Opinione scritta da Marco Tripodi
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Ritorniamo a parlare degli Unholy Impaler, band già nota ai lettori di All Around Metal, dedicandoci stavolta alla loro recente uscita inedita “Remastered Rehearsals”. Per chi non conoscesse la band, basti dire che questo gruppo italiano sembra uscito dritto dritto dalle cantine norvegesi dei primissimi anni ’90, e ne esce con orgoglio e tanta fottuta rabbia.
Si comincia con una traccia che unisce un intro alla canzone “Corruption Forever” (breve, marcia e diretta come un proiettile).
A seguire, due versioni della stessa “Misanthropic Soul”, che aprendosi con un fraseggio di chitarra semplice ma accattivante ci trascina in un nero vortice di doppio pedale condito da urla strazianti. Le due versioni sono similissime e sostanzialmente prive di variazioni significative, o almeno così sembrerebbe (probabilmente la maggior parte delle sfumature non hanno giustizia dall’infima qualità di registrazione).
Per i successivi tre brani si replica il titolo “Jesus Trendkill”, ma a ripetersi sembrerebbe ci sia solo l’intro: nella prima sentiamo solo questo (circa trenta secondi), mentre viene ripreso ed eseguito al’inizio di due brani completi e coinvolgenti le altre due volte. Lo stile è lo stesso e non si smentisce: cattivo e puro, senza fronzoli e merletti, solo schitarrate cattive e batterie pesanti, come vuole la tradizione del black metal più seminale.
Con titoli già noti dal precedente lavoro -già recensito su questa zine- “Collection of Mephistophilis”, come “Lord Impaler”, “Faustus’s Last Hour” e “Supreme Evil Event”, per i quali non posso che ripetere quanto già detto abbondantemente in altra sede: parliamo di brani coinvolgenti e che non possono non piacere agli amanti dell’underground più nero e artigianale, ma che avrebbe sicuramente una miglior resa con registrazioni più pulite.
La conclusiva “Necrodismemberment Holocaust” chiude il disco guardando (quantomeno nella parte iniziale della canzone) al black più cadenzato e funeree, e che più attinge al doom, i riferimenti più chiari vanno non solo ai padri del genere come i Black Sabbath e i Candlemass, ma anche a gruppi che prima di loro hanno già assunto queste caratteristiche nel black metal (e basti citare i Mayhem).
Anche per questo lavoro mi trovo a ribadire il giudizio espresso per il precedente lavoro recensito: è questa una band che ha notevoli idee da sbattere in faccia agli amanti del genere, e nonostante le ripetizioni di questo disco (discutibili ma tradizionalmente amate dallo zoccolo duro del black metal duro e puro) è capace di colpire con melodie accattivanti che emergono da caos che creano di volta in volta, ma purtroppo la scelta di mantenere un target di registrazione così basso e vicino a quello delle origini del black metal è come sempre un’arma a doppio taglio: da un lato ci si accaparra la frangia di quel seguito attaccata all’underground più sporco e minimalista, dall’altro però si nuoce alla qualità della propria composizione, che troppo spesso si perde tra i fischi e i fruscii. È vero che questo è un genere il più delle volte più godibile nelle esibizioni dal vivo che non su disco, ma se è il disco che va valutato, certi limiti hanno un loro peso (anche quando vengono presi come punto di forza).
Che altro dire? Non mi resta altro che incoraggiare questi ragazzi a tenere alta la nera fiamma!
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Nell’era del digitale è sempre più frequente imbattersi nel singolare quanto triste fenomeno dei “blackster da computer”: ovvero quella schiera di giovanissimi fan tutti contenti e fieri di quanto siano “true” e cattivi nello stare in poltrona a leggere su wikipedia la storie di cronaca nera dei Mayhem e degli Absurd, e che si fossilizzano nella cieca venerazione dei mostri sacri del black metal, ignorando la realtà italiana che con fatica emerge.
Gli Unholy Impaler invece testimoniano proprio che questa scena è viva ed ha ancora voglia di urlare, e per dimostrarlo esce con la ristampa di “Collection of Mephistophilis”, già edito nel 2001.
Due secondi di ascolto sono più che sufficienti per aver chiaro cosa propongono gli Unholy Impaler: i suoni cupi e indefiniti, grezzi e viscerali ci proiettano immediatamente nei gironi più tetri, marci e primordiali del black metal storico. “Symphony Of Abazea” ci introduce in un disco che odora di anni ’90, tutto farcito di fischi, fruscii e riverberi com’era nelle registrazioni che hanno fatto la storia del genere. Con questo inizio, cadenzato e sempre più veloce e furente possiamo addentrarci nel vivo di un disco che omaggia a mio dire due nomi su tutti: i primi Mayhem e i Bathory più oscuri; ma la lista di riferimenti sarebbe lunga se non volessimo trascurare gli Inquisition e gli Absurd.
Proprio con i Bathory condividono alcune interessanti idee compositive che sfruttano cambi melodici accattivanti proprio per la loro semplicità, lo si nota bene in canzoni come “Blasfemous Torment” e
Certo questo è uno stile che tende un po’ a ripetersi e a peccare di una certa mancanza di innovazione, ma i ragazzi affrontano questo deficit (deficit che è proprio del genere di black e non della band) sfruttando riff coinvolgenti e che emergono bene dalla bolgia sonora che hanno scelto di generare, e a tal proposito cito “Lord Impaler” (che si chiude in maniera forse un po’ troppo secca), ed alternando pezzi che sono pure incessanti cavalcate di metallo –come “Black Vomit” e “Supreme Evil Event”- ad altri pesanti e cadenzati come sono invece “Satan’s Speech” e “Old As Death”.
Purtroppo la voce, strozzata e stridula tanto da ricordare a tratti le parti di Burzum in “Filosofem”, talvolta si perde un po’ tra le linee di chitarra ed il martellante blast-beat della batteria, ma credo che più che un errore di registrazione questa sia un scelta data dall’intento di creare un atmosfera ancor più confusa tra i suoni roboanti e distorti.
Avviandoci alla fine merita una menzione particolare “Supreme Evil Event II”, poiché proprio in questo brano le ritmiche e le sonorità offerte riportano alla mente l’immortale capolavoro “Freezing Moon”, e credo che questo dica tutto.
Purtroppo, quello che deprime notevolmente il lavoro è la qualità della registrazione: certo, è chiaro che la band abbia scelto deliberatamente di far uscire un prodotto con questi suoni per rifarsi ad una corrente del black metal che ha nei suoni grezzi e artificiosi il proprio tratto distintivo, non posso non pensare che una produzione acusticamente più accurata e pulita renderebbe una maggior giustizia all’inventiva della band (specie per la scelta di non dividere la canzoni ma di farle susseguire tutte in un’unica traccia!).
Verrebbe da domandarsi: è vero che il black metal degli anni ’90 ha sfruttato l’infima qualità delle registrazioni casalinghe facendone il proprio marchio di fabbrica, ma se negli anni ’90 le moderne tecnologie fossero state come oggi alla portata di tutti, tanto da darci registrazioni casalinghe spesso di ottimo livello, non le avrebbero forse usate anche quei mostri sacri che oggi sono venerati dagli amanti de black metal? Agli ascoltatori l’ardua sentenza; nel frattempo promuovo gli Unholy Impaler!
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Quando un grande gruppo -specie nell’underground- resta nel silenzio per ben sette anni il sospetto che ormai abbia già detto e già dato quanto fosse nel loro potenziale e che possa ormai essere confinato tra i nomi dei mostri sacri del passato rischia di diventar certezza, ma evidentemente non è il caso dei Summoning, ed il loro “Old Mornings Dawn” testimonia che la loro vena non si è ancora esaurita.
Ebbene sì, il gruppo che ha fatto della fusione di un black metal ambient ed estremamente sperimentale con il meraviglioso mondo tolkeniano il proprio marchio di fabbrica ci regala una nuova chicca, ed è un album che i vecchi fan potranno sicuramente apprezzare, ma ancor più credo che questo disco, grazie al suo approccio più “misurato” potrà attirare al gruppo anche numerosi nuovi ascoltatori (forse i più giovani) che non conoscevano la band. Cosa intendo per approcciò più “misurato”? Mi spiegherò parlando del disco.
Facendo i conti con le nuove tecnologie la band ci introduce nel loro mondo oscuro ed incantato con un intro coinvolgente e suggestiva come poche ne ho sentite: oggigiorno purtroppo è diffusa la moda di cominciare un album con un brano introduttivo strumentale e pomposo –come se fosse un obbligo- e così anche quei gruppi black marci e grezzi che vivono dell’esempio di Mayhem ed Absurd si buttano in intro orchestrali e sontuose che nulla hanno a che fare col proprio prodotto; ebbene “Evernight” mostra invece quale sia il vero senso di un brano introduttivo e strumentale: è un ottimo sunto di quanto andiamo ad ascoltare, e ci immerge con una quiete vagamente sinistra in atmosfere che avremo modo di scoprire.
Se è vero che il passato dei Summoning è stato il più delle volte dettato dalla predominanza delle tastiere (tanto da farci addirittura talvolta dimenticare la matrice black metal del gruppo), questa volta le parti di tastiere, folk e atmosferiche come sono necessarie per i padri del “Tolkien Metal”, sono equilibrate e calibrate con i riff di chitarra e con la voce che si destreggia nel non semplice compito di suonare cattiva e malvagia, ma senza spezzare l’armonia antica e surreale del tutto. È quello che notiamo subito con “Flammifer” e con la title-track “Old Mornings Dawn”, che pur scorrendo molto bene pecca forse un po’ di lunghezza con i suoi nove minuti e mezzo (ma d’altronde sappiamo che questa è sempre stata una tendenza della band, e altri brani del disco lo dimostrano).
Con “The White Tower” i Summoning si cimentano in un black metal più lento e introspettivo, ma capace di non cancellarci dalla mente le splendide immagini di Isengard ed Orthanc. Un ostinato di batteria ben calibrato ed una voce lamentosa e tetra accompagnano bene delle belle parti di tastiera e chitarra, che senza sfociare nel depressive metal più tradizionale (e spesso abusato) infondono all’ascoltatore il pacato senso di una malinconica e quasi spettrale contemplazione che dura quasi dieci minuti, e se mi prolungo tanto su questo è per ricordare che spesso è più facile fare canzoni dai ritmi serrati e violenti che non pronunciarsi in questo stile risultando effettivamente coinvolgenti.
È con le canzoni “Caradhras” e “Of Pale White Morns and Darkened Eves ” che vediamo al meglio come la band sia stata capace in questo disco di fondere la sua vena folk con parti (soprattutto liriche) sfacciatamente black metal, cantate in un rabbioso rantolo che si mescola al suono delle foreste di Tolkien.
Non crediate quindi che amalgamandosi così con parti più “ortodosse” per la tradizione del black metal i Summoning abbiano perso quella loro caratteristica sontuosità ed epicità: come già detto per “Flammifer”, il giusto equilibrio tra le chitarre cupe e graffianti e lo scream con le parti di tastiera viene ribadito da “The Wandering Flame”, mentre ci avviamo alla chiusura; già, perché questa era la penultima traccia, e con “Eartshine” arriviamo alla fine, con un brano che riassume al meglio tutti gli elementi incontrati nelle tracce precedenti, e che in questa canzone raggiungono un apice. È un brano che ha tutto: un inizio malinconico, uno sfogo vocale di ampio respiro, una partitura chitarristica che pur senza troppa elaborazione si sposa in uno struggente e magnifico confronto con tastiere estremamente evocative, ed un finale in pompa magna con cori epici e maestosi.
Che dire per concludere? Chi in passato ha potuto apprezzare i Summoning potrà ritrovarli e riscoprirli con questo nuovo “Old Mornings Dawn”, meno epici e meno eroici, ma più contemplativi, più coesi nell’organico della band ed elaborati nella composizione. I Summoning sono maturati. E questo disco è la prova che sette anni dall’ultima uscita non sono passati invano.
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Dopo il loro fortunato disco d’esordio (“Sermon Of Lies”) i tedeschi Anima Sementis tornano a farsi sentire con un EP di tre tracce dal titolo “Interitum”.
Per chi ancora non li conoscesse, gli Anima Sementis propongono al pubblico un black metal che assimila bene la ritmica e l’impatto del death metal più famoso e longevo, equamente assorbito dall’atmosfera sontuosa e a tratti malinconica delle parti di tastiera che abbracciano l’insieme.
La brevità dell’EP lascia poco spazio alle parole, ma il contenuto è ben chiaro e diretto, tanto da non lasciar alcun dubbio sulla natura del gruppo: dalle tre canzoni che compongono “Interitum” emergono distintamente gli echi di mostri sacri del genere come Behemoth e Rotting Christ, influenze chiare ed apprezzabili da qualsiasi amante della scena blackned.
I suoni equilibrati e bilanciati manifestano una produzione precisa e curata, qualità purtroppo ancora rara nella maggior parte degli EP prodotti nella media dei gruppi degli ultimi anni, troppo spesso snobbati in vista di dischi completi o progetti di future produzioni da parte di gruppi. Al contrario questo EP si presenta come un’ottima promessa per il futuro: gli Anima Sementis approfittano del poco spazio di un formato ridotto per servire all’ascoltatore un sunto del proprio stile. “World Dominion Collapse” e “Ruins” si susseguono con una buona amalgama di forza e cattiveria e di parti d’ampio respiro e d’impronta melodica offerte dalle tastiere.
Se il lavoro pecca di una certa mancanza d’innovazione e di “già sentito”, è pur vero che proprio le tastiere sollevano la composizione ad un livello superiore grazie a melodie che consentono di attribuire al lavoro della band maggiore originalità, fattore testimoniato in particolare da “Masquerade of Grace”, il più alto punto dell’EP.
In conclusione, guardo con soddisfazione a questo EP come ad un anticipo su un disco che possa rendere agli Anima Sementis un servizio ancor migliore.
Ultimo aggiornamento: 18 Giugno, 2013
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Spesso (anzi, fin troppe volte!) i più fanatici di un genere tendono a vedere il Black metal ed il Death metal come due correnti l’una contro l’altra armata, perdendosi in inutili ed irremovibili considerazioni sull’infallibilità e superiorità del proprio genere del cuore, chiudendosi in esso senza alcuno spazio al dialogo. Proprio per questo recensisco con tanto piacere i Luna Ad Noctum, band polacca che con il proprio black metal di matrice sinfonica rivela quanto ricche siano le sue influenze death metal.
Lo capiamo sin dalla prima “In Hypnosis”, con cui si apre questo loro “Hypnotic Inferno” ed i cui cambi ritmici coinvolgenti e dinamici riescono a catturare sin da subito l’attenzione dell’ascoltatore. Merito naturalmente anche di buone armonizzazioni tra le chitarre e dell’ottimo uso della voce che mi ha ricordato quella di Jens Hyden nella sua forma migliore (e approfitto per dire: finalmente un cantante black che non imita Dani Filth!).
Se questi ben studiati cambi di tempo non ci hanno ancora convinto, arriva subito “Fear Technique”, con un riff di chitarra all’introduzione che ricorda molto il vecchio e sacro stile dei Death, ma il pezzo a cui ci ha preparato presenta subito una chiara matrice black metal, tetra e profonda, che ci trascina nei più contorti vortici della pazzia. Questa è l’impressione che si ha per tutto il disco dove, traccia dopo traccia e tra equilibrati passaggi tra il doppio pedale e l’ostinato incalzante, la band riesce a dare ottima prova di sé.
Se finora abbiamo sentito solo gli strumenti più “canonici” all’opera, è con “You Are Wath You Are” che la band ci dà prova anche di alcuni inserimenti tastieristici, discreti ma d’impatto nel finale (e la limitatezza di queste parti si spiega con l’assenza di un tastierista nella formazione). L’uso delle tastiere viene ripetuto con lo stesso stile, brevissimo ma incisivo ed atmosferico, anche in seguito: lo si può sentire bene in “Fleshless”.
È però in “Ether Dome” che si può trovare la parte melodica che più mi ha colpito in questo disco, al di sopra di un doppio pedale preciso quanto accattivante: più volte in questo pezzo la chitarra si profonde in parti d’ampio respiro e d’ottimo gusto, pur senza nuocere all’impatto della canzone (aspetto che in parte ho riscontrato anche in “Martyrium”, seppur con meno effetto).
Già in precedenza avevo avuto l’impressione, ascoltando questo disco, che man mano che andava avanti questo scaricasse di volta in volta pezzi di cattiveria sempre più concentrata, pur senza discostarsi dallo stile ricco di cambi e variazioni che caratterizza la band e che è senz’altro il loro punto di forza: bè, se finora ne avevo soltanto l’impressione, me ne dà la certezza la conclusiva “Total Sleep Disorder”, un pezzo che cavalca a metà tra Emperor e i primissimi Dimmu Borgir dando l’ultima martellata ed esprimendo al meglio il proprio stile. Insomma: fantasia e varietà, cattiveria e precisione, rabbia e melodia, ed un’ottima esecuzione. Direi che ci sono davvero tutti gli ingredienti per un ottimo disco!
Ultimo aggiornamento: 15 Mag, 2013
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Più volte in passato ho potuto accennare alla scena black metal italiana: ricca, controversa, troppe volte bistrattata. Oggi ho la possibilità di affrontarla parlando di un gruppo italiano che, fondatosi nel ’94, si esprime nella lingua originaria con cui il black metal si è fatto conoscere nell’era d’oro dei primi anni ’90: sono gli Apolakia, e questo è il loro ultimo lavoro, “Kathaarian Vortex”.
Dopo una breve introduzione iniziale dal disco piove una sfuriata tritante e ossessiva con “Post Kristus Damonolatry” che si presenta come il biglietto da visita di questo disco: distorsione altissima e stridente, batteria martellante e incessante, che per più di cinque minuti (questa in media la durata delle canzoni) manifesta a chiare lettere quali siano i riferimenti per questa band, Mayhem e primi Darkthrone su tutti, e nella loro forma più oscura e compulsiva!
Anche la registrazione sembra imitare quelle storiche registrazioni da cantina con cui si sono formati gli amanti del black metal duro e puro, dando alla complessità del disco un condimento aspro e confuso di fruscii e ritmiche spesso poco nitide.
Queste caratteristiche rimarranno una costante per tutto l’album, ma a voler cercare anche elementi che, almeno in parte, si distacchino dalla ripetitività delle canzoni, si può parlare dell’inserimento di parti anche cantilenate dalla voce, chiaramente con lo scopo di suggerire all’ascoltatore –seguendo la migliore scuola dei Celtic Frost- l’idea di un’oscura liturgia nera, nelle canzoni “In Figuram Baphometis” e, in particolare, in “Order of the Nine”, ma ben inteso: parliamo solo di sfumature, non di chiare differenze dagli altri pezzi!
Senza distaccarsi da questo suono pastoso e confuso “Malignant Asphyxion”, dopo l’ormai consueta sfuriata velocississima in cui la voce si distingue a stento dalla distorsione delle chitarre, presenta finalmente un decisivo cambio di tempo (il primo del disco dopo cinque tracce!) in favore di una marcia marcata e puntuale.
Quanto ho scritto finora, descrivendo le sonorità grezze e dalla sensazione “casalinga”, vorrei fosse preso come premessa per dimostrare e chiarire che il sottoscritto non è certo solito a storcere il naso di fronte a suoni esplicitamente “old school” (tutt’altro!), e che le critiche mi trovo costretto a muovere a questo disco non sono da attribuire ad orecchie inesperte… Che la band intenda rifarsi ad un’era del black metal tramontata quanto vagheggiata e ammirata è chiarissimo, ma la qualità del suono è in ogni caso pessima (al confronto le registrazioni degli HellHammer potrebbero sembrare fin troppo raffinate!). Spesso ci si accorge dell’entrata della voce solo a metà strofa, tanto sono confusi ed impastati i suoni di chitarre e batteria… Anche le ritmiche non offrono molto: una certa ripetitività e monotonia –bisogna ammetterlo- è spesso una componente tipica di questo genere di black, ma in questo caso sono molto rare le parti che offrono una qualche variazione in tutto il disco: le si notano di più nella title-track e nella successiva “Signum Satani” (uno dei punti più alti della composizione), in cui i cambi di tempo si fanno sentire questa volta in maniera marcata e coinvolgente. È da questo punto in poi che il disco, finora incessante nelle sue velocità esasperate e violente, assume una svolta dal respiro più ampio, concedendo più spazio ad interventi ritmici d’ostinato e di marcia (pur rimanendo ancorati sullo stile sporco e primordiale): lo mostra bene “Coil of Nihilism”.
Un elemento che poi penalizza incredibilmente il disco sono le chiusure (davvero incomprensibili): quasi tutte le canzoni si concludono con un rapido quanto fastidioso fade-out, una dissolvenza veloce che spiazza l’ascoltatore; le uniche due canzoni che non si concludono con questa dissolvenza poi hanno un risultato ancor peggiore (spero nell’improbabile possibilità che mi siano arrivati dei file danneggiati), terminando con un taglio netto e decisivo, come se la canzone fosse stata stoppata erroneamente in un punto casuale.
Non saprei che altro aggiungere: guardare al passato è sempre lodevole, ma un conto è apprendere dai maestri della storia, un altro scimmiottarli in un vortice di forsennata e rudimentale brutalità. Non è importante essere tecnici a tutti i costi, ma almeno offrire una ragione per essere ascoltati quello sì, mentre questo “Kathaarian Vortex” sembra voler far godere gli Apolokia della propria misantropia, chiudendosi senza la minima apertura per un pubblico.
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Stupisce non poco leggere che i Totengeflüster sono, con questo loro autoprodotto “Vom Seelensterben”, al loro disco d’esordio, e che non hanno demo o EP alle spalle, poiché questo ha invece tutto il suono e l’aspetto di un disco partorito da un gruppo datato, cresciuto e maturato dall’esperienza di molti anni di carriera. E invece non è così: questo trio tedesco si forma nel 2007 per approdare quest’anno a questo primo risultato: black metal sinfonico e contemplativo, a tratti malinconico, ma capace di tenere l’ascoltatore per tre quarti d’ora con il fiato sospeso.
L’apertura strumentale (“Die Prophezing”) ci prepara più che bene ad un disco in cui il black metal della grande tradizione viene messe a confronto con realtà musicali ricche ed eterogenee: è d’altronde lo stesso gruppo che parlando di sé non manca di ricordare la propria affezione alla musica classica, che con ampie parti d’orchestrazioni e tastiere sarà sempre presente nel disco, anche in quelle sfuriate che segneranno nell’album i punti più veloci e adrenalinici (in particolare “Blutsegen – Die Strömende Erkenntnis”).
Le atmosfere generali che vengono sprigionate suonano come un ottima fusione dell’elaborazione di album come “Midian” e la contemplazione estatica di “To Violate The Oblivious”, il tutto condito da linee vocali che, alternandosi tra un growl di contorno ed uno scream acuto, stridulo quanto basta per darci un’idea di addolorata malignità, accompagna l’ascoltatore attraverso vortici di desolazione e rabbia: “Ein Traumgespinst” è forse il pezzo che meglio di tutti manifesta la variegata natura musicale di questa band e di questo disco, sfruttando al meglio le potenzialità delle linee di tastiera particolarmente presenti.
È solo con la successiva “Ein Monolog Im Mondschein” per la verità che si riesce a sentire e ad apprezzare adeguatamente l’uso delle chitarre, sebbene restino commisurate e forse un po’ adombrate dalle atmosfere tastieristiche. L’importanza delle atmosfere è fondamentale per l’idea che questo album di debutto vuole dare: lo dimostra non solo l’insistenza e la quantità con cui vengono elaborate nelle canzoni, ma anche l’inserimento dell’intermezzo “gefrorene Tränen”, intermezzo che vuole aprire la strada alla ben più rabbiosa “Vom Seelensterben”, title-track di un disco che sta scorrendo fluido e senza nessun intoppo.
Se il disco è nel complesso innovativo e ricco di influenze da mondi anche molto distanti dal black non manca però un attaccamento all’aspetto più tradizionale del genere, e a dimostrare questo legame (finora tenuto un po’ in ombra per la verità) ci pensano con successo canzoni come “Der Pakt”, la già citata “Blutsegen – Die Strömende Erkenntnis” e la pur teatrale “Ein neuer Pfad”.
Per avviarci alla fine i Totengeflüster ci offrono prima una bellissima outro (“Im Tau der toten Morgensonne”), struggente e pacata, ed infine -come bonus-track- una versione orchestrale di “Ein Monolog Im Mondschein”.
Che dire di più? Un ottimo debutto, curato nella composizione come nella produzione ricca ed elaborata. Un disco ben riuscito e che sa dare all’ascolto un’ottima impressione; a voler dire, pecca forse di una certa ripetitività, ma ai Totengeflüster va il plauso di aver debuttato con un disco piacevole e ricco di idee interessanti, con una produzione estremamente professionale (dalla registrazione all’accurato lavoro di stampa), il tutto senza un’etichetta discografica a supportarli, e sappiamo bene quanto fare un disco costi oggigiorno.
Insomma, bravi ragazzi!
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Una band che non ha bisogno di presentazione quella dei Rotting Christ, l’oscuro progetto dei fratelli greci Tolis, che tornano alle orecchie dei loro fan con questo nuovo "KATA TON DAIMONA EAYTOY" (che la band vuol tradurre con le parole “Do What Thou Wilt” dell’occultista inglese Aleister Crowley).
I Rotting Christ sono stati capaci negli anni, grazie ad un origine fusione tra le sonorità del black metal e quelle del folklore della loro terra, di creare un inconfondibile marchio di fabbrica, eppure l’apertura di questo disco non lascia spazio alla scontatezza, aprendo con un’iniziale “In Yumen – Xibalba” che, pur senza tralasciare la forte vena atmosferica che li ha sempre caratterizzati, arriva come un piacevolissimo pugno allo stomaco in un’articolata fusione toni dark un death metal potente, diretto e pesante. È soltanto l’inizio: la successiva “P'unchaw kachun - Tuta kachun” conferma per la band una svolta decisamente più death, che guarda a mostri sacri come i Behemoth in particolare (e lo si nota soprattutto nella voce), pur mantenendo intatta la propria impronta, fatta di ampie e suggestive parti corali, di atmosfere oscure quanto ricche e pastose e di notevoli dialoghi tra le chitarre in riff accattivanti e coinvolgenti.
Quello che può colpire è questa loro “Grandis Spiritus Diavolos”, una sorta di rifacimento più puramente “metal” della loro famosa e pomposa “Grandis Spiritus Sanctus Diavolos”, e se il quella a farla da padroni vi erano ampi inserti orchestrali e cori alti e solenni, qui i cori e le orchestrazioni sono un notevole contorno per un pezzo ritmato che procede martellante e preciso, facendo scandire istintivamente i colpi del pezzo con un deciso headbang da parte dell’ascoltatore (e forse questo stile strizza l’occhio ai Vader?). Non è il solo pezzo ad avere questo stile dalla ritmica quasi ipnotica: poco più avanti troveremo “Iwa Woodoo”, coinvolgente e suggestiva nel suo andamento quasi tribale. Questo gusto per l’esotico ed il tribale avrà diversi spunti all’interno del disco: non solo in “Iwa Woodoo” ma anche in “Ahura Mazdā-Aŋra Mainiuu”.
Forse è proprio con la title-track “Kata Ton Demona Eaftou” che compare la vena più puramente black della band, vena che finora sembrava messa un po’ da parte: intervallati cambi ritmici alla Emperor tra le chitarre segnano l’apertura di un pezzo che ci rivela un cambiamento chiaro e preciso nella musica dei Rotting Christ (ed è emblematico che proprio in questa canzone ritroviamo per la prima volta nel disco i suoni della tradizione greca così spesso sfruttati in passato dal gruppo), un cambiamento che ci presenta un gruppo più arrabbiato, che sa restare tecnico ma che si spoglia di molti orpelli chitarristici, lasciando a cori e orchestrazioni il compito di creare un vortice atmosferico in cui basso chitarra e batteria si muovono secchi, duri e cadenzati.
Il folklore del Peloponneso si manifesterà da protagonista in “Cine iubeşte şi lasă”, canzone che per la verità non mi ha entusiasmato, specie per una struttura tra le parti piuttosto disomogenea e forzata.
È chiaro che i Rotting Christ con questo disco vogliono farci esplorare il male da un punto all’altro d’oriente: così, dove averci offerto il canto turco appena citato e dopo “Iwa Woodoo” approdiamo a “Gilgameš”: un pezzo che dà un chiaro esempio del “caos ordinato” che tanto spesso ritroviamo nelle pagine più tecnicamente avanzate de black e del death metal (e ancora una volta l’esempio dei Behemoth e degli Emperor torna alla mente).
Non mancano poi esempi di pure cavalcate black metal molto vecchia scuola, come “Русалка ("Rusalka")”, un pezzo che gli amanti della nera fiamma potranno apprezzare per le tinte oscure ed essenziali nella loro buia linearità.
Andiamo avanti col disco, e vien spontaneo chiederci cosa aspettarci dalla canzone “Χ Ξ Σ ("666")”: per due minuti una messa cantilenata con toni profondi e sinistri, poi finalmente il pezzo inizia, con lo stesso ritmo cadenzato e granitico. Una bella canzone, non c’è che dire, cattiva, rabbiosa e solenne allo stesso tempo, ma a questo punto del disco è inevitabile pensare che è anche l’ennesima traccia che sfrutta questa cadenza pesante e secca. Che è successo, -viene da domandarci- i Rotting Christ hanno finito i tempi di batteria?
È invece notevole la bonus track con cui si chiude questo disco, capace di fondere solennità ed epicità a sfuriate di ruggiti e feroci schitarrate, mentre ci grida a piena voce: “Welcome to Hel”.
Un ottimo disco, che illustra bene, traccia dopo traccia, quale sia la svolta stilistica dei Rotting Christ: starà ai fan apprezzare o meno questo cambiamento, ma certo è che è stato affrontato con competenza e con un buon gusto artistico e compositivo.
Ciò detto, mettetevi comodi, e lasciatevi accompagnare dai Rotting Christ a visitare il male attraverso i cinque continenti.
Ultimo aggiornamento: 22 Febbraio, 2013
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Ebbene sì cari lettori, so bene che questo è probabilmente il titolo più sorprendente che sia mai comparso su AAM, e non fatico ad immaginare lo stupore dei fans dei Darkthrone leggendo un titolo simile, quindi non vi tormento con inutili preamboli e parliamo subito di questo “The Underground Resistance”, album con cui i Darkthrone (che non hanno certo bisogno di presentazioni e che avevamo lasciato con una svolta punk decisamente poco apprezzata dai vecchi fan) si propongono –riprendendo idee, testi ed arrangiamenti scritti nel passato dei singoli musicisti- di passare in rassegna l’universo metallico nelle sue diverse correnti, passando per l’heavy metal più “rustico”, per il thrash della vecchia scuola, lo speed ed il power metal, rendendogli un omaggio sentito, anche se a volte discutibile, tanto che leggendo i commenti con cui i musicisti accompagnano le canzoni si trovano nientemeno che nomi come Uriah Heep, Iron Maiden o Helloween.
Si comincia con il bel pezzo thrash “Dead Early”: è una piacevole canzone che sa di Anthrax e Tankard, un thrash ritmato e di gusto, ma in cui voce e suoni ci riportano alla mente i cari vecchi Venom. Non lasciatevi stupire da questo pezzo, o crollerete tramortiti nel sentire la successiva “Valkyrie”: l’amore di Fenriz per le tematiche vichinghe non sono certo un mistero (e chi apprezza il suo side-project Isengard lo sa bene), ma certo non immaginavo che avrei sentito in questa canzone gli oscuri signori Darkthrone misurarsi con un pezzo puramente power metal, suggestivo e romantico nell’intro, in cui subentra una ritmica veloce con voce alta ed acuta. Un classico pezzo power, ma con i suoni sporchi e seminali del black o del thrash da cantina; insomma: immaginate di registrare i Blind Guardian con un vecchio mangianastri casalingo (e ahimè, non è questo un caso isolato nel disco).
Fortunatamente non mancano brani come “Lesser Men” e “Come Warfare, The Entire Doom”, in cui i Darkthrone ci fanno ricordare chi erano, chi sono stati e cosa hanno significato, anche se scelgono di farlo non ritornando alla musica che li ha resi famosi, ma con canzoni che sono tutta vecchia scuola, in parte ancora influenzate dall’heavy metal più grezzo e buio, e che strizzano l’occhio a Venom ed Hellhammer. Verrebbe da pensare lo stesso anche della successiva “The Ones You Left Behind”, ma solo finché durano le schitarrate e le ritmiche ostinate dell’intro: non so che effetto volessero dare le voci che entrano all’unisono, forse una simile linea vocale doveva conferire al pezzo una qualche idea di solennità ed epica magnificenza. Bè, se è così non ci sono riusciti, rendendo solo una fastidiosa ed imbarazzante cantilena, a cui si aggiungono altri acuti che saltano fuori un paio di volte. Fenriz scrive di questa canzone che è l’omaggio fatto all’heavy metal degli anni ’80, ma pur apprezzando un più che lodevole intento, mi spiace doverlo considerare uno dei punti più bassi dell’album.
Pur partendo ancora una volta con acuti dichiaratamente power (e non mi sento di fare confronti con veri cantanti della scena power metal) “Leave No Crosso Unturned” risolleva notevolmente l’andamento finora deludente di questo disco, pur senza elevarlo a nessun empireo; in questa canzone, grazie anche alla durata di quasi un quarto d’ora, troviamo un po’ di tutto: dal thrash metal delle origini, alle schitarrate dell’heavy metal tradizionale, alle cavalcate dello speed tanto apprezzato da Fenriz e Nocturno Culto, offrendo così diversi momenti di ottimo gusto musicale, e trattandosi di un omaggio al passato non si può storcere il naso nel considerare certe idee e soluzioni musicali “datate”.
E con questa si conclude un disco di sole sei tracce (si potrebbe quasi dire un EP), un disco che dovrebbe essere un omaggio al metallo degli anni ’80, alla NWOBHM, a quei generi che abbiamo già citato, ma un omaggio che suona male e registrato peggio: possono coesistere le registrazioni casalinghe del black metal più oscuro e primordiale con uno stile che guarda agli Helloween e agli Uriah Heep (ripetendo le influenze dichiarate dagli stessi Fenriz e Nocturno Culto)? Secondo me no. Per quanto sia apprezzabile l’intento dei Darkthrone, non posso promuovere il risultato.
In conclusione, se voi amanti della scena black, mi domandate se sia il caso di comprare questo disco, rispondo che può essere consigliabile solo se siete inguaribili collezionisti dei Darkthrone, in caso contrario consiglio invece molto caldamente di risparmiare i soldi per supportare invece la scena locale, sempre più numerosa e fertile e sempre più bistrattata, che ha così tanto da dire e così poche risorse per farlo.
Ultimo aggiornamento: 18 Febbraio, 2013
Top 50 Opinionisti -
Torniamo a parlare della nera fiamma con i Bornholm, band symphonic black metal ungherese, e con il loro “Inexorable Defiance”. L’aspetto con cui si presenta rappresenta un inizio zoppicante per via della copertina; molto bella, per carità, ma oggigiorno il metal ha delle esigenze, visto il numero di band che affollano (e spesso inflazionano) il panorama musicale, e ad una band per distinguersi non basta più essere brava: proprio perché di bravi musicisti il mondo è pieno e perché oggi, in fondo, per registrare un buon disco, basta anche un computer e saper usare il programma giusto, per emergere è necessario dimostrare anche la giusta fantasia, quell’innovazione capace di colpire di più il pubblico. E visto che io credo che la parola d’ordine oggi debba essere “fantasia”, che comincio questa recensione criticando la copertina, che sarebbe molto bella, se solo il logo non fosse quello dei Gorgoroth e l’artwork non ricordasse molto quello del loro “Ad Majorem Sathanas Gloriam” (album addirittura storico e celeberrimo dei Gorgoroth).
Come un libro però, un disco non si giudica dalla copertina, quindi dedichiamoci alla musica, che invece di critiche ne merita ben poche. Un’introduttiva e strumentale “Fear of Wonders” apre la prima “Swordbearer”, canzone che apre uno splendido esempio di symphonic black metal chiaramente maturato sui suoni della frangia pagana ed evocativa del black, grazie anche a suggestive parti corali che accompagnano le correnti di tastiere e le urla di uno scream deciso e pungente.
Anche le chitarre meritano un sincero apprezzamento: colpiscono soprattutto nella successiva “Flaming Pride and Inexorable Defiance” che si apre con un arpeggio senza distorsione di ottimo gusto per proseguire con un intercalare lento e meditativo anche nel subentrare della voce e della distorsione delle chitarre. Con un incedere calmo ma determinato si compone un’ottima canzone, che marcia chiara nel suo andamento, peccato soltanto la brevità (appena 2 minuti). Brani simili (come anche la strumentale e suggestiva “Archaic Pale Visions”), arricchiti da una precisa componente contemplativa, sono, se non necessari, quantomeno appropriati per chi come i Bornholm si propone di fare un black teso ad un mondo antico e perduto intriso di lotta e di misticismo pagano, ma l’equilibrio del disco è dato dalla presenza di canzoni come “Walk On Pagan Ways”, che sa armonizzare l’aspetto epico con la fondamentale matrice carica di forza ed energia, ricordando quasi una fusione tra i Bathory di “Hammerheart” e la tradizione degli Immortal (non è necessario infatti guardare soltanto al loro splendido “At The Heart Of Winter”).
Questo particolare aspetto emerge per quasi tutto il disco, testimoniando una perfetta alchimia d’intenti tra i membri del gruppo nel trasmettere un’idea musicale ben precisa, ma non mancano le influenze death: la canzone “Throne of Crows” infatti non riporta alla mente solo l’ottima lezione dei Windir, ma in più punti le melodie elaborate nel bel dialogo tra chitarre e tastiere ricordano le armonizzazioni di gruppi come gli Hipocrisy su tutti, così come le ritmiche e gli articolati passaggi di chitarra di “The Spiral Path” possono far pensare a band come i Kalmah.
L’epicità che possiamo trovare in questo disco però non è soltanto un elemento di contorno (nonostante non vi siano ampie parti di tastiera ad emergere con orchestrazioni o cavalcate in battaglia), ma un aspetto che percorre il concept canzone dopo canzone: lo confermano bene “Moonlight Wanderer” e la successiva “Equinox”, capaci di riportarci in sella lungo gelide lande di un tempo passato, con la lancia in pugno e il cuore teso al prossimo scontro. È con “Fiery Golden Dawn” però che l’aspetto epico raggiunge il suo vertice più alto, proprio per via di parti di tastiera che qui si fanno più ricche ed imponenti e dei cori che in parte le accompagnano sontuosamente.
Avviandoci alla fine, come qualunque saga vichinga che si rispetti, siamo condotti al cospetto del Valhalla con la strumentale “Towards the Golden Halls”: un’introduzione mistica e sinceramente emozionante apre una sfuriata di doppio pedale in cui questa rimane come un sottofondo che ci accompagna per tutta la breve, ma intensa durata della traccia, per poi chiudere con “Feast of Fire”, una canzone dai tempi veloci e decisi proprio come il pugno che porta nel nome; la degna conclusione, rapida e cattiva, ma che non rinnega nulla del lato melodico e suggestivo della composizione che abbiamo ascoltato finora, per un disco che regalerà molto agli amanti di un genere che, soprattutto negli ultimi anni, si sta arricchendo di nuovi fans, e il consiglio per chi, come me, ha apprezzato “March of the Norse” di Demonaz al suo esordio da solista, è quello di ricercare gli ungheresi Bornholm e questo loro “Inexorable Defiance”: troveranno un disco e una band degni di ammirazione e considerazione!
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