Opinione scritta da Chiara
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Top 50 Opinionisti -
Attivi dal 2008, i Division Speed hanno pubblicato nel 2015 il loro primo omonimo full length. La formazione tedesca non è nuova agli appassionati di speed/thrash old school, perché non solo da quasi otto anni ha fatto sentire la sua voce tra live e demo, ma cela al suo interno ex membri di band del calibro di Venenum, Black Salvation e Nocturnal Witch.
“Division Speed” contiene buona parte di quegli split e quei pezzi che hanno fatto conoscere il sound del quartetto teutonico in tutta Europa, e le lyrics si attestano su un argomento caro ai nostri thrashers, ovvero la Seconda Guerra Mondiale: un tema che i Division Speed trattano con passione, considerandolo il simbolo della violenza assoluta e dell’aggressione allo stato puro. E anche dal punto di vista prettamente musicale il debutto dei DS è interessante, soprattutto nei riff brillanti di “Snowstorm Over Narvik” e “Black Wolves”. Ma per il resto il disco si attesta sugli stilemi tipici della vecchia scuola thrash tedesca senza regalarci chissà quali scossoni.
Nonostante siano degli ottimi esecutori di fama internazionale, ai Division Speed manca il tocco distintivo rispetto ad altre band del genere. Riusciranno in futuro a scavarsi una propria nicchia e a modellarsi una propria identità su misura? Solo il tempo potrà dirlo...
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Gli Hell:On sono davvero degli ossi duri. In circolazione da una decina di anni, pubblicano nel 2015 il loro quinto full-length, intitolato “Once Upon A Chaos...”. E in questo modo, la band death/thrash metal originaria dell’Ucraina, apre una nuova parentesi della sua storia, introducendo nel sound granitico che li contraddistingue strumenti inusuali come la cornamusa e il sitar, oltre che a vantare un’ospitata di Andreas Kisser dei Sepultura in “Salvation in Death”.
Solo otto brani compongono la più recente fatica in studio dei nostri, ma la band capitanata da Alexander Baev dilata i tempi avvolgendo l’ascoltatore nelle spire del suo chaos death metal segnato da uno screaming potente fin dalla opener “Filth”. Uno dei momenti più interessanti è “Curse of Flesh”, che presenta un ottimo blast beat e ancora più incisivi vocals gutturali. La chiusura spetta al vortice death di “I’m God”, un delirio di ben sette minuti di durata. Ed è proprio questo il punto debole di “Once Upon A Chaos...”, ovvero l’eccessiva lunghezza dei pezzi, che a volte mette a dura prova anche i timpani più allenati. D’altro canto invece, il punto di forza del quinto lavoro degli Hell:On sono gli assoli di sei corde, taglienti e precisi, come dimostra la già citata “I’m God”.
La strada intrapresa dagli Hell:On è quella giusta, ma non di certo priva di insidie: prossimamente ci aspettiamo che le innovazioni appena accennate in “Once Upon A Chaos...”, vengano sondate più a fondo, smussando gli angoli di sonorità sicuramente già collaudate, ma ancora troppo legate al passato.
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Come potrà mai suonare un mix tra Avenged Sevenfold, Black Veil Brides e Linkin Park? La risposta è come i Groundless, band norvegese a cavallo tra melodic groove metal e hard rock, alle prese con il primo lavoro in studio, intitolato “Adrenaline”. Nulla di rivoluzionario quindi, ma un ascolto fresco e piacevole.
La qualità è una delle caratteristiche dei quindici pezzi che compongono “Adrenaline”, grazie al buon equilibrio tra refrain catchy e accattivanti, riff potenti, e una dose non indifferente di melodia. Si inizia subito con il turbo e il sound heavy della opener “Break Out”, procedendo su questa rotta fino a “Eight and a 3rd”, che cambia registro con una ballad dal sapore dark ed emozionante, con tanto di violoncello in sottofondo. Con la title track però si torna immediatamente allo stesso spirito heavy con cui l’album esordisce, per poi rallentare ancora una volta con il mid-tempo di “Once Again”.
Insomma, questi Groundless sono da tenere d’occhio. Solo il tempo dirà se, dalle ottime influenze da cui partono, riusciranno a costruirsi un’identità solida e riconoscibile tra molte altre giovani bands che stanno cercando di emergere dal panorama melodic groove metal, scandinavo e non solo.
Gli In Malice’s Wake sono un nome noto e apprezzato da tutti i cultori della cosiddetta New Wave of Thrash Metal. E anche “The Thrashening”, seconda fatica datata 2011 dei thrashers australiani, è una vecchia conoscenza per gli appassionati del genere, riproposta dalla Punishment 18 Records (insieme a “Eternal Nightfall” del 2008) in un’ottica di rilancio della storica band.
In “The Thrashening” lo stile vecchia scuola alla Bay Area riprende vita in un mix letale e ben bilanciato. Iniziando dai vocals di Shaun Farrugia, che spesso e volentieri ricordano molto da vicino la voce del potente Chuck Billy (per chi non lo sapesse, il frontman dei Testament), passando per la tipica aggressività alla Slayer (vedi “Fuel For The Fire”) e alle lyrics intrise di denuncia e impegno politico tanto care ai Megadeth di Mustaine e soci (“Join Us and Fight”). E in tutto questo trova anche spazio un bel sing-along energico e muscolare in apertura del disco con “Endless Possession”.
Nel complesso “The Thrashening” non vede cali di tensione, né tantomeno di qualità per tutta la durata del disco. L’ottima produzione, bilanciata con cura maniacale, lascia respiro in egual misura a tutti gli strumenti, permettendo di godere di tutte le sfumature. La ristampa della seconda creatura degli In Malice’s Wake è quindi una buona scusa per accaparrarsi un lavoro che deve essere assolutamente presente nella collezione di ogni thrasher (giovane o meno giovane) che si rispetti.
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Come recita il vocalist Eddie Hermida poco prima di attaccare con il suo screaming devastante, “Sacred Words” è una canzone dedicata ai genitori e ai parenti dei fan dei Suicide Silence che fanno sentire i figli veramente a casa solo al concerto dei loro beniamini. È quindi una canzone pregna di significato e importante, che merita un EP (quasi) tutto per sé.
“Sacred Words”, rilasciato esclusivamente in digitale, contiene oltre a diverse versioni del sopracitato singolo estratto da “You Can’t Stop Me”, quarto album della formazione deathcore che ha conosciuto un gran successo lo scorso anno, anche un paio di altri pezzi presenti nel suddetto full-length registrati durante l’esibizione della band sul palco dell’ultima edizione del festival ungherese RockPart.
Le caratteristiche che traspaiono sono fondamentalmente due: la prima, peraltro già nota dopo la pubblicazione di “You Can’t Stop Me” è che il frontman Eddie Hermida, entrato in forza dopo la tragica scomparsa del suo predecessore Mitch Lucker, è un ottimo acquisto, grazie a un estensione vocale da paura, e la seconda ma non meno importante impronta distintiva della band è che trova la sua vera dimensione nel live, come testimoniano i brani presenti in “Sacred Words”, un EP per collezionisti ma anche per chi sente la necessità di un assaggio preliminare del sound dei Suicide Silence, prima di imparare ad apprezzarli nella loro interezza.
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A due anni dal fortunato “Steelcrusher”, tornano di gran carriera gli israeliani Hammercult con la terza fatica di studio, intitolata significativamente “Built For War”. Chi ha imparato ad apprezzarli con il già citato lavoro del 2013, troverà pane per i propri denti, così come chi è alla ricerca di band relativamente nuove ma dal background solido. E questa cultura musicale dei componenti della band emerge dai tredici pezzi presenti in “Built For War”, nei quali sono più che evidenti contaminazioni hardcore e heavy tradizionali che convivono nel cantato di Yakir Shochat, che passa con invidiabile nonchalance dal growl, allo screaming, al cantato pulito.
Ci troviamo di fronte quindi ad una serie di anthem thrash con qualche sfaccettatura in più rispetto alla tradizione e maggiore apertura alla melodia. Dopo l’intro marziale, si scende sul serio sul campo di battaglia con “Rise Of The Hammer”, che, come dichiarano gli stessi Hammercult utilizzando un’immagine molto colorita, “fa lo stesso effetto di scendere nella mischia in groppa ad uno degli elefanti di Annibale”. Dopo una partenza del genere, tenere il ritmo è parecchio difficile, ma i nostri riescono nell’impresa con estrema naturalezza. Ne sono un esempio la canzone-manifesto “I Live For This Shit” e l’aspra critica alla questione mediorientale di “Spoils Of War”, in cui gli assoli frenetici e il refrain dalla melodia accattivante vanno di pari passo. Non si fanno prigionieri neanche con “Let It Roar” e “Altar Of Pain”, da ascoltare cercando di sopravvivere nel mosh pit.
Gli Hammercult hanno sicuramente qualcosa da dire e lo comunicano in maniera efficace: i confini però, nonostante le influenze di altri generi, sono sempre quelli del thrash e i cinque musicisti lì si fermano. Di certo sono ben in grado di svolgere il loro sporco lavoro, ma in futuro, sarebbe interessante vederli oltrepassare questi limiti.
Ultimo aggiornamento: 19 Ottobre, 2015
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Nessuna ballad, ovvero vietato strizzare l’occhio alla melodia: “Blackmail the Nation”, l’album di esordio degli Ultimate Holocaust, è un’unica tirata thrash che non lascia neanche un attimo di tempo per tirare il fiato.
Nati nel 2010 in quel di Varese come tribute band dei Sodom, la band composta da Bianchi, Tambo e Floyd ha iniziato a prendere le distanze dal mondo delle cover nel 2012, componendo pezzi originali e costruendosi una propria fanbase grazie a una buona serie di live. “Blackmail the Nation” è il risultato di questi tre anni alla ricerca di una propria identità musicale: se da una parte il rischio di diventare cloni dei propri idoli è il prezzo da pagare a causa dell’esperienza pregressa della formazione, dall’altra gli Ultimate Holocaust compensano con una buona tecnica e un muro sonoro che colpisce come un pugno allo stomaco. Buona anche l’idea del concept album, che vede le gesta dell’agente speciale U.L.T.I.M.A.T.E. e della sua eterna lotta contro il terrorista H.O.L.O.C.A.U.S.T., che si rincorrono e si azzuffano a suon di old school thrash per tutta la durata del disco. Da segnalare l’inserto in italiano in “Gambler’s Theatre” e la chiusura più cupa e lenta (se così si può dire ) di “Escape from Nightmare”.
I primi album sono i più difficili per tutti, e nonostante la strada per gli Ultimate Holocaust sia ancora lunga, sono già molto ben avviati. Con qualche limatura alla pronuncia inglese e al sound granitico, potranno guadagnarsi a tutti gli effetti il loro posto nel panorama delle bands italiane che pagano tributo alla vecchia scuola.
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Le radici dei Raise Hell, band svedese a cavallo tra thrash e black metal, affondano nel lontano 1996. Tra sorti altalenanti e cambi di line-up (ultimo dei quali la dipartita del batterista storico Dennis Ekdahl poco prima dell’inizio dei lavori su “Written In Blood”), i tre membri superstiti dei Raise Hell approdano al loro quinto full length.
Nonostante il posto di drummer sia ancora vacante (alle registrazioni in studio ha preso parte l’ex Destruction Sven Vormann) e la band debba ritrovare una certa stabilità per il futuro, “Written In Blood” è un’esplosione di pura energia. Il punto di forza dei Raise Hell è il background black che affiora con prepotenza a partire dalla opener “Dr. Death”, thrash nella struttura ma nera nelle linee vocali. L’energia dei nostri è evidente in pezzi come “Six Feet Under”, letteralmente da headbanging istantaneo. Ma le sorprese non finiscono qui: “Demon Mind” infatti si apre alla melodia, per quanto lugubre, ed entra in circolo dal primo ascolto. Stesso amore a prima vista per “A Blackened Resurrection”, che con il suo incedere e le scariche di doppia cassa sovrastate dal veleno black vomitato da Jimmy Fjällendahl non solo prende subito, ma riesce in qualche modo a trovare spazio per le aperture più catchy. “Thank You God” fa sobbalzare sia per l’intro che per il titolo, ma il cambio improvviso di marcia al quale ormai i Raise Hell ci hanno abituati lascia intuire che questo tanto ringraziare sia più che ironico. E per finire “Final Hour”, un pezzo colossale di oltre sei minuti, conferma la bontà della tecnica e della passione della band svedese.
"Written In Blood" non è esente da sbavature, ma complessivamente è un disco piacevole che scorre liscio come l’olio e regala buone vibrazioni. Ora non ci resta che stare a vedere come se la caveranno i Raise Hell con la ricerca del nuovo batterista, e che direzione prenderanno in futuro.
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Un percorso tortuoso, oscuro e futuristico, nato dalla mente del chitarrista/songwriter Steve Smyth, noto per aver militato in passato in band come Testament, Nevermore e Dragonlord, solo per citare le principali: ecco come può essere definito il viaggio di “The Final Cull”, secondo full length dei One Machine.
Utilizzando le parole dello stesso Smyth, “The Final Cull” è la conflagrazione perfetta tra pianificazione e spontaneità, in quanto la band, jammando per ore in studio, è arrivata a conclusioni diverse ogni giorno di registrazione, continuando a provare e sperimentare nuove idee. E queste peculiarità sono assolutamente udibili nel nuovo album dei One Machine. Si inizia da subito a pestare pesante con “Forewarning”, in cui spicca la voce velenosa e caustica di Chris Hawkins, un vocalist consumato con una buona estensione vocale, accompagnato da assoli di chitarra limpidi e cristallini, per quanto brevi. Ma la caratteristica principale di “Final Cull”, la magniloquenza, si fa già evidente dalla title track: l’intro epica di cori e archi introduce a sette minuti e oltre di disperazione oscura, un coacervo cattivissimo con i riflettori puntati sulla voce. “Summoning Of The Soul” cambia registro, è una ballad “storta” dal sapore orientaleggiante, che si trasforma in poco tempo in un urlo disperato. “Screaming For Light” invece punta tutto sulla velocità fulminea e annichilente del caos, con estrema efficacia. La magniloquenza sopracitata ritorna in “The Grand Design”, un pezzo monumentale venato di sonorità prog. Ma non mancano neanche brani di estrazione groove, come “New Motive Power”, che è letteralmente un treno lanciato a folle velocità con la parte ritmica tiratissima e assoli di sei corde incalzanti. “Ashes In The Sky”, almeno nella parte iniziale, funge da balsamo per i timpani dopo la sfuriata del pezzo precedente, grazie ai suoi arpeggi delicati e malinconici, che pur diventando elettrici con il passare dei minuti, lasciano in bocca un sapore da ballad agrodolce. La degna conclusione è “Welcome To The World”, la fine del viaggio di “The Final Cull”, ma l’inizio di una nuova era introdotta dell’energia della doppia cassa e dallo scandire del basso.
Steve Smyth e soci hanno prodotto un disco decisamente valido, ottimo per gli amanti del thrash (e non solo) desiderosi di esplorare nuovi territori. Per i cultori dell’old school invece, potrebbero risultare indigeste le venature prog e l’eccessiva durata di alcuni pezzi, ma rimane assolutamente apprezzabile l’intenzione di esplorare e far confluire diverse influenze in un unico lavoro.
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Max Cavalera e soci ritornano con il loro decimo album di studio “Archangel”, a distanza di due anni da “Savages”. La prolifica band non si smentisce: il sound è sempre lo stesso, una ricetta collaudata che non invecchia con il passare del tempo, ma che non dice neanche nulla di nuovo.
Come suggerisce il bell’artwork della copertina ad opera di Eliran Kantor, i temi attorno ai quali si dipana “Archangel” sono la religione e il mito. Si inizia con “We Sold Our Souls To Metal”, brillante dichiarazione di intenti che senza se e senza ma ingrana la marcia facendo partire un pugno nello stomaco che ben dispone all’ascolto delle tracce successive. La tematica religiosa si fa lampante nella title track, un tipico pezzo alla Soulfly, oltre che una spirale vertiginosa e ipnotica verso l’oblio, in cui gli assoli di sei corde sono le urla dei dannati. “Live Life Hard!” apre una breve parentesi screamo-hardcore con un interessante featuring di Matt Young dei King Parrot, che si richiude subito non appena attacca “Shamash”, una serie di invocazioni sciamaniche a ritmo di groove. L’episodio a mio avviso più debole è “Bethlehem's Blood”, che nonostante le sue trombe del giudizio, si perde un po’ tra gli altri pezzi. Ma non vi preoccupate: con “Titans” si ritorna a farsi male, ed è un brano che dal vivo farà macelli di sicuro, con il suo giro di basso e il suo ritmo spaccaossa. Per non parlare dell’altrettanto devastante “Deceiver”. Per finire una bella citazione da veri nerd: “Mother Of Dragons” verrà apprezzata in particolar modo dai fan di “Game of Thrones”.
Ancora una volta, i Soulfly si attestano sul loro livello e svolgono il loro compito con diligenza ma senza il colpo di genio, offrendoci un album piacevole ma nulla di più.
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