro di "Stare into Death and Be Still" - disco dell'anno su Allaroundmetal.com nel 2020 -... ed aspettative ampiamente rispettate oggi che il trio di Aukland torna con il settimo studio album "Cutting the Throat of God", ennesimo capolavoro di una carriera all'insegna di dischi qualitativamente superiori alla media. Certo, ripetersi dopo un album come il precedente poteva magari essere impresa ardua, ma non di certo per la band esplosa con un disco maestoso - e come sbagliarsi? - come "Shrines of Paralysis", tanto che in questa nuova opera gli Ulcerate appaiono sin dai primi secondi della bellissima "To Flow Through Ashen Hearts" in controllo totale. I Nostri avvolgono l'ascoltatore in una sonorità brumosa, in cui melodie, dissonanze, ritmiche mai troppo elevate nonostante siano guidate da una doppia cassa in modalità martello pneumatico (diciamocelo: Jamie Saint Merat è ad oggi tra i migliori batteristi al mondo), il poderoso growl di Paul Kelland, tutto insomma fa parte di un unico meccanismo perfettamente oliato e che funziona in ogni sua minima componente. Complice una produzione perfetta, "Cutting the Throat of God" è un disco che si ascolta dalla prima all'ultima nota senza staccarsi mai da uno stato di totale fascinazione verso una band capace di dare alle proprie composizioni un'aura quasi meditativa, una sorta di calma apparente spezzata talvolta da accelerazioni di una brutalità annichilente. Il sound degli Ulcerate è ormai come una (orrenda) creatura vivente che si contrae o si distende alla bisogna, che sembra acquietata e respira profondamente salvo poi attaccare alla giugulare con movimenti rapidi e precisi. Quest'opera degli Ulcerate è un disco da assaporare secondo dopo secondo, lasciandosi trasportare dal maestoso movimento ondivago dei maestri assoluti del Death Metal d'avanguardia lunga una tracklist priva anche del benché minimo difetto. Bentornati, Ulcerate: ci si vedrà a Bologna a novembre.
#1 recensione -
Per chi ascolta abitualmente Death Metal e guarda con favore al sottobosco europeo, quello dei francesi Ad Patres non sarà un nome nuovo, seppur i Nostri non siano stati propriamente costanti in quanto ad uscite; formatisi sul finire del 2008 pubblicano il primo album nel 2012 ("Scorn Aesthetics" su tale Kaotoxin Records) per poi tornare ben sette anni dopo con "A Brief Introduction to Human Experiments", grandiosa release uscita per XenoCorp. Da allora di anni ne sono passati altri cinque e dopo l'ennesimo cambio di label con l'entrata nel roster di Non Serviam Records, il quintetto transalpino pubblica in questi giorni "Unbrathable", terzo full-length che ancora una volta mette in mostra le buone capacità compositive ed esecutive dei Nostri. Ascoltare gli Ad Patres è un po' come vedere due differenti correnti venirsi incontro e scontrarsi: da un lato il misto di brutalità e tecnica di gruppi come Suffocation, primi Decapitated e Psycroptic, dall'altro un approccio old school derivante dai 'soliti' Morbid Angel, Krisiun, Hate Eternal, con in più un buon uso di melodie come negli ultimi lavori degni di nota dei Deicide ("The Stench of Redemption" e "Till Death Do Us Part"); sonorità dunque familiari a chi è avvezzo a certe frange Death Metal a stelle e strisce che gli Ad Patres padroneggiano con perizia riuscendo a mettere sul piatto un lotto di brani ben concepiti e suonati che, nonostante non brillino certo per originalità, riescono a tenere alta l'attenzione di chi ascolta, proprio grazie soprattutto - a nostro avviso - dall'ottimo lavoro svolto dalle asce Olivier Bousquet e Sylvestre Alexandre, già a partire da "The Dream Chaser" (vera opener del disco dopo un'intro che ricorda la theme di American Horror Story). Con il loro Death Metal dinamico, groovy e brutale quanto melodico, gli Ad Patres mettono a segno un altro buonissimo colpo in una carriera che ha ormai superato i quindici anni e che meriterebbe maggiore continuità.
#1 recensione -
Terzo studio album per quella che personalmente considero una delle bands di punta dell'ampio roster della nostrana Everlasting Spew Records: gli sci-fi Blackened Death metallers canadesi Fractal Generator, freschi di pubblicazione di "Convergence", album che, diciamolo subito, è quello della maturità dell'algido act dell'Ontario. I Nostri ci hanno abituati sin dal debutto "Apotheosynthesis" - ed ancor più sul mastodontico secondo album "Macrocosmos" - ad un Blackened Death estremamente freddo nelle atmosfere - vuoi anche per le tematiche cosmiche -, cosa accentuata da un sapiente uso di synth che fortunatamente non tendono mai a coprire la parte strumentale, ma divengono un tappeto in sottofondo che, senza quasi ce se ne accorga, danno un senso d'alienazione durante l'ascolto oltre a dare profondità alle eccellenti composizioni della band. Altro marchio di fabbrica ormai assodato dei Fractal Generator è l'elevato tasso tecnico, che anche questa volta è ben presente ma, come in passato, è esso al servizio di un impatto clamorosamente efficace. Bastano le prime due debordanti tracce "Cryogenian" e "Convergence" per trovare qualche assonanza tra il trio canadese ed i Vitriol dell'ultimo lavoro, anche se - va detto - le primarie fonti d'ispirazione dei Nostri restano Zyklon e Myrkskog, con 'punte' dei Morbid Angel dei primi lavori con Tucker ed i Decapitated dei primi lavori più tecnici e brutali... e ci sentiamo di aggiungere qualcosa dei Behemoth, come ad esempio in "Askesis" (tra riff portante, atmosfere e ritmiche). Che i Fractal Generator abbiano ormai raggiunto la maturità stilistica è qui ampiamente dimostrato grazie a nove sassate in cui ogni singolo passaggio, ogni singola nota sono altamente funzionali all'economia generale di un album compatto e roboante nel proprio incedere, ben coadiuvato dall'ottima produzione opera di Stefano Morabito nei suoi 16th Cellar (uno specialista in quanto a dischi dalle arie gelide e "meccaniche"). "Ancient Civilizations", "Xiphoid" ed "Algorithmic Pathways" sono altri ottimi esempi della buonissima riuscita di quest'opera, ma più in generale possiamo dire che "Convergence" è un album da assaporare pezzo dopo pezzo. Ben fatto!
#1 recensione -
Debutto assoluto con questo EP a titolo "Detrimental Paratomy" per i toscani Necrocene, band che per questo suo esordio è riuscita a trovare subito un accordo con Personal Records. Cinque tracce per poco più di 1/4 d'ora di Death Metal old school che affonda le proprie radici nei primordi del genere tra scuola americana (Death, Obituary, Autopsy) ed il Death/Thrash dei primi lavori dei Sepultura; in generale "Detrimental Paratomy" è un discreto biglietto da visita: i Necrocene caricano a testa bassa senza bisogno di alcuna intro o di abbellire la proposta con passaggi strumentali eccessivamente lunghi, ma anzi i Nostri si muovono come un unico cingolato sparando a raffica i propri colpi. La produzione volutamente sporca e vintage contribuisce, a nostro modo di vedere, alla buona riuscita di un lavoro in cui la parola "originalità" è del tutto bandita, per essere soppiantata da un'attitudine viscerale. I vorticosi riff e la sezione ritmica arrembante stendono un solido tappeto sonoro sotto la voce di Apo, che sembra prendere spunto soprattutto da un giovane Chuck Schuldiner. Questo EP è dunque un buon modo per poter cominciare a prendere familiarità con una band che potrà sicuramente in futuro regalarci qualcosa d'interessante; per gli amanti dei leggendari "Scream Bloody Gore" e "Leprosy", i Necrocene potranno essere una sorprendente novità.
#1 recensione -
Tre anni fa gli Swelling Repulsion furono una delle grandi sorprese e più piacevoli novità dell'annata in campo Death Metal con il loro debut album "The Severed Path", disco in cui l'allora duo coniugava Progressive Death e Technical/Melodic Death. La band del Colorado - divenuta nel frattempo un trio con l'arrivo di Kristian Jablonicky al basso - torna oggi con il secondo full-length "Fatally Misguided", debutto per loro su una tra le principali label underground oggi al mondo, Transcending Obscurity Records. Ma non è solo l'etichetta che è cambiata in casa Swelling Repulsion: delle melodie e dei fraseggi puramente Progressive Death (à la Obscura/Beyond Creation, per intenderci) non ve n'è quasi più traccia in questa nuova opera, se non nella conclusiva "Sullen Light of Expired Stars", pezzo più lungo per durata e che per proprio per questo offre ai Nostri un maggior spazio di manovra per inserire patterns proveniente dalla loro prima uscita. Per il resto, questa volta Bage e Donovan (e Kristian) puntano su sonorità più secche, asciutte, dirette, un Progressive Death/Thrash in cui possiamo facilmente trovare traccia dei soliti Pestilence e compagnia, certo, ma che trae le proprie principali influenze soprattutto dagli Afflicted (grandiosa band che troppo spesso viene dimenticata, a nostro avviso) e, nei passaggi ancor più diretti e brutali, dai primissimi lavori dei Gorguts, in un processo evolutivo che accomuna per sound gli Swelling Repulsion a gruppi con una lunga storia alle spalle che hanno saputo col tempo modernizzarsi come Anata e Gory Blister. Come detto, i Nostri puntano questa volta su di un approccio diretto e la dimostrazione l'abbiamo dando uno sguardo alla tracklist, composta da otto pezzi di cui sette si aggirano tra i 2:40 ed i 3 minuti e mezzo, segno questo di come la band americana abbia 'asciugato' la propria proposta senza che però per questo venga meno l'alto tasso tecnico del combo, capacissimo di sparare riff a siluro per tutta la mezz'ora di durata dell'album. Seppur diversi dal primo lavoro, anche stavolta gli Swelling Repulsion se ne escono con un album superiore alla media: in queste veste nuova (anche se non propriamente del tutto) i Nostri sembrano muoversi con perizia, candidandosi nuovamente per essere tra le grandi sorprese dell'anno.
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