Opinione scritta da Virgilio
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Ultimo aggiornamento: 13 Novembre, 2023
Top 10 opinionisti -
Gli Elegy of Madness si sono costruiti nel corso degli anni una solida reputazione nell'ambito del Symphonic Metal realizzando ottimi album, da ultimo con il bellissimo "Invisible World" pubblicato nel 2020 e con il successivo DVD live "Invisible World Live at Fusco Theater". A questa release, tuttavia, è seguita a quanto pare una sorta di rivoluzione in seno al gruppo: innanzitutto a livello di formazione, dato che hanno lasciato la band la cantante Anja Irullo (praticamente una dei membri fondatori) e il violoncellista Luca Basile; anche a livello stilistico, in realtà, si assiste in effetti a significativi cambiamenti. In particolare, vengono tralasciati gli elementi più affini alla musica classica, propendendo per un sound decisamente più moderno, con diversi inserti elettronici, che ci fanno pensare a varie band scandinave come ad esempio i Sirenia. Le orchestrazioni, naturalmente, non vengono abbandonate ma assumono un aspetto differente, fungendo più da accompagnamento ed arricchimento della parte Metal, che non come una vera e propria componente a sé stante. In certi casi il sound si fa decisamente più aggressivo, con seconde voci in growl e passaggi quasi tendenti al Death: risulta magari meno evidente tale cambiamento in qualche brano come "Broken Soul" (in cui ci sono peraltro belle orchestrazioni curate da Francesco Ferrini dei Fleshgod Apocalypse), mentre in altri casi si fa quasi fatica a riconoscere gli Elegy Of Madness: a titolo di esempio, basti ascoltare "Hybrid Love", in cui sembra di ritrovarsi quasi in una via di mezzo tra i Rammstein e gli Amaranthe, o "Portrait of a Ghost", in cui le atmosfere horror/dark ci hanno fatto pensare, tra gli altri, ai Deathless Legacy. Per questa svolta è stata molto azzeccata la scelta della nuova cantante, la siciliana Chiara Di Mare, in arte Kyrah Aylin, che si dimostra senz'altro all'altezza del compito, spaziando con estrema disinvoltura tra un cantato ora deciso, ora suadente oppure lirico. In linea di massima, al di là di un paio di brevi strumentali o di una sorta di ballata come "Moon", le canzoni riescono ad essere tutte (o quasi) molto accattivanti ma, come spesso accade in questi casi, "XI" ci dà l'impressione di essere un disco un po' interlocutorio, come se la band volesse andare in una certa direzione, ma non volesse allo stesso tempo snaturare troppo repentinamente quello che è stato il loro stile per tanti anni. Peraltro, ci sembra che, in effetti, come evidenziato, la formazione tarantina si avvicini parecchio ad un filone molto nordeuropeo, sacrificando un po' alcuni dei tratti distintivi che avevano sempre caratterizzato la loro musica: non escludiamo che la band, con questa mossa, potrebbe conquistare nuovi fan, ma potrebbe al contempo, in qualche misura, deludere chi li aveva finora seguiti. Vedremo dunque quale sarà la direzione che vorrà intraprendere la formazione pugliese: di certo, la nostra impressione è che, con questa sua nuova incarnazione, si possa presentare molto bene in ambito internazionale, anche se sarà fondamentale, per il futuro, sforzarsi ulteriormente per ottenere una proposta leggermente più personale, che comunque, sia pure a sprazzi, sembra già emergere in "XI".
Ultimo aggiornamento: 14 Ottobre, 2023
Top 10 opinionisti -
I Grymheart sono una nuova band ungherese fondata da Gabriel Blacksmith, alias Gabriel Kovács, chitarrista degli apprezzati Wisdom, che qui si cimenta anche dietro ai microfoni come cantante. Lo stile si muove tra Melodic Death (con growl vocals, ovviamente) e Power Metal, e potrebbe ricordare molto i Children of Bodom, ma ci sono anche elementi Folk scandinavi, talvolta con intermezzi di chitarre acustiche arpeggiate (anzi, già l'iniziale "The Twilight Coming" è una breve strumentale eseguita in questo modo), talvolta ispirati pure alla tradizione musicale magiara. I testi sono tutti rivolti alla caccia di mostri vari, sia della mitologia medievale europea (compresa quella norrena), sia della letteratura e cinematografia più recente, con riferimenti a personaggi come Van Helsing e Solomon Kane. Si riscontra una grande attenzione per le melodie e in effetti i ritornelli dei brani riescono ad essere catchy fin dai primissimi ascolti. Diciamo che nella musica dei Grymheart non si ravvisano grandissime invenzioni e particolare originalità, però Gabriel e compagni hanno voluto delimitare un margine e degli schemi entro cui muoversi, sia a livello musicale che concettuale e, tutto sommato, all'interno di essi, i brani funzionano e riescono ad essere abbastanza accattivanti. Certo, magari questa scelta non paga alla lunga, nel senso che, dopo ripetuti ascolti, non si riscontra grande varietà: peraltro, non aiuta, in tal senso, il fatto che le tracce siano perlopiù caratterizzate da ritmi e riff molto veloci, con la voce che tende ad essere alquanto monotona. C'è comunque anche qualche traccia più cadenzata, come nel caso di "Army From The Graves" o della più varia e articolata "Monsters Among Us", che supera abbondantemente gli otto minuti di durata. "Hellish Hunt" è comunque, in fin dei conti, un disco che si fa ascoltare con piacere, non particolarmente impegnativo od originale, ma con diverse buone canzoni, per cui possiamo senz'altro valutare positivamente questo debutto dei Grymheart.
Ultimo aggiornamento: 06 Ottobre, 2023
Top 10 opinionisti -
Piet Sielck, com'e noto, si trova suo malgrado costretto ad affrontare un'importante battaglia a causa di seri problemi di salute, ma nonostante ciò è riuscito a pubblicare comunque un nuovo album con i suoi Iron Savior. Naturalmente, la band tedesca si mantiene fedele al suo classico stile, ma bisogna riconoscere come questa abbia saputo traghettare ai giorni nostri il suo tipico Power Metal tedesco in maniera assolutamente convincente, riuscendo in un certo senso a proporre una propria versione rielaborata in chiave contemporanea di questo genere, con influenze specialmente derivate dagli anni '90, pensando a punti di riferimento come Gamma Ray, Blind Guardian, Rage ecc., Sielck e compagni ritornano obiettivamente con un disco molto solido e di grande impatto, che peraltro parte molto bene con una traccia davvero ben riuscita come "Curse Of The Machinery" (non tenendo conto della solita breve intro, stavolta intitolata "The Titan"). Peraltro, come ha raccontato lo stesso Sielck, in realtà sono stati aggiunti tre brani all'ultimo momento quando il disco era di fatto praticamente pronto e questi, a suo dire, avrebbero fatto compiere un significativo salto di qualità al full-length: non sono effettivamente male due pezzi alquanto anthemici, ovvero "In The Realm Of Heavy Metal" e "Together As One" (per essere più precisi, quest'ultimo, più che essere stato scritto alla fine è stato sensibilmente modificato), mentre per la verità non ci ha entusiasmato la title-track, la tipica traccia Power/Speed un po' monotona che punta più che altro sulla velocità, con la doppia cassa tiratissima e un numero di battute quasi impossibili da contare. La band ci convince invece decisamente di più su pezzi meglio strutturati ed equilibrati (spesso d'ispirazione sci-fi, come da tradizione del gruppo tedesco), caratterizzati da riff decisi, nonché dalla voce roca di Sielck, spesso accompagnata da cori imponenti, come le bellissime "Demise Of The Tyrant" e "Mask, Cloak And Sword" o la più melodica (quasi nostalgica) "Nothing Is Forever". Non male, anche se magari un po' melensa "Through The Fires Of Hell" (dedicata da Sielck alla moglie), mentre non ci entusiasma alla lunga il mid-tempo di "Across The Wastelands". Nel complesso, comunque, questo "Firestar" non ci dispiace affatto: magari non è un capolavoro, ma è davvero un buon disco di Power Metal vecchia maniera, con una produzione eccellente e delle ottime performance da parte di tutti i musicisti. Non possiamo dunque che salutare con piacere questo comeback degli Iron Savior e augurare a Piet Sielck, parafrasando il testo di "Through The Fires Of Hell", di tornare quanto prima dall'Inferno, più forte e in forma che mai.
Ultimo aggiornamento: 25 Settembre, 2023
Top 10 opinionisti -
In vent'anni di carriera i Baroness hanno dimostrato di essere un gruppo in un certo senso fuori dagli schemi, dato che il quartetto statunitense si è sempre sforzato di proporre uno stile personale, mai scontato, con l'intento di non ripetersi mai e di esplorare sempre nuovi territori sonori. Possiamo dire che su questa scia è anche questo loro sesto album, intitolato "Stone": stavolta, non si riscontra, per la verità, un significativo stravolgimento rispetto al precedente full-length, "Gold & Grey" del 2019, ma di certo questo nuovo lavoro denota comunque la voglia di mantenere un proprio trademark sonoro senza però per questo voler replicare pedissequamente quanto già proposto in passato. Per la preparazione del disco, la band si è rifugiata per un mese in una località isolata in mezzo ai boschi, in modo da concentrarsi sulla sintonia tra i quattro membri e la coesione del suono, curando sul posto direttamente la registrazione e la pre-produzione dei brani. Il risultato è uno stile molto vario, che spazia dalle reminiscenze Sludge a sfuriate Hard Rock, tra atmosfere psichedeliche ed eterei passaggi acustici, tra performance veloci ed aggressive e momenti sognanti e delicati. Tra i piatti forti del disco menzioniamo tracce come "Last Word", "Beneath The Rose", il crescendo di "Magnolia", le brillanti variazioni di "Shine" e gli instabili umori di "Under The Wheel". Ci sono anche un paio di brevi brani acustici, molto soft ma che a nostro avviso non aggiungono in realtà nulla di significativo a livello emozionale (come forse doveva essere invece negli intenti della band), ovvero "The Dirge" e la conclusiva "Bloom"; e poi, ancora, in tutta sincerità, non ci ha entusiasmato particolarmente neppure l'approccio vocale di "Choir". A conti fatti, comunque, i Baroness confermano tutte le proprie qualità, realizzando un disco con diverse belle canzoni, sicuramente molto spontaneo e diretto (anche per il modo in cui è stato realizzato) e in grado di toccare le corde dell'ascoltatore, affrontando con la propria musica un ampio spettro di suoni e di emozioni: un aspetto, questo, che li ha resi sempre molto amati dal pubblico e dalla critica e che si conferma essere uno dei punti di forza della band.
Ultimo aggiornamento: 17 Settembre, 2023
Top 10 opinionisti -
L'idea alla base della formazione degli Oblivion Protocol nasce quando Richard West, storico tastierista dei Threshold, pensa che sarebbe interessante dare un seguito al concept del loro album "Legend Of The Shires", pubblicato nel 2017. La proposta lascia però alquanto tiepidi gli altri compagni di band, così West continua a scrivere comunque materiale, finché alla fine, quando è pronto, decide di fondare appositamente un nuovo progetto. Ad accompagnarlo, troviamo altri musicisti di spessore, quali Ruud Jolie (Within Temptation) alle chitarre, Simon Andersson (Darkwater) al basso e Darby Todd (Devin Townsend) alla batteria, ma anche il suo compagno nei Threshold, Karl Groom, dà il suo contributo con alcuni assoli. Questo nuovo concept album, ambientato in un mondo distopico, rimanda un po' ad altri concept come "Operation: Mindcrime" dei Queensryche o i due, più recenti, "Dystopia" dei Royal Hunt o, ancora, a "The Wall" dei Pink Floyd: anzi, in particolare, sono evidenti le influenze di questi ultimi, soprattutto del periodo settantiano, oltre che ovviamente della band madre, i Threshold, dato che era quasi scontato e ovvio che, trattandosi proprio del seguito di un album della formazione britannica, dovesse esserci qualche legame a livello stilistico. Ci sono però anche significative differenze dovute al fatto che, in questo lavoro, non canta Glynn Morgan, bensì lo stesso West: la sua voce è infatti più bassa e meno potente rispetto a quella del cantante dei Threshold, perciò questi ha optato per sonorità con accordature ribassate per le chitarre e un approccio molto atmosferico del sound. Le canzoni non sono dunque, in generale, particolarmente veloci e ci sono tanti tappeti di tastiere ad accompagnare le voci, ma il sound, per quanto un po' dark, riesce ad essere alquanto moderno e anche potente, grazie a riff decisamente metal, che non sono magari preponderanti nel disco, ma certamente sono ben presenti. Come abbiamo evidenziato, si tratta di un concept molto strutturato, costruito intorno alla trama, che richiede all'ascoltatore di immergersi in un autentico viaggio sonoro, calandosi tra gli intrecci costruiti da West e compagni, in un continuo susseguirsi di rimandi e richiami, come dimostra già molto semplicemente la 'pinkfloydiana' "The Fall", suddivisa in due parti, collocate rispettivamente in apertura e chiusura dell'album. C'è comunque ampio spazio per affascinanti divagazioni strumentali, tanto che il disco è davvero ricco di squisiti assoli, sia di chitarra che di tastiere, che non rappresentano un mero sfoggio di tecnica, quanto piuttosto un ulteriore modo per amplificare ulteriormente l'aspetto emozionale che il lavoro è in grado di trasmettere: in tal senso, del resto, i Threshold sono assolutamente maestri e il fatto di ritrovare West in alcuni casi insieme a Groom è assoluta garanzia di qualità e di risultati. Alcuni brani partono comunque un po' in sordina, tra voci soffuse ed effetti elettronici, come "Storm Warning" e "Vertigo", per poi andare in crescendo oppure, viceversa, con inizi potenti e di grande effetto, come nel caso di "Forests In The Fallout"; si riscontra, inoltre, una certa cura per le melodie (tra i refrain più azzeccati c'è quello di "Public Safety Broadcast") ma, quali che siano le scelte, "The Fall Of The Shires" è un album da gustare nella sua interezza, nella sua totalità. Magari la voce di West non è proprio ideale in alcuni brani, specialmente nei pezzi più ritmati, ma tutto sommato possiamo dire che il disco è ben riuscito e riesce davvero a conquistare l'attenzione per tutta la sua durata. Ci viene da pensare, vista la qualità dei brani, che forse è un peccato in effetti che il lavoro non sia stato curato direttamente dai Threshold, però anche gli Oblivion Protocol se la sono cavati egregiamente, perciò auspichiamo che non si sia trattato di un progetto effimero ed episodico, ma che al contrario possa esserci un seguito anche per questa formazione.
Ultimo aggiornamento: 09 Settembre, 2023
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"Memorial" è il titolo scelto dai Soen per questo loro sesto studio album. Dal punto di vista stilistico, la band svedese prosegue con la direzione intrapresa con il precedente "Imperial": il Progressive Metal presente nei primi lavori è ormai un lontano ricordo, così come i riferimenti ai Tool, a favore di un sound tendenzialmente più Metal, dotato di un certo groove, senza rinunciare ad una componente melodica e ad intermezzi fortemente atmosferici. Uno stile in qualche modo più semplificato ma, come evidenziato, con caratteristiche ben precise, che in qualche misura ci ha fatto pensare al percorso intrapreso, sia pure con diversi punti di partenza, da un'altra band svedese come gli Evergrey (in qualche brano, come ad esempio "Violence", anzi, ce li ricordano non poco). Detto questo, sembra che i Soen abbiano trovato una dimensione ottimale per dare espressione alla propria musica: il quintetto svedese, infatti, riesce ad essere subito diretto, ma riesce ad essere al contempo aggressivo e in grado di emozionare. Sotto quest'ultimo profilo, gioca un ruolo molto importante la voce di Joel Ekelöf, molto versatile ed espressiva, ma anche Cody Ford, pronto con la sua chitarra a lanciarsi in assoli carichi di feeling o, al contrario, all'occorrenza, ad essere deciso e grintoso, senza trascurare gli inserti di piano e tastiere di Lars Enok Åhlund, che riescono ad essere davvero molto efficaci. Qualche brano è tendenzialmente più atmosferico o va in crescendo, come nel caso di "Tragedian", "Vitals" o "Hollowed", un pezzo dove peraltro Ekelöf duetta con la nostra connazionale Elisa; in qualche altra traccia, invece, viene esaltato l'aspetto melodico, come per "Unbreakable" (un pezzo quasi radiofonico) o per la title-track. In generale, "Memorial" è davvero un bel disco, dove tutti gli elementi del sound della band svedese sono ben equilibrati e sapientemente bilanciati tra loro: i Soen sanno colpire duro e sanno emozionare, ma soprattutto dimostrano carattere e personalità, tutte qualità che vanno senz'altro riconosciute a questa formazione, da seguire con sempre maggiore interesse.
Ultimo aggiornamento: 28 Agosto, 2023
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I Course Of Fate avevano pubblicato il loro primo full-length, "Mindweaver", nel 2020 (nonostante si fossero già formati nel 2003): un buon disco di Progressive Metal, che li aveva subito messi in evidenza per le loro qualità e per la loro capacità di suonare in modo tecnico ma allo stesso tempo preoccupandosi di trasmettere emozioni con la propria musica. Con questo follower, "Somnium", risulta subito evidente come la band intenda proseguire su questa scia: l'opener "Prelude" è una breve intro strumentale, molto atmosferica ma che prende ad un certo punto ritmo, per introdurre la successiva "Morpheus' Dream", forse la traccia più pesante del disco, che presenta altresì una ritmica complessa, senza comunque rinunciare alle melodie. La tracklist si sviluppa dunque seguendo queste coordinate stilistiche, talvolta magari dando maggiore enfasi all'aspetto atmosferico (ad esempio in "Rememberance" o nella pianistica "Echoes") oppure, per contro, con sonorità più decise, come nel caso di "Valkyries". La summa un po' di tutti questi elementi è rappresentata dalla conclusiva "...of Ruins", caratterizzata da passaggi duri, intermezzi soffusi e cori magnioquenti, che si incastrano tra loro creando momenti di grande impatto emotivo. Diciamo che i Course Of Fate confermano le loro qualità in termini di sound e di capacità di strutturare i brani: certo, un valore aggiunto sarebbe stato quello di mostrare un pizzico di genialità, magari quel qualcosa in più che possa far emergere in modo particolare un brano o che possa far sobbalzare l'ascoltatore dalla sedia, ma che invece a nostro avviso un po' manca. Al di là di questo, il lavoro in questione è sicuramente un buon album, consigliato in modo particolare agli amanti del Prog Metal. Da evidenziare come questo sia l'ultimo disco con Daniel Nygaard al basso, prematuramente scomparso qualche mese fa. A lui, è giustamente dedicato "Somnium".
Ultimo aggiornamento: 25 Agosto, 2023
Top 10 opinionisti -
I Red Cain giungono al loro terzo full-length, dopo i due concept intitolati "Kindred", rispettivamente del 2019 e del 2021, stavolta la formazione canadese si tuffa, con questo nuovo "Näe'bliss", nell'universo narrativo de "La Ruota del Tempo" ("The Wheel of Time", una saga di romanzi fantasy scritta da Robert Jordan, recentemente trasposta in Serie TV da Prime Video). Per seguire la trama è dunque necessario avere un minimo di dimestichezza con la serie (che, peraltro, come si ricorderà, è stata fonte d'ispirazione anche per altre band, come i Blind Guardian), ma a livello musicale il gruppo di Calgary si sforza di ricreare determinate atmosfere con un sound potente, molto curato e aperto a varie influenze. Le prime quattro tracce partono subito fortissimo, con elementi Progressive Metal (Tesseract, Pain Of Salvation, Pagan's Mind), ma anche Death Metal, Djent e Metalcore, a tratti con una vena vagamente malinconica alla Insomnium e qualche inserto elettronico. I brani, per quanto non eccessivamente lunghi, presentano una certa varietà tematica e complessità nei tempi, con risultati alquanto apprezzabili. Convicono un po' meno invece tre brevi tracce a seguire, ovvero la strumentale "Sightblinder" e l'accoppiata "The Man Who Can't Forget (Part I)"/"Crane of Malkier". Risolleva senza dubbio le sorti del disco la suite conclusiva "Fires of Heaven", una bella traccia di oltre otto minuti di durata, dove danno il proprio contributo dietro ai microfoni la bassista Kalie Yan e il cantante James Delbridge (vocalist di un'altra band canadese, i Lyrchantro), che con la propria voce pulita e bassa, rende molto bene all'interno del brano. La sensazione che ci lascia "Näe'bliss", sinceramente, è quella di un disco un po' incompleto, che si addentra in una saga complessa e sterminata, che sembra però pretendere di liquidare nell'arco di pochi brani, peraltro con una durata anche piuttosto ridotta (anche se coerente con quella degli album precedenti), per cui magari ci saremmo aspettati un piccolo sforzo per inserire almeno un paio di tracce in più. Certamente, alcuni momenti del disco fanno pensare davvero ad un lavoro di alto livello, che però, come evidenziato, tende a calare prima del gran finale affidato a "Fires Of Heaven". Diciamo che questo full-length avrebbe potuto confermare le ottime qualità della formazione canadese, che certamente emergono da alcune tracce, ma che nel complesso non sembra trovare piena ed ottimale espressione. Vedremo se la band deciderà di proseguire in futuro con queste tematiche: per adesso, la nostra sensazione è che possibilmente la fretta di tornare sul mercato potrebbe aver fatto perdere un po' di potenziale ad un lavoro che sembrava presentarsi davvero con ottime premesse.
Ultimo aggiornamento: 28 Luglio, 2023
Top 10 opinionisti -
Dopo quarantatré anni nei Grave Digger, il cantante Chris Boltendahl decide che è giunto il momento di provare a cimentarsi anche in qualcos'altro e fonda così questa nuova band, coadiuvato dal chitarrista Tobias Kersting (ex-Orden Ogan), con il quale ha scritto dieci canzoni. La line-up è completata da un altro ex-Orden Ogan, il bassista Lars Schneider, e dal batterista Patrick Klose (Iron Savior). Naturalmente, la voce caratteristica di Boltendahl è riconoscibilissima e inevitabilmente fa pensare alla sua band principale, per quanto il loro stile, oltre che proporre un tipico Power tedesco, accolga anche elementi di Heavy classico, con influenze da parte di gruppi storici come Metal Church o Saxon. Diciamo anzi che la tracklist alterna appunto pezzi di Power veloce, con tanto di doppia cassa martellante, come la title-track e "Die For Your Sins", con altri più cadenzati, caratterizzati da riff rocciosi, come "Gods Of Steel" o "Let The Evil Rise". In verità, non tutti i brani risultano particolarmente ispirati e magari non presentano neppure refrain particolarmente accattivanti, per quanto resti sempre ottimo il lavoro svolto da Kersting e dagli altri musicisti; non male la cover di "Beds Are Burning", posta in chiusura, un brano storico dei rocker australiani Midnight Oil. In conclusione, non possiamo dire che questo nuovo progetto di Chris Boltendahl sia imprescindibile né che contenga episodi davvero memorabili (tra gli highlight possiamo comunque senz'altro menzionare almeno la title-track, "Beyond The Black Souls" o la stessa "Gods Of Steel"). Se con "Reborn In Flames" si speri di trovare un nuovo capolavoro di Power Metal, si corre il rischio di rimanere un po' delusi: con la giusta dose di aspettative, invece (cioè né troppo alte né troppo basse), può rappresentare un piacevole ascolto, tanto più che si tratta di un disco realizzato indubbiamente con assodata professionalità e grande esperienza.
Ultimo aggiornamento: 21 Luglio, 2023
Top 10 opinionisti -
I Severed Angel sono una nuova band americana, che debutta pochi mesi dopo la sua formazione con questo primo omonimo full-length. Il quintetto statunitense propone fondamentalmente un classico Metal melodico, che però è aperto a diverse influenze, provenienti soprattutto dal Power, dal Prog, dal Thrash e dal Melodic Death. Nel loro sound rivestono peraltro un ruolo importante le tastiere di Marc Muchnik, che si muovono con disinvoltura tra virtuosismi, tappeti e divagazioni strumentali, contribuendo parecchio ad arricchire il loro stile. La voce opta principalmente per tonalità alte e anzi talvolta sembra fare quasi un po' fatica su quelle un po' più basse (non arriviamo a dire che stoni, però non è neppure il massimo), ma ci sono anche di tanto in tanto inserti in growl che fanno pensare un po' a band come i Soilwork. Alcune tracce, come "Wide Awake In Screamland" o "Number 8", presentano forti influenze dei Megadeth, mentre la componente Prog emerge in modo particolare nella trilogia, suddivisa in tre tracce, composta da "Severed Angel", "A New Beninning" e "With Wings Anew", (le prime due tendenzialmente più soft, quasi delle ballate, mentre l'ultima da sola supera i sette minuti di durata). Nel finale, viene proposta anche una cover, ovvero "Square Hammer" dei Ghost. Diciamo che la nostra impressione è che la band non sia ancora riuscita a trovare una formula ottimale per rielaborare le proprie influenze in un sound più personale, tale da contraddistinguerla in maniera decisa, però i Severed Angel sembrano essere già sulla buona strada e possiamo considerare questo loro primo album un debutto niente male.
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