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Opinione scritta da Daniele Ogre

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Opinione inserita da Daniele Ogre    06 Ottobre, 2024
Ultimo aggiornamento: 06 Ottobre, 2024
#1 recensione  -  

Che i Blood Incantation fossero destinati a grandissime cose lo avevamo già capito ai tempi dell'uscita del grandioso "Hidden History of the Human Race": già in quel disco, che succedeva l'altrettanto ottimo primo album "Starspawn", ascoltandolo si respirava un'aria diversa, si comprendeva pezzo dopo pezzo che si era davanti a qualcosa i cui margini di crescita sarebbero stati esponenziali. Poi Paul Riedl e soci hanno deciso di cambiare le carte in tavola e stravolgere tutto pubblicando l'EP "Timewave Zero", andando anche incontro a diverse critiche da parte dei puristi del Death Metal per le sonorità Ambient dell'opera; ed arriva poi il maxisingolo "Luminescent Bridge", in cui si cominciava a capire che le due anime dei Nostri erano destinate a fondersi, ma anche che qualcos'altro ribolliva sotto la superficie pronto a farsi strada ed uscire. Arriviamo infine ad oggi, quando per Century Media Records i Blood Incantation rilasciano il loro terzo full-length a titolo "Absolute Elsewhere": e ciò che intuivamo da "Luminescent Bridge", ciò che ribolliva sotto la superficie, è ora sotto gli occhi di tutti. Effettivamente Ambient e Death Metal qui trovano il modo di unirsi con una precisione certosina, trovando sfogo nelle due sole, lunghissime tracce (oltre i venti minuti) che compongono quest'album. Non sono i primi, non saranno gli ultimi (nel Funeral Doom è anzi abbastanza consueto, no?), ma ciò che differenzia i Blood Incantation da tutti gli altri è l'assoluta maestria con cui mettono sul piatto due mastodontiche tracce andando ad abbracciare tutti gli spettri di colore del loro sound, andandolo anzi anche ad implementare con meravigliosi passaggi di puro Progressive Rock à la Genesis o Pink Floyd. E' dunque questo un disco ostico? Diciamo sì e no, anche perché sia "The Stargate" - di cui è stato tratto un video che possiamo tranquillamente vedere come un cortometraggio diretto nientemeno che da Michael Ragen (Guillermo Del Toro's Cabinet of Curiosities: The Viewing"), vincitore di diversi premi come direttore della fotografia - che "The Message" sono costruiti come delle suite ognuna composta da tre parti (o tre Tablet), cosa questa che in effetti rende l'ascolto più scorrevole, dato che la nostra mente "vede" sei tracce - comunque lunghe - rispetto alle due titaniche che sono in effetti. Sul piano musicale... insomma, stiamo parlando dei Blood Incantation, una band che sul piano tecnico non ha nulla da invidiare a nessuno; non mancano ovviamente quei momenti di puro e "semplice" Death Metal di matrice Morbid Angel/Immolation, ma nel complesso "Absolute Elsewhere" è un continuo vortice in cui ritroviamo atmosfere da spazio profondo, Prog Rock settantiano, sinistri soundscapes Ambient, melodie luciferine, passaggi mediorientaleggianti... e sì, tumutluosi momenti Death Metal fatti di sezione ritmica incessantemente tellurica e riff rocciosi, cupi e pesanti. Siamo davanti insomma ad un disco semplicemente monumentale - e non ci stiamo riferendo alla durata -, in cui i Blood Incantation lasciano a briglia sciolta tutto il loro estro sia in fase compositiva che di tematiche. C'è qui dell'assoluto genio, se pensiamo ad esempio che "The Stargate" (citiamo ora parola per parola il comunicato stampa che accompagnava la notizia del video) "presenta la saga di un misterioso artefatto e delle sue vittime in un'unione allucinata di fantascienza e horror, dove immagini stravolgenti e atmosfere inquietanti convergono in un racconto surreale di magia primordiale di sangue, viaggi interdimensionali e grottesca tecnologia ultraterrena che inizia nel Medioevo e viaggia nel vuoto dello spazio profondo". Una dedizione assoluta che sfocia in un'evoluzione impressionante, col sospetto tra l'altro che questa non sia ancora la forma definitiva dei Blood Incantation. La sensazione, in ogni caso, è che abbiamo assistito all'uscita di un album come "Absolute Elsewhere" destinato ad entrare nella storia del genere.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    29 Settembre, 2024
#1 recensione  -  

Dopo una doverosa gavetta ed una rapida ascesa, già al secondo full-length i romani Invernoir cominciano a fare decisamente sul serio; il quartetto capitolino si era già fatto notare per il buonissimo EP di debutto "Mourn" ed un primo full-length di spessore come "The Void and the Unbearable Loss", il tutto condito da un nutrito numero di live che ha contribuito ad accrescere l'affiatamento di una band formata da musicisti già ben attivi nell'underground romano in bands quali Black Therapy, Ars Onirica e Ghost on Mars, per citarne qualcuna. Seguendo gli insegnamenti dei maestri del genere (My Dying Bride, Anathema, Katatonia, Paradise Lost...), sin dagli esordi gli Invernoir hanno saputo catturare l'attenzione dei fans delle suddette bands, ed arrivano oggi con il nuovo "Aimin' for Oblivion" - licenziato da Code666 - ad una netta prova di maturità: i Nostri infatti rimangono fedeli alla loro natura con le radici ben salde in quel Doom/Death melodico e gotico dei primi 90's, ma allo stesso tempo danno spessore alla propria proposta con una prova personale e sentita, frutto di un songwriting in cui si denota una forte volontà di crescere dal punto di vista della personalità. Obiettivo che, a nostro avviso, la band romana ha raggiunto in pieno: i tanti amanti di queste sonorità saranno infatti immediatamente ammaliati dal mood decadente di quest'opera e più volte si ritroveranno certamente ad ascoltare le note scandite dai Nostri ad occhi chiusi ed in estasi, cosa questa che si palesa anzitutto nei momenti più eterei e malinconici con l'uso delle voci pulite ("Desperate Days" l'esempio più chiaro), in cui gli Invernoir possono ricordare molto da vicino i Novembre. L'highlight dell'album è però lo splendido singolo "Unworthy", traccia in cui il connubio tra melodie dolenti e sferzate più massicce si fondono alla perfezione. In poco più di 3/4 d'ora gli Invernoir denotano dunque una crescita generale di livello esponenziale, tra un songwriting altamente ispirato ed una precisione d'esecuzione invidiabile. Dopo un exploit simile, lecito aspettarsi da loro grandi cose in futuro: e difficilmente le aspettative saranno disilluse.

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3.5
Opinione inserita da Daniele Ogre    27 Settembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 03 Ottobre, 2024
#1 recensione  -  

Dopo un buonissimo debut album come "The Evil Emanations" si erano perse quasi subito le tracce dei deathsters nostrani Hellish God, tant'è che nel 2020 è poi arrivato lo scioglimento, salvo ritornare quest'anno per volontà del batterista Luigi Contenti che, persi per strada il cantante Tya (ex-Antropofagus), il chitarrista Matteo Gresele (Ad Nauseam) ed il bassista Stefano Malgaretti (ex-Imposer, ex-Voids of Vomit), è andato comunque a completare la line up pescando dal passato della band, richiamando ad occuparsi voce, chitarre e basso Michele Di Ioia, già presente dall'EP di debutto del 2016 "Impure Spiritual Forces". Il tempo di un veloce rodaggio ed arriva il deal con Dusktone e la conseguente uscita oggi di "The Advent of Deathless Beast". Musicalmente non è però cambiato nulla: l'amore incondizionato degli Hellish God per i Deicide traspare da ogni singolo riff, ogni singolo blast di batteria, persino nelle metriche vocali e nelle tematiche blasfeme. Su questo, va detto, gli Hellish God confermano di essere coerenti: è chiaro che a loro non importa minimamente essere originali, ma semplicemente suonare ciò che a loro piace, omaggiando con il loro operato una nobile decaduta della scena Death Metal mondiale. Il risultato è un disco composto da una serie di fucilate tra i 2 ed i 3 minuti. Sorretti da un'ottima produzione opera di Carlo Altobelli, i Nostri dimostrano di brano in brano di saper maneggiare la materia scelta con estrema sapienza, mettendo su un impianto sonoro di tutto rispetto che magari, come detto, non brillerà per originalità, ma che mostra una devozione totale per il Death Metal degli anni '90 che sfocia in un disco rapido, compatto e ferale. Per i tanti deathsters che ancora prediligono quel tipo di sonorità e che sono bardati a lutto per l'ingloriosa fine che stanno facendo i Deicide, "The Advent of Deathless Chaos Beast" è semplicemente imperdibile: non siamo davanti ad un capolavoro, certo, ma nell'ottica di un "semplice" disco Death Metal compie egregiamente il proprio compito intrattenente.

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4.5
Opinione inserita da Daniele Ogre    27 Settembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 27 Settembre, 2024
#1 recensione  -  

Saremo ripetitivi, ma la spagnola Ardua Music è ormai sinonimo di garanzia assoluta quando si parla di quel Doom/Death melodico, malinconico e romantico; così come oggi possiamo essere certi che una delle maggiori realtà in quest'ambito è rappresentata dai belgi Marche Funèbre, chiamati con questo nuovo "After the Storm" a ripetere l'exploit del bellissimo "Einderlicht". Missione compiuta: i quattro anni passati dal precedente album a questa nuova creatura autunnale hanno giovato sicuramente all'act belga, capace di tirar fuori un disco dalle sensibili venature, in cui il mood generale malinconico e romantico trova diverse valvole di sfogo lungo le sei tracce che lo compongono; questo grazie, oltre ad un eccellente lavoro chitarristico, anche all'ottimo uso delle due voci, con il cantato pulito a dare una dolente ariosità alle gravose growling vocals. Già dalla bellissima openere "In a Haze" si può intuire come, sul piano compositivo, i Marche Funèbre abbiano compiuto ulteriori passi in avanti: le coordinate stilistiche e le influenze balzano sì subito all'occhio (o all'orecchio, in questo caso), ma è altresì vero che i Nostri sono cresciuti in maniera esponenziale sul piano della personalità, donando ai loro brani un tocco personale univoco che, in futuro, li porterà ad essere subito riconoscibili nella marea di bands che suonano questo dato genere; lo possiamo notare quando passaggi più duri e rabbiosi vanno poi a sciogliersi in tenui momenti di rara sensibilità, che subito rimandano alla mente nebbiosi paesaggi autunnali. Sei brani di gran caratura per 3/4 d'ora che si sposano alla perfezione con questi primi giorni autunnali, in cui i Nostri riescono ad essere a loro modo orecchiabili pur rispettando in pieno gli stilemi del genere, ed in cui spiccano sicuramente l'afflato disperato di "Enter Emptiness" (un titolo che è tutto un programma), e la meravigliosa title-track, in cui tutti gli elementi che formano il sound dei Marche Funèbre s'incrociano chiudendo l'album in un crescendo emozionale. Dopo una decade e mezza di carriera e cinque album, crediamo che sia arrivato il momento per i Marche Funèbre di raccogliere quanto effettivamente meritano.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    27 Settembre, 2024
#1 recensione  -  

Il 2024 sembra essere un anno decisamente proficuo per la frangia più dissonante ed avanguardista del Death Metal; tra i tanti, ovviamente il primo che salta alla mente è l'ultimo degli Ulcerate (ennesimo capolavoro), ma per chi segue con interesse quest'evoluzione psicotica del genere c'era di sicuro un altro album su cui si riversavano alte aspettative: "Ontology of Nought", quarto studio album dei tedeschi Ingurgitating Oblivion che arriva sette anni dopo "Vision Wallows in Symphonies of Light", uscito oggi su Willowtip Records. Basta fare un raffronto tra le copertine del precedente album e questa nuova titanica opera (un'ora e 1/4 di durata divisa in cinque lunghissimi pezzi), per intuire da subito che i toni di "Ontology..." sono più cupi e sinistri del predecessore. Ma in ogni caso, un disco degli IO è un folle viaggio nella mente del mastermind e compositore Florian Engelke, quindi anche qui ci si ritrova sbalzati da un genre all'altro senza soluzione di continuità, con stacchi e cambi di direzione improvvisi ma quanto mai azzeccati. Sì, di base c'è sempre un Death Metal à la Immolation con "ramificazioni" verso l'avantgarde dissonante di gente come Ulcerate, Gorguts e Deathspell Omega, ma come sempre non c'è solo questo. Ed anzi in "Ontology of Nought" sono ancor di più le ramificazioni rispetto al predecessore: intrecci dissonanti, spiazzanti passaggi Jazz, ritmiche sincopate, accelerazioni di assoluta brutalità (soprattutto in questi momenti il riferimento non possono che essere gli Anaal Nathrakh), sinistri arpeggi, parti parlate - opera di Silke Farhat e Mehdi Lachini - che donano un tocco solenne, persino dei passaggi più "morbidi" ed armonici (mi sbaglierò, ma ci ho addirittura sentito qualcosa degli Swallow the Sun), tocchi di Prog Rock... Mai come questa volta, insomma, ascoltare un lavoro degli IO è come ritrovarsi in un difficilissimo labirinto di cui è quasi impossibile trovare l'uscita, un infinito gorgo in cui molteplici elementi diversi si intersecano in un approccio che ha quasi dello psicotico. Gli album degli IO sono ormai per definizione ostici ed "Ontology of Nought" è probabilmente il più arduo nell'intera carriera della band berlinese: c'è bisogno di davvero tanti ascolti per poterne anche solo vagamente intuirne le trame, col rischio comunque di perdersi nelle intricate strutture create dall'act tedesco. Probabilmente non un album per tutti, ma in ogni caso decisamente superiore alla media: ascolto consigliato, ma a vostro rischio e pericolo.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    26 Settembre, 2024
#1 recensione  -  

A due anni dal discreto "Soul Furnace", lo scorso luglio gli australiani Black Lava hanno rilasciato, sempre sotto l'egida di Season of Mist, il secondo album "The Savage Winds of Wisdom"; la blackened death band di Melbourne non cambia la sua formula stilistica che vede l'intersecarsi di passaggi più corposi ed atmosfericamente empi (à la Behemoth, per intenderci) ed accelerazioni più 'classiche', con qualche accenno di Death Metal svedese della vecchia scuola; ma allo stesso tempo lungo le nove tracce che compongono l'album possiamo notare come il quartetto australiano abbia curato maggiormente i dettagli questa volta... ecco, forse un po' troppo. Si nota come i Black Lava abbiano la precisa volontà di evolversi, ma in "The Savage Winds of Wisdom" finiscono col mettere probabilmente troppa carne al fuoco: ne è un esempio "Dark Legacy", in cui oltre ai patterns indicati sopra troviamo anche spunti progressivi ed una parte centrale decisamente MOLTO moderna, che in un certo qual modo quasi stona con l'atmosfera generale che i Nostri sembrano voler dare. Non è un caso infatti che è nei momenti più marcatamente Blackened Death che riscopriamo nei Black Lava una verve decisa. Ovviamente, manco a dirlo, si fa subito notare il drumming, ma quando hai un mostro come Dan Preston dei Ne Obliviscaris dietro le pelli la cosa non dovrebbe sorprendere; ma comunque in generale questa seconda opera targata Black LAva si lascia ascoltare, magari forse un po' a singhiozzo a tratti, ma con un livello qualitativo totale bene o male più che sufficiente. "The Savage Winds of Wisdom" sa un po' di album di passaggio tra quello che sono stati i Black Lava nell'esordio e quel che vogliono cercare di essere in futuro; in tal caso, quei passaggi più moderni possono essere visti come un segnale chiaro, crediamo. Ora che sia un bene o un male, sta ai gusti personali d'ognuno, noi dal canto nostro assegniamo all'act australiano una sufficienza piena.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    26 Settembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 26 Settembre, 2024
#1 recensione  -  

Se si è alla ricerca di un Metal estremo che sappia essere anche sperimentale ed avanguardista, allora si può sempre puntare ad occhi chiusi sulle uscite della nostrana I, Voidhanger Records, che questa volta è andata a pescare negli Stati Uniti - nello stato di New York - gli Odious Spirit, trio al debutto assoluto con il debut album "The Treason of Consciusness". Il sound del trio americano è Death/Thrash sperimentale, un vero e proprio vortice in cui da un lato abbiamo la follia del Technical/Progrssive Thrash e dall'altro la compattezza dello US Death Metal; per renderla più semplice: è come se si fossero messe in una centrifuga le sonorità di Voivod, Vektor, Coroner, Immolation e Portal e la si fosse accesa alla massima potenza. Letta così potrebbe facilmente sembrarvi qualcosa di quasi astruso, invece, credeteci, il tutto funziona alla grande! Chitarre d'ispirazione voivodiana si vanno a sposare alla perfezione con ritmiche à la Immolation: sferzate tempestose all'interno di una struttura compatta su cui va a stagliarsi il profondo growl di James Oskarbski; proprio la sua prestazione, tra l'altro, è assolutamente da menzionare dato che è anche il chitarrista degli Odious Spirit, ed è dunque a lui che si deve l'incedere psicotico di quest'opera. James però non è il solo, dato che il pulsante basso di Cullen Gallagher ed il forsennato drumming di Daniel Torgal completano un quadro in cui un tocco di follia amplia sensibilmente l'elevato tasso tecnico e la contemporanea pesantezza delle composizioni. Sinceramente troviamo quasi inutile consigliare un pezzo o un altro, di sicuro c'è il lunghissimo singolo "The Hissing Pyre" che può essere il perfetto manifesto di questo debutto (signori, la seconda metà del pezzo è da emicrania!), ma a cominciare dall'opener "Long Stretch of Bleeding Light" tutte le tracce di "The Treason of Consciousness" hanno qualcosa da dire - persino il lungo rumoroso intermezzo "Illuminations" - e svelano di secondo in secondo tutte le sconfinate doti della band statunitense. Vi avvertiamo, "The Treason of Consciousness" è un disco estremamente ostico - non che c'aspettassimo qualcosa di diverso da I, Voidhanger - e ci vorranno un bel po' d'ascolti per raggiungere il giusto mood e la giusta attenzione per godere a pieno di ogni minima delle innumerevoli sfumature qui comprese. In ambito estremo, gli Odious Spirit hanno insomma pubblicato uno dei debutti (se non IL debutto) più clamorosi di questo 2024.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    26 Settembre, 2024
#1 recensione  -  

Chi è solito leggere le recensioni del sottoscritto, saprà quanto veda sempre di buon occhio i dischi di bands provenienti dal Cile, nazione il cui sottosuolo di Metal estremo e ribollente come magma, soprattutto in questi ultimi anni. Ai tanti gruppi che abbiamo imparato a conoscere ultimamente si va ora ad aggiungere un altro interessantissimo nome, quello degli Invocation, trio di Valparaíso che tramite Iron Bonehead Productions ha recentemente pubblicato il primo full-length "The Archaic Sanctuary (Ritual Body Postures)", che segue due EP ("The Mastery of the Unseen" del 2018 ed "Attunement to Death" del 2020) che avevano già contribuito a far salire la notorietà dell'act sudamericano. Con questo primo full-length gli Invocation non solo confermano le buone impressioni dei suddetti EP, ma dimostrano anche di essere una band ancora in crescita; muovendosi stilisticamente tra un roccioso Death Metal di scuola Incantation e taglienti sferzate Black/Death à la Grave Miasma, gli Invocation implementano le loro sonorità con atmosfere fumose ed occulte, piazzando poi in fondo alla tracklist un trittico di pezzi - "The Psicopompos", "Venus of Laussel" e "Hypnosis" - in cui il riffingwork si fa più vorticoso e le atmosfere ancor più abissali, in un maelstrom sonoro che sa tanto di anticipazione di cosa potranno riservarci in futuro. Non che i Nostri disdegnino patterns più elaborati ed una certa ricercatezza di melodie mefistofeliche, come stanno a dimostrare un drumming sempre sugli scudi dal primo all'ultimo pezzo per l'uno e le ferine chitarre di pezzi come "Metamorphosis" e l'accoppiata di singoli "Ecstatic Tance" e "Opium Thebacium (Somniferum)" per l'altra. Pur sapendo 'giocare' sapientemente con arcane atmosfere e dimostrando di avere come base una tecnica strumentale da non sottovalutare, gli Invocation hanno dalla loro in primis un approccio diretto e ferale: un mix perfetto di talento e brutalità che rende l'ascolto di "The Archaic Sanctuary (Ritual Body Postures)" estremamente interessante ed una delle grandi sorprese di questo 2024

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Opinione inserita da Daniele Ogre    25 Settembre, 2024
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Sesto studio album per i danesi Thorium: "The Bastard" è licenziato ancora da Emanzipation Productions ed arriva a due anni di distanza circa dal predecessore "Danmark"; la band di Copenhagen si presenta ai nastri di partenza con sonorità immutate in cui convergono patterns tanto della scuola floridiana quanto di quella svedese, con questa volta una netta preponderanza di un sound maggiormente devoto alla matrice scandinava. A questo contribuisce sicuramente l'ultimo entrato in formazione, lo stakanovista Rogga Johansson, che in "The Bastard" si occupa delle chitarre sostituendo entrambe le precedenti asce Jens Peter Storm e Jose Cruz. Se avete familiarità con i tanti progetti del chitarrista svedese, subito riconoscerete la sua mano ed i rimandi a Paganizer o Furnace - per citare due bands che hanno da poco pubblicato o ne sono in procinto - tra riff rocciosi e graffianti melodie. Va detto che i Thorium sembrano trovarsi in effetti più a proprio agio in questa veste prettamente scandinava, ma così come il predecessore siamo sui classici livelli "senza infamia e senza lode": "The Bastard" lo si ascolta piacevolmente, la tracklist scorre via enza annoiare - complici anche durate dei pezzi inferiori ai 4 minuti -, ritmiche e chitarre sono di buon livello... ma alla fine lascia comunque poco di memorabile; probabilmente giusto "Pest" grazie ad un groove di fondo dal sapore "britannico", ma comunque troppo poco per elevarsi da una sufficienza che sarà anche piena, ma sempre di sufficienza si tratta. In Danimarca poi, in ambito Death Metal, la concorrenza è più che agguerrita, e non ci riferiamo nemmeno tanto ai Baest - pur essendo band di Century Media -, quanto più alla frangia più cupa e violenta (Undergang, Hyperdontia et similia): pur avendo sonorità diverse più improntate su di una matrice prettamente scandinava, i Thorium restano in ogni caso in un livello generale nella media.

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Opinione inserita da Daniele Ogre    25 Settembre, 2024
#1 recensione  -  

Sono passati ben cinque anni da quando incontrammo per la prima volta gli statunitensi Coffin Rot; la band proveniente da uno dei centri nevralgici del Death Metal americano contemporaneo (Portland, Oregon), dopo il discreto "A Monument to the Dead" del 2021 ha pubblicato negli scorsi giorni tramite Maggot Stomp il secondo full-length a titolo "Dreams of the Disturbed", album che, sin dalle prime note dell'opener "Slaughtered Line Swine", mette in mostra una band che ha decisamente appesantito ed incupito le proprie sonorità. Sono infatti praticamente sparite le influenze provenienti dalla vecchi scuola svedese - se non per qualche accenno in alcune accelerazioni qua e là -, con i Nostri che vanno a puntare maggiormente verso atmosfere più mortifere e 'melmose' à la Autopsy/Cianide, con passaggi che tramite riffingwork e ritmiche dinamiche richiamano talvolta gli Skeletal Remains. Perfetta fotografia di questo nuovo/vecchio approccio dei Coffin Rot lo troviamo subito, manco a dirlo col main single "Perverted Exhumation", che insieme all'altro singolo "Hands of Death" e ad "Unmarked Shallow Grave" vanno a rappresentare la vetta di un disco nel complesso diremmo abbastanza soddisfacente. Non che i Coffin Rot brillino per originalità - come il 99% dei gruppi Death Metal al mondo ormai -, ma non è mai stato questo l'intento del quintetto di Portland sin dagli esordi; anzi per accentuare la spinta old school nel 2022 è entrato in formazione il chitarrista Jonathan Quintana, già nei Decrepisy e live member degli Ascended Dead. Insomma, tutti pezzi di discreta fattura, con i tre citati che possono accendere maggiormente l'attenzione, ma d'altro canto è anche vero che magari manca quella spinta in più che possa rendere quest'album - o anche solo un singolo pezzo compreso - assolutamente memorabile. Ma a parte questo, possiamo comunque certamente affermare che "Dreams of the Disturbed" non andrebbe a sfigurare nella collezione di un accanito fan del profondo underground Death Metal.

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