Opinione scritta da Daniele Ogre
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#1 recensione -
Tra una cosa e l'altra sono passati ben quattordici anni da quello che era l'ultimo album dei Severe Torture, "Slaughtered", tant'è che c'erano non pochi dubbi sulla continuazione della band; i veterani olandesi sono però tornati alla carica un paio d'anni fa riscaldando i motori con l'EP "Fisting the Sockets" per poi tornare (finalmente!) a macinare il loro Death Metal con quello che è (solo) il loro sesto studio album: "Torn from the Jaws of Death", licenziato da Season of Mist. Uno dei punti forti dell'act di Boxtel è sempre stato quello di sapersi muovere con sagacia all'interno della scena, apportando qua e là modifiche alle proprie sonorità; sono insomma ben lontani i primi tempi in cui i Severe Torture erano sostanzialmente una versione europea dei Cannibal Corpse, ma lo stesso dicasi per le velleità più old school dl periodo medio della loro carriera. I Nostri con questa nuova fatica puntano su un approccio sì sempre diretto e brutale, ma dimostrando anche di essersi guardati ben attorno inserendo nelle composizioni delle melodie che rendono più ariosi i brani, andando anche a flirtare con passaggi Black/Death che donano all'operato dei Nostri un'aura luciferina (emblematica in tal senso "Marked by Blood and Darkness"). I Severe Torture, insomma, si approcciano con il piglio autoritario dato dal loro status di veterani, ma con la sostanziale differenza rispetto a colleghi altrettanto veterani (se non di più ancora) che la band olandese dimostra di avere ancora tanto da dire e che non ha la minima paura ad aprirsi a nuove soluzioni, tanto da non temere il confronto nemmeno con tante giovani realtà iper-affamate (prendete i Vitriol, ad esempio). Il lavoro di composizione di "Torn from the Jaws of Death" è stato sicuramente accurato ed a dimostrazione di ciò basta vedere come le tracce scorrano via senza nemmeno un momento che sappia di filler, ed a contribuire alla riuscita di questo lavoro c'è, per l'appunto, questo nuovo modo di approcciarsi dei Nostri che, ampliando il range di soluzioni nei propri pezzi, trascinano l'ascoltatore in un vortice di cruda violenza allo stato brado con l'aggiunta di melodie taglienti come un bisturi. La già citata "Marked by Blood and Darkness", la title-track, "Putrid Remains" e "The Pinnacle of Suffering" sono tutti dei chiari esempi del vero e proprio stato di grazia dei Severe Torture in questa loro nuova opera, ma va detto che ognuno dei dieci pezzi qui presenti è sicuramente ben al di sopra della media generale del genere. Insomma, quello che si dice un ritorno col botto!
#1 recensione -
Abbiamo 'incrociato' i Fervent Hate sei anni or sono, quando la band pubblicò l'album "Tales of Hate, Lust and Chaos", impressionandoci pure, a dirla tutta. La band torna oggi con il terzo studio album "In Rot We Trust" sempre per Satanath Records (in co-produzione con Australis Records) e come allora si dimostra essere uno dei gruppi migliori nel suonare old school Swedish Death Metal; e non ci sarebbe nemmeno nulla di strano, non fosse che i Fervent Hate sono di Arequipa, Perù. Forse giusto un gradino sotto il predecessore, "In Rot We trust" è l'ennesima grande prova per il quartetto sudamericano, che porta avanti il suo ormai classico attacco frontale non dando respiro all'ascoltatore per tutti i 40 minuti di durata dell'opera, dimostrando tra l'altro di trovarsi a proprio agio sia quando si alzano i giri del motore - la doppietta iniziale ne è un esempio, ma anche la terremotante title-track -, sia quando le atmosfere si fanno più tetre ed i ritmi più groovy e pesanti ("Perpetual Wheel"). I Nostri non hanno bisogno di inutili perdite di tempo (niente intro, intermezzi o outro) o di orpelli ad abbellire la propria proposta: il quartetto - rimasto identico dalla scorsa release - suona quello che più piace loro e con un affiatamento maggiore che si può facilmente notare in ogni singola nota sparata in faccia senza ritegno. E' quasi paradossale che in un genere prettamente nordeuropeo, oggi come oggi tra i gruppi migliori a suonarlo ce ne sia uno sudamericano, ma tant'è: basta ascoltare pezzi come quelli già citati, o ancora "Kidnapped (by a Busty Demon)" o soprattutto "Grave of Hate" - highlight del disco a nostro avviso - per rendersene conto. Insomma, senza girarci attorno, qualora acquistiate "In Rot We Trust" difficilmente ne rimarrete delusi.
#1 recensione -
A tre anni da "Rise of the Rotten" tornano sempre per Pulverised Record gli svedesi/americani House by the Cemetary, band che vede militare nelle proprie fila il cantante Mike Hrubovcak (ex-Monstrosity), Rogga Johansson (Paganizer e decine di altri progetti) a chitarre e basso e Matthias Fiebig (Paganizer, Portal) dietro le pelli. Esattamente come col predecessore, anche con questo nuovo "The Mortuary Hauntings" gli House by the Cemetary ci offrono il loro Death Metal derivante dalla vecchia scuola svedese - cose che non dovrebbe sorprendere data la presenza come songwriter di Johansson -, con sonorità dunque groovy e che vedono le chitarre assurgere ad un ruolo di protagonista tra riffoni rocciosi e taglienti melodie, con a condire il tutto un drumming che impone ritmiche marcatamente Thrash/Hardcore. Va da sé, se cercate la novità quello dei Nostri è sicuramente l'indirizzo sbagliato: gli HbtC non fanno assolutamente nulla per nascondere le loro influenze, con Rogga Johansson che scrive e suona quello che gli riesce meglio con risultati, a nostro avviso, decisamente buoni. Possiamo poi notare che a differenza del predecessore, "The Mortuary Hauntings" ha un piglio più autoritario ed un approccio più diretto e si divide in egual misura tra pezzi più 'classici' - per quanto riguarda il genere proposto - come la doppietta di singoli iniziali "Cadavers Emerge" e "Beware of the Woods", ed altri dalle arie più cupe e pesanti, come ad esempio "Beyond Oblivion" che è, secondo noi, l'episodio migliore dell'album. Gli House of the Cemetary non sono qui per reinventare la ruota, come si suol dire, ma semplicemente ci regalano una mezz'ora abbondante di Death Metal svedese nudo e crudo che compiacerà sicuramente i tantissimi fans di questo espresso filone. In generale, "The Mortuary Hauntings" è un lavoro ampiamente sufficiente: dategli un ascolto, che male non fa.
Ultimo aggiornamento: 03 Giugno, 2024
#1 recensione -
Dalle glaciali lande canadesi ecco arrivare il debut EP autoprodotto dei Rötual, quartetto che con questo "Wörms" si presenta al pubblico con tre pezzi di Death/Doom della vecchia scuola che ha nei primi lavori di Paradise Lost ed Amorphis il principale punto d'influenza. Chi, leggendo il genere insomma s'aspettava qualcosa di pesante e claustrofobico (leggasi Mortiferum, Krypts, ecc.), ha sbagliato di molto: il sound dei Rötual è pregno di groove e melodie, e soventi sono i richiami anche ad Asphyx e Bolt Thrower, soprattutto nella title-track. Sonorità queste che sono leitmotiv del breve EP (poco meno di 13 minuti totali): ritmiche marziali e glaciali melodie sono presenti anche nella buonissima "Mycélium" e nella conclusiva "Ultime Voyage" - entrambi pezzi cantanti in francese -. Per ora non abbiamo molto altro da aggiungere: i Nostri dimostrano di sapersi muovere in questo contesto ed i tre pezzi sanno catturare l'attenzione grazie ad un discreto songwriting ed un buon livello esecutivo. In conclusione, prendiamo "Wörms" per quello che è: un breve biglietto da visita di una band interessante che aspetteremo con curiosità ad un lavoro dal maggiore minutaggio.
#1 recensione -
"Warping Structure" è il debut album degli svedesi Black Wound, band che si è fatta la sua bella gavetta di uscite minori negli scorsi anni: un demo nel 2020 (a nome Odium), e ben quattro nel 2021 (uno a nome Rotten Incantation, tre come Black Wound, anche se "Christ Betrayal" è uscito con entrambi i monicker), ed infine uno split sempre nel 2021 ed un EP nel 2022. L'album qui in esame è uscito dapprima autoprodotto nel luglio 2023, per poi essere rilasciato in cassetta prima nel settembre 2023 su Dry Cough Records e poi nel febbraio 2024 su Goat Throne Records; nell'aprile del 2024 esce il formato LP tramite ed Iron Corpse ed infine il CD - che è poi la versione da noi recensita - su Chaos Records. Date le dovute nozioni 'storiche' di band e disco, possiamo ora passare al dire ch ci troviamo di fronte ad un lavoro di Death/Doom abissale ed estremamente cupo, in cui la pesantezza tipica del genere - con influenze che spaziano tra i 'soliti' Spectral Voice, Disembowelment, Rippikoulu, Mortiferum,, Winter, Anatomia... - si unisce a quell'afflato caotico che tanto richiama veri e propri terroristi sonori come Teitanblood ed Impetuous Ritual (ne sono dei chiari esempi le roboanti "Rag" e "Trench Blast"), con in più alcuni passaggi con derivazioni Sludge à la Primitive Man ("Dread"). A questo si unisce una produzione volutamente grezza, sporca e dai toni sicuramente vintage, con suoni (volutamente) più impastati ed una voce estremamente riverberata. Il risultato è un lavoro che trasuda underground ed old school da ogni nota, con i suoni dati dalla produzione che alimentano il senso di oppressione e claustrofobia, che presumiamo sia il chiaro intento del trio di Stoccolma. "Warping Structure" è insomma un lavoro dai toni apocalittici, un viaggio asfissiante che per 40 minuti sa colpire esattamente alla bocca dello stomaco traun incedere pachidermico e sfuriate debordanti; si vede (e si sente) come i Black Wound abbiano lavorato di buona lena con le uscite minori, dato che pur essendo 'solo' il debut album possiamo notare come i Nostri si muovano come un'unica entità distruttrice. Nome insomma da tenere d'occhio: ai fans del Death/Doom più viscerale e claustrofobico, i Black Wound potranno in futuro dare buone soddisfazioni.
Ultimo aggiornamento: 02 Giugno, 2024
#1 recensione -
Dopo un paio discreti EP, un album ed una manciata di singoli, è tempo di secondo album per i The Troops of Doom, band fondata dal chitarrista ex-Sepultura Jairo "Tormentor" Guedz (alla corte dei Cavalera in "Morbid Visions", l'album della canzone "Troops of Doom"). "A Mass to the Grotesque" è stato licenziato l'ultimo giorno di maggio da Alma Mater Records, etichette portoghese il cui proprietario - per i più distratti - è Fernando Ribeiro dei Moonspell. Comunque sia, Jairo è tra i musicisti pionieri della scuola Death/Thrash brasiliana, quella dei Sepultura - per l'appunto, dei Sarcófago e dei Vulcano, quello stile particolare che unisce - soprattutto - il sound di Possessed e Kreator; non deve dunque stupire sei le sonorità dei The Troops of Doom richiamano molto da vicino i suddetti gruppi (senza dimenticare gli immancabili Celtic Frost, ovviamente), anche se Guedz ed il fido compagno d'ascia Marcelo Vasco dimostrano come abbiano comunque un occhio di riguardo per i tempi moderni, dando maggior varietà alle composizioni con l'inserimento di melodie che danno un più ampio respiro alle composizioni. Ma oltre questo, ci troviamo poi in territori più che - per quanto concerne voce, ritmiche e riff portanti - sono conosciuti e battuti da molti gruppi da quasi quarant'anni a questa parte. Certo, non possiamo parlare di operazione revival - o per lo meno non del tutto -, ma è innegabile come i The Troops of Doom siano legati a doppio filo ad un certo modo vintage d'intendere il genere: basta sentire a titolo d'esempio il singolo "Chapels of the Unholy" o "The Impostor King". E diciamo che non aiuta - per così dire - la voce di Alex Kafer, molto, MOLTO simile a quella del giovane Max Cavalera. C'è comunque molto dei Possessed nell'operato dei Nostri, anche se in generale questo "A Mass to the Grotesque" appare un po' meno ispirato rispetto all'esordio "Antichrist Reborn"; i pezzi qui hanno sì un buon tiro, sono scritti e suonati discretamente, ma si ha in ogni caso la sensazione di "scrittura col pilota automatico". Per quanto ci riguarda, i The Troops of Doom si guadagnano con questo loro secondo album una sufficienza piena: alla fine dei conti, si tratta comunque di buon intrattenimento a base di Death/Thrash abbastanza ignorante.
#1 recensione -
Ridendo e scherzando sono stati ben nove gli anni di assenza di uno dei gruppi che nel giro di due album (e un paio dii split) è riuscita a ritagliarsi il proprio spazio importante nella frangia dissonante del più oltranzista Black/Death: parliamo naturalmente dei canadesi Adversarial, ritornati questo scorso fine settimana con il loro terzo full-length "Solitude with the Eternal", rilasciato da una garanzia assoluta di qualità: Dark Descent Records. Saranno passati anche nove anni, ma ritroviamo gli Adversarial esattamente dove hanno lasciato quasi un decennio fa col grandioso "Death, Endless Nothing and the Black Knife of Nihilism": un Black/Death caotico e violento in cui la componente dissonante ha la sua importanza, ma a differenza di taluni colleghi possiamo vedere come il trio canadese punti come sempre su un minutaggio contenuto, segno questo di come preferiscano badare al sodo senza perdersi in (spesso) inutili tecnicismi. E proprio questa compattezza - unita ad un tasso tecnico invidiabile ed una predisposizione naturale per la violenza sonora - è uno dei punti di forza maggiore degli Adversarial, capacissimi nello scrivere pezzi dall'elevato grado di complessità ma che strutturalmente si concedono poche (spesso) inutili divagazione prediligendo un impatto più diretto e brutale. Che siano i momenti più frenetici e rapidi (prendete il massacrante incipit di "Death Is an Advisor in the Woods of the Devil") o passaggi più magneticamente lenti, non per un solo secondo gli Adversarial calano di tensione, riuscendo a mantenere sempre alta l'attenzione dell'ascoltatore che risulterà facilmente ammaliato dalle fugaci melodie o dalle atmosfere più cupe - ma di certo non prive d'intensità - come in "Crushed into the Kingdom of Darkness", ad avviso di ch vi scrive l'highlight dell'album a mani basse. Se già conoscete quest'imponente realtà canadese, parrebbe quanto mai inutile elogiare il solito ottimo lavoro di C.S. alle chitarre, vera e propria anima dell'act nordamericano. In queste particolari sonorità, nel corso di quest'ultimo decennio, sono nate diverse bands di sicuro spessore, ma dopo aver ascoltato "Solitude with the Eternal" ci accorgiamo quanto siano effettivamente mancati gli Adversarial; sono bastati otto pezzi e poco più di mezz'ora per rimettere tutto in ordine e trovarci a pensare che in questo specifico settore del Metal estremo la band canadese sia tra i migliori interpreti con ben pochi avversari.
Ultimo aggiornamento: 02 Giugno, 2024
#1 recensione -
Tre anni or sono segnalammo "Arkivet" dei Wormwood come una delle migliori uscite di quell'annata, cosa poi confermata dai fatti tra l'impressionante numero di vendite e le eccellenti critiche. Tre anni dopo - per l'appunto - la Melodic Black Metal band svedese torna con il quarto full-length "The Star", rilasciato ancora da Black Lodge Records; e, come da titolo, questa nuova opera proietta la band di Stoccolma tra le migliori realtà Metal in epoca contemporanea. In "The Star" non solo ritroviamo le componenti che tante fortune hanno regalato al proprio predecessore, ma possiamo notare sin da subito come i Wormwood non si siano seduti sugli allori e abbiano ulteriormente impreziosito la propria proposta. Il sound dei Nostri è un vero e proprio melting pot, un crogiuolo in cui con una sapienza quasi alchemica la band scandinava fonde un Black Metal melodico ed epico - in tal senso li possiamo tranquillamente additare come gli eredi dei Windir - a patterns Melodic Death, implementando il proprio range sonoro con passaggi che passano dal Post-Metal più etereo al Rock progressivo 'pinkfloydiano'. Forse anco più che "Arkivet", "The Star" è una vera e propria esperienza sensoriale: rabbioso e sognante, epico e drammatico, avvolgente ed atmosfericamente glaciale... Il lavoro in fase di composizione ed arrangiamento da parte di Nine e soci è scevro da qualsivoglia difetto. Che poi i Wormwood dimostrano anche di avere un certo coraggio, avendo puntato come singoli ai due brani più lunghi - ma anche più affascinanti - del lotto, ossia l'opening track "Stjärnfall" e la conclusiva "Ro", pezzi in cui tutte le anime dei Nostri convergono ed esplodono come in una Supernova. Nel mezzo una serie di pezzi di livello qualitativo altissimo, da quella "A Distant Glow" - che ai più attenti potrà musicalmente ricordare gli Insomnium, idem dicasi per i cori e la parte centrale della meravigliosa "Suffer Existence" - alla tragica "Liminal", fino alla più epica "Galactic Blood" - con taluni passaggi che possono ricordare Moonsorrow o Månegarm -. Tra riff rocciosi e melodie taglienti, assoli dal sapore nemmeno tanto vagamente di Metal classico, digressioni Post-Metal e psichedelie progressive (ascoltate attentamente il 'sottofondo' di "Galactic Blood"!), "The Star" conferma come i Wormwood continuino ad essere in uno stato di grazia compositivo che ha, ad oggi, ben pochi pari. Per questa nuova opera possiamo scomodare lo stesso aggettivo usato per il predecessore: maestoso. Ci sentiamo di consigliare "The Star" non solo agli amanti della frangia melodica del Metal estremo, ma anche a chi semplicemente piace la buona musica. Perché in fin dei conti, qui di questo si tratta.
#1 recensione -
Si sono cominciati a far conoscere nel 2021 con uno split insieme ai Noxis e debuttano oggi "in solitaria" gli statunitensi Cavern Womb, band Technical Death di Philadelphia che ha appena pubblicato tramite Rotted Life Records l'EP "Stages of Inifinity". Se si è fans dei vari Blood Incantation, Demilich, StarGazer, Tomb Mold e via discorrendo, allora senza girarci tanto attorno il nome dei Cavern Womb è di quelli da appuntarsi in calce e seguire con particolare interesse per il futuro, anche perché il loro EP di debutto è un lavoro grandioso! Tecnicamente ineccepibili, cupi, rabbiosi, i Nostri sanno come giostrare atmosfericamente la propria proposta e come dare un afflato sinistro ai pezzi con dissonanze psicotiche e taglienti melodie. L'ascolto di questo EP è una lenta e claustrofobica discesa verso profondi abissi oscuri, con sprazzi illusivi di luce ed aria dati da passaggi quasi eterei (prendete i primi secondi di "Amber Scourge"), prima che il vortice sonoro vi si richiuda di nuovo attorno sprofondandovi. Se solo la produzione fosse stata un po' meno sporca e meno caotica avremmo avuto per le mani un vero e proprio gioiello; ed invece "Stages of Infinity" è "solo" un buonissimo EP di debutto, che comunque si attesta ben al di sopra della media, mettendo in mostra le capacità innate del quartetto di Philadelphia, che a nostro avviso riesce a dare il meglio quando il minutaggio dei brani sale e possono dimostrare per bene di che pasta siano fatti. Ognuno dei quattro pezzi in tracklist è un macigno di luciferina oscurità che conquisterà sin dal primo ascolto gli amanti del Death più pachidermico ed al contempo avanguardista. I Cavern Womb si presentano con un biglietto da visita non di poco conto: la curiosità su cosa ci sapranno dare in futuro, lo ammettiamo, è tanta.
#1 recensione -
Subito dopo i Morgue Meat, altra co-produzione di Satanath Records, che questa volta fa team con la costaricana Sanatorio Records per la pubblicazione del quarto album dei Combat Noise, veri e propri pionieri della scena Metal cubana: la band de L'Havana, infatti, si forma nel 1995 e dopo una serie di demo ha pubblicato nel corso degli anni, per l'appunto, quattro album, l'ultimo dei quali è l'appena rilasciato "To the Heart of the Battle". Il quintetto cubano ci porta nel fango, nel sangue e nelle battagli della seconda guerra mondiale, accostandosi per tematiche ai 'soliti' Bolt Thrower - omaggiati a fine album dalla cover di "World Eater" -, Hail of Bullets, Just Before Dawn, mentre musicalmente i Nostri sono dediti ad un Death Metal brutale e diretto sulla scia soprattutto di Cannibal Corpse e Sinister, pur implementando la propria proposta con passaggi groovy e marziali che richiamano i Signori della Guerra britannici (la parte conclusiva della title-track, l'incipit della seguente "Total War"). Insomma, chi vedendo i titoli dei brani (ed ovviamente la conclusiva cover) si aspettava un disco con sonorità à la Bolt Thrower, potrà rimanere alquanto interdetto nel sentire i Combat Noise attaccare frontalmente con la massima brutalità; la frenetica "Gestapo (Bringer of Noise)" è un concentrato di Cannibal Corpse del medio periodo e Morbid Angel ad esempio, influenze riscontrabili anche negli altri macigni che compongono la tracklist di "To the Heart of the Battle": i Nostri colpiscono duro mantenendo sempre alta la tensione, sia che si tratti di spingere sull'acceleratore che quando di passare a momenti più lenti e pregni di groove (basti ascoltare il singolo "Stalingrad in Blood"). Avrete insomma capito che i Combat Noise non è che brillino per originalità, ma è anche vero che quello è il loro chiaro intento: la band cubana si rifà a sonorità quanto mai familiari e lo fa con perizia e dovizia regalandoci un album che saprà sicuramente far contenti gli amanti di questa particolare frangia dello US Death Metal. Se accettate un consiglio, dategli un ascolto.
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