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Opinione scritta da Francesco Noli

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Opinione inserita da Francesco Noli    21 Ottobre, 2024
Ultimo aggiornamento: 21 Ottobre, 2024
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Mixato e masterizzato dalla coppia Davide Billia e Javier Fernandez Milla (già al lavoro con Angelus Apatrida e Posthuman Abomination tra gli altri), "Toward Idiocracy" è il terzo lavoro dei thrashers spagnoli Holycide e quindi, di fatto, rappresenta un po' una prova del nove della loro carriera artistica. Prova per lo più superata si può dire all'ascolto delle 10 tracce che compongono il platter all'insegna di un thrash violento e arrembante, marcio, ruvido e veemente, senza compromessi. Gli Holycide fanno della furia la loro arma migliore con uno screaming lancinante ma anche nicotinoso (senza però cadere nel growl), una chitarra ritmica che sprigiona riffs serrati e una batteria sempre nervosa e a rotta di collo ricordando i migliori Destruction e in generale sonorità teutoniche. Non c'è un minuto di respiro ascoltando tracce quali "Technophobia", "Angry For Nothing","Lie Is The New Truth" o l'iniziale "A.I.Supremacy". Tutto scorre liscio e veloce con cadenze mirate e qualche spunto melodico pregevole (piacevole in tal caso "Flamethrower'Em All") gli assoli sono sempre incisivi e ordinati e qui, in particolar modo, mi riferisco a "Remote Control" e soprattutto alla già citata "A.I. Supremacy", quasi a levigare la loro rabbia e frustrazione verso il mondo la quale si scatena nei testi che consiglio di leggere, sempre atti a contestare questa civiltà ormai volta all'idiozia, all'arrivismo e alle guerre sia di potere che ideologiche. Tutto quindi collima molto bene nella loro proposta musicale e di messaggio da lanciare alla massa; alla fine del vero manca qualcosina, ovverosia quella canzone che spicca fra le altre, quel diamante che potrebbe portare ancora più in quota il lavoro e non guasterebbe magari un po' di varietà e fantasia in più sia nelle parti cantate sia nella musicalità. Ok, va bene correre, essere irruenti e cazzuti perchè, se suoni questo genere, non puoi uscire da certi schemi, ma serve un qualcosina in più per non scadere in futuro nella banalità o nel già sentito, ma sono sicuro che ai nostri
manca poco anche per aggiungere questo ingrediente che gli farà fare il salto di qualità. Comunque bravi e gradevoli!

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Opinione inserita da Francesco Noli    15 Settembre, 2024
Ultimo aggiornamento: 15 Settembre, 2024
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Beh ragazzi, Paul Di'Anno non ha bisogno di presentazioni, ma teniamo a precisare che è stato il cantante degli Iron Maiden dei primi due fondamentali dischi per chi fosse vissuto sulla luna negli ultimi decenni; tuttavia la sua carriera solista ha avuto alterne fortune con ottimi dischi e ottime band, ma anche qualche inciampo non proprio "casuale", se vogliamo. Adesso Paul il folle ci riprova con musicisti croati sotto il monicker Warhorse: perché, vi starete chiedendo voi, musicisti croati? In effetti i natali e la genesi del progetto è singolare in quanto il singer, mentre si trovava in riabilitazione post-operatoria appunto in una clinica in Croazia viene a contatto con i musicisti Madiraca e Pupačić (entrambi chitarristi) e con loro inizia a scrivere canzoni che poi confluiranno in questo debut che andremo ad analizzare. Diciamo fin da subito che la produzione è buona e i suoni sono quantomeno perfetti, la voce di Paul in studio è forte e potente e sa ancora graffiare come nel caso dell'opener "Warhorse" o della seguente "Get Get Ready", che dal vivo scatenerà del putiferio con il suo ritornello cantabile, così come la seguente "Go!". Il genere è un Heavy Metal ovviamente debitore alla NWOBHM e naturalmente è logico che sia cosi: tempi quadrati, mid-tempo, jack all'amplificatore e via senza infamia e senza lode scorrono le songs, tra le quali il singolo con video "Stop the War", uscito qualche mese fa e che parla appunto della guerra in Ucraina; c'è chi l'apprezza come me e chi invece la ritiene banale, ma è solo una questione di gusti e, se siete metallari, il problema non si pone. Bellissima e curata la cover di "Precious" (duettata con Nikolina Belan) dei Depeche Mode - qui ovviamente rivista e riarrangiata -, nota dolente invece la cover dei The Champ "Tequila", inutile e senza senso, anche se da un certo punto di vista divertente. Le altre songs vertono sempre sulla stessa linea metallara pura con menzione a parte per "Forever Bound", a mio avviso la canzone con il miglior arrangiamento e tiro! Che dire, se siete fans come me della voce di Paul, anche se cambiata nel tempo ma sempre forte e potente, pulita e grintosa (almeno in studio), apprezzerete questo lavoro e vi ci divertirete pure, anche se i musicisti che lo accompagnano non fanno chissà quali faville. Ma Paul è tornato e, nonostante i suoi (grossi) problemi di salute non molla, e nel bene o nel male è sempre qua a urlare la sua rabbia e la sua follia e questo è ciò che più conta!

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Opinione inserita da Francesco Noli    02 Luglio, 2024
Ultimo aggiornamento: 03 Luglio, 2024
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Paul Di'Anno - quasi a sorpresa - torna con una band nuova di zecca, i Warhorse, a deliziarci i nostri padiglioni auricolari e stuzzicando la nostra curiosità con questo EP di tre pezzi intitolato "Stop The War", che funge da prologo al debut album omonimo in uscita il 19 Luglio. Curiosa è la dinamica della nascita del gruppo, che difatti avviene in Croazia quando circa un paio di anni fa Paul era ricoverato per un operazione alle sue gambe; circostanza vuole che il singer incontra un suo fan e chitarrista tale Hrvoje Madiraca e da lì decidono di far partire questo progetto, tirando in ballo l'altro amico croato Ante "Pupi" Pupacic. Da Di'Anno non ci si può aspettare altro che Heavy Metal classico, niente di nuovo sotto il sole ma a chi adora ancora la sua voce, la quale è mutata si nel tempo ma sempre efficace è rimasta, non può altro che far piacere: tre tracce di puro metallo che rievocano fasti passati e che ovviamente Paul riesce a far respirare grazie alla sua esperienza. "Stop The War", melodica e commovente, con testo ispirato alla guerra tra Ucraina e Russia, in cui risalta un bel break centrale arpeggiato; la seguente "Warhorse" è un po' la track simbolo della band, portandone il nome, e risulta più epica e di atmosfera, forse con un coro troppo insistito ma nel suo complesso efficace in 4/4 arrembante. Chiude il disco "The Doubt Within" altro mid-tempo che non aggiunge altro di più se non un bell'assolo e un riff di chitarra convincente dove l'interpretazione del singer forse tocca livelli come non si sentiva da tempo. Parliamoci chiaro: tre canzoni sono poche per dare un parere definitivo, ma se il buongiorno si vede dal mattino direi che ci siamo: l'EP in questione fa ben sperare per il debut che uscirà sotto BraveWords Records e conterrà otto pezzi più due cover. E noi attendiamo fiduciosi.

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Opinione inserita da Francesco Noli    29 Giugno, 2024
Ultimo aggiornamento: 29 Giugno, 2024
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Faccio mea culpa per non avere conosciuto prima questi scatenati Terravore, vere e proprie furie dell'Est Europa (Bulgaria) formatisi nel 2015 ma già alla loro terza fatica con questo "Spiral of Downfall" e come si paventa sovente, se è vero che il terzo disco è quello della maturità, beh si può dire senza ogni dubbio che i Nostri centrano in pieno il bersaglio. Rilasciato dalla sempre oculata e attivissima Punishment 18 Records i Nostri propongono un Thrash di base furioso ma ragionato, intelligente sotto tutti gli aspetti con una tecnica mai fine a sé stessa o leziosa e un gusto raffinato soprattutto per quanto concerne il lavoro di chitarra, sia per assoli che per linee guida, nonché per i riff. Spruzzate di Death Metal vecchio stampo affiorano qua e là ("Propagandacide" ne è un esempio, ma anche "Sleeping Valdera") che giovano nel complesso del CD tra riff a rotta di collo (l'iniziale "Spiral Of Downfall" oppure "Blunt Force Trauma" per intendersi) e aperture più cadenzate ("Poisoned Skies" e la conclusiva, bellissima "Nostromo" con i suoi 7 minuti di lunghezza), che tengono alta l'atmosfera e l'attenzione per tutte le dieci canzoni che compongono il lavoro. Buona la produzione, pulita quanto basta ma che dona anche un senso retrò atmosferico, assoli di chitarra pregevoli grazie alla tecnica dei Nostri danno un qualcosa in più alle tracce, tutte di ottima fattura. La voce di Bachvarov è ruvida e "nicotinosa" quanto basta e non importa se risulta un tantino monocorde, sarebbe come cercare il pelo nell'uovo, anche perché i testi sono interessanti e danno spunti di riflessione, toccando argomenti quali fake news, inquinamento e abusi di potere. Il tutto però mixato sapientemente senza cadere nei soliti clichè triti e ritriti, dimostrando una personalità spiccata che si eleva un gradino sopra alla maggior parte delle uscite quotidiane in questo campo. Un bel disco dunque, che farà la gioia di tutti i Thrashers ma anche di chi ascolta Heavy Metal più classico presente in molte sezioni delle songs. Consigliatissimo!!!

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2.5
Opinione inserita da Francesco Noli    23 Giugno, 2024
Ultimo aggiornamento: 23 Giugno, 2024
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Tornano tra noi i bavaresi Hateful Agony, freschi di firma per la nostra Punishment 18 Records, con "Home Sweet Hell" settimo album in studio con un artwork a dir poco stupendo a opera di Old School Crew (Terravore, Ammo tra gli altri). Più ombre che luci per i Nostri, devo dire, con una punta di delusione e rammarico, un passo indietro rispetto all'ultimo "Plastic Culture Pestilence", non tanto per quanto concerne i suoni o il genere e neanche per l'approccio, ma proprio perché vige qui una staticità di idee alla base. Non fraintendetemi, canzoni come "The Night the Lights Went Out" e "Scars" fanno la loro figura, tirate al punto giusto, con riffs spaccaossa e una sezione ritmica propulsiva a rotta di collo, e cosi si può dire per la conclusiva "Climate Of Fear", aperta da un bel legato della sei corde e la voce sguaiata e cavernosa di Peter; il problema è che i pezzi tendono tutti ad assomigliarsi e non ve n'è uno che spicchi più di altri o che faccia avere un sussulto sorprendente in tutte le nove tracce che compongono il cd. La delusione viene anche dal fatto che con una pletora di guest star che infarciscono il lavoro (da Mark Biedermann dei Blind Illusion, a Bobby Lucas dei Morbid Sin, fino a Brian Zimmerman degli Atrophy) era lecito attendersi qualcosa di più anche se il loro Thrash derivativo tra Tankard e Destruction non è malaccio; qualche colpo dissestante questo "Home Sweet Hell" riesce pure a darlo, ma sinceramente troppo poco per una band navigata come la loro. Manca quella personalità per fare il salto di qualità che è lecito attendersi ma che purtroppo ancora non è arrivato: sia chiaro nella carriera di una band un passo falso ci può stare non è certo la fine del mondo e i feticisti di queste sonorità si sentiranno anche a loro agio all'ascolto dell'album, ma gli Hateful Agony devono e possono fare molto di più. Rimandati.

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Opinione inserita da Francesco Noli    15 Giugno, 2024
Ultimo aggiornamento: 15 Giugno, 2024
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Dopo un buon debut dal titolo "Myth & Legends", torniamo a parlare degli Helikon, solida band Power/Thrash quadrata e potente con questo nuovo ambizioso EP di quattro pezzi che risponde al nome di "Visions of Dawn", ambizioso e strutturato in maniera ottimale. Ambizioso perché è un concept fantascientifico ispirato all'immenso Isaac Asimov, la cui lavorazione ha richiesto molta dedizione sia nel concept, grafica e video del prodotto, che nella struttura dei pezzi. Il miglioramento dei quattro ragazzi è netto rispetto al seppur buon debut ("Visions of a Robot" posta in apertura dà già un assaggio di ciò), le canzoni girano a meraviglia con suoni ben distinti che si avvalgono di una produzione direi impeccabile, grazie alla quale l'esecuzione delle tracks risulta fluida e piacevole tra ritmiche quadrate (piccolo gioiellino "The Robots of Dawn" posta in chiusura), assoli sempre efficaci, mai "sbrodolosi" e la voce di Merigo che ben si sposa sulle linee melodiche del prodotto. Il Power/Thrash con cambi di tempo e cadenze rendono questo "Visions of Dawn" gradevole al punto da poterlo ascoltare anche più volte di seguito. Particolare plauso alla grafica, come accennavo in apertura, curata dal bravissimo Silvano Ancillotti, autore anche dei loro bellissimi videoclips che consiglio calorosamente di guardare. Attendiamo quindi curiosi e fiduciosi il prossimo passo degli Helikon che, viste tali premesse, farà ancor più proseliti. BRAVI!!!

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Opinione inserita da Francesco Noli    16 Mag, 2024
Ultimo aggiornamento: 17 Mag, 2024
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Tanto tuonò che piovve e cosi dai prima e dai ora siamo arrivati alla tempesta metallica che tutti auspicavano e preannunciata dal diretto interessato. Già da quel 30 Novembre 2019, ultimo concerto degli Slayer, egli giurava che non sarebbe stato con le mani in mano e così è stato, nonostante rallentamenti pandemici e sfighe di ogni sorta, il barbuto Kerry si è preso il tempo necessario per assemblare i musicisti giusti, per fare le cose per bene assicurandosi che tutta la catena di montaggio dalla stesura dei pezzi alla produzione, dalle prestazioni dei singoli fino alla pubblicità del prodotto fosse ben oliata e perfetta. Ora abbiamo tra le mani il primo disco solista di Kerry King "From Hell I Rise" e parlare di superguppo non è per niente fuorviante; Mark Osegueda (Death Angel) alla voce, Phil Demmel all'altra chitarra (Machine Head) Kyle Sanders (Hellyeah) al basso e il fido compare Paul Bostaph dietro le pelli formano uno squadrone da Champions Legue e non solo sulla carta a ascolti effettuati. Già i primi due singoli che ormai conosciamo tutti a memoria (la terremotante "Idle Hands" e la più cadenzata "Residue") ci avevano fatto un po' capire dove si andava a parare e cioè, da un certo punto di vista là dove gli Slayer si erano fermati con "Repentless" ma che, al tirar delle somme, sbugiarda chi pensa che questo album sia solo una derivazione dello Slayer sound. Anzitutto c'è da sottolineare la prestazione di Osegueda alla voce, che canta con maggior aggressività e altri registri rispetto a quanto fatto con la sua band madre, il che non vuol dire fare il verso a Tom Araya come tanti maligni paventano ma anzi, molto intelligentemente e professionalmente adatta la sua voce alla musica che richiede una veemenza particolare e sopra le parti. Le bordate di "Crucifixation", "Rage" e "Where I Reign" hanno bisogno proprio di cattiveria pura, violentissime e tirate sono appunto quelle tracks che si rifanno al mondo sonoro Slayeriano e non potrebbe essere altrimenti perché King bene o male scrive in questo modo e non vi è vergogna nel continuare a farlo; dall'altra parte ci sono songs più cadenzate e opprimenti come appunto la già citata "Residue"(per la quale è stato girato anche un video), "Tension" e "Trophies of the Tyrant", dove anche gli assoli fanno la loro bella figura risultando a tratti anche melodici, per quanto lo possano essere le sonorità espresse. Aleggia peraltro un tocco moderno e Groove qua e là (forse portato da Kyle, il più alternativo dei cinque?) e sicuramente la produzione di Josh Wilbur (Avenged Sevenfold e Lamb Of God, tra gli altri) ci mette un pochino del suo, anche se in una minima percentuale, ed il quesito che viene spontaneo è il seguente: "Ma allora questo "From Hell I Rise" suona Slayer?". Beh, in larga scala si, come inevitabile che sia, anche perché il barbuto chitarrista ha sempre dichiarato di non volersi scostare affatto da certi fraseggi e modulazioni a lui cari, ma non si ferma certo solo a questo come la violenta Hardcore song "Everything I Hate About You" dimostra nella sua pur breve durata; si potrebbe quindi parlare di un evoluzione degli Slayer (e, secondo me, ancora in divenire con altri album, ammesso e concesso che ci saranno) pur mantenendo la matrice della storica band stessa. A conti fatti il disco risulta godibile, onesto e piacevole, pur non facendo gridare al miracolo ma, si sa, rimettersi in gioco è sempre una partita da calci di rigore, dove uno sbaglio, un'omissione o un rifacimento può far pendere l'ago della bilancia verso l'in o verso l'out, ma di sicuro siamo su livelli medio alti dove i paragoni si sprecano, i deja vu anche ma, alla fine della fiera, è sempre la musica ad avere l'ultima parola... Che in questi solchi non viene certo sussurrata! Lunga vita quindi a Kerry antipatico, scorbutico, arcigno e testardo, ma con un coraggio da vendere, quel coraggio che oggi gioca un ruolo notevole sulle note di questo "From Hell I Rise"!

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Opinione inserita da Francesco Noli    28 Marzo, 2024
Ultimo aggiornamento: 29 Marzo, 2024
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La Punishment 18 fa ancora centro rilasciando questo "Born to Rot in Hell", quarto lavoro dei toscani Razgate, furioso, ferale, assassino, che non dà adito a compromesso alcuno: 41 minuti di Thrash/Speed a rotta di collo senza fiato e gustoso. Certo che chi non ama il genere si terrà a debita distanza, ma chi invece come il sottoscritto è cresciuto a pane Slayer e Destruction non potrà che gioire per questo piccolo capolavoro di casa nostra, dove regnano tutti gli stilemi del caso, con tanto di produzione old school che non guasta mai, ma anzi aiuta a renderlo ancora più fruibile. Velocità sostenuta dunque per tutto l'album, che inizia con la veemente "Tyrants of Depravity" - con tanto di stop & go e il basso di "Snacchio" Olivieri in bella evidenza -, ma è con le seguenti "Cursed Blood" e soprattutto "The Holy Grail" che viene il divertimento: assoli scintillanti come lame di coltello al sole e una voce straziante e disperata, urlata ma controllata ad infarcire i brani. E sì, perché se Giacomo James Burgassi deve il suo stile ad un certo Araya, il più lo deve a sé stesso e alle sue capacità, tanto è netta la maturazione nel corso del tempo dal loro debut ad oggi, cosa non scontata mentre si suona anche la chitarra macinando riffs spaccaossa e sempre onesti come in "The Thing at the Edge of Sanity", che a suo modo ci fa un po' rifiatare, con quel chorus che ti entra in testa al primo colpo. Curioso è poi l'interludio di "Interlude" (non sono sicuro, ma sembra un basso distorto che risulta molto piacevole) che poi si lega alla punteggiatura - appunto - del 4 corde nella seguente "Fill Up the Grave", con una cadenza centrale che ci riporta agli 80's diretti senza passare dal via. Iago Bruchi pesta come un dannato dietro la batteria, nuovo innesto della band che dall'alto della sua esperienza (ex-Violentor, Hobbs Angel of Death, tanto per citarne alcuni) e la sua fantasia riesce a fare la differenza nella sintesi complessiva del platter. Questo è un album da gustare dall'inizio alla fine già dalla copertina mefistofelica e attraente, da una band che, grazie a passione, sangue e sudore, può e deve viaggiare sulle onde più alte dell'oceano metallico.

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Opinione inserita da Francesco Noli    09 Febbraio, 2024
Ultimo aggiornamento: 09 Febbraio, 2024
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Ritroviamo gli svedesi F.K.Ü. (acronimo di Freddy Krueger's Ünderwear) dopo ben sette anni dall'ultima fatica ("1981" del 2017) con questo "The Horror and the Metal", che già dal titolo è tutto un programma. Il loro Thrash retrò senza compromessi e la loro attitudine nel tempo non sono cambiate di una virgola, attingendo dalla scena Bay Area (al sottoscritto hanno sempre ricordato gli Exodus su tutti) mettendo un pizzico di Scandinavia e la solita bella voce pulita e acuta nelle parti più scream del roccioso Larry Lethal, sono una garanzia che ha forgiato la band fin dal lontano 1987. La loro peculiarità è quella di abbinare la loro proposta musicale con testi che si rifanno ai film Horror - sia famosi, che B-Movie - e infatti titoli come "The Horror and the Metal" (con un video accattivante),"Don't Go to Texas" e "You Are Who You Eat" sono più che eloquenti, proiettando alla mente classici quali "Non Aprite Quella Porta" oppure "Creepshow"; toglietevi comunque dalla mente atmosfere brividose da classica colonna sonora horror perché la musica che si respira è Thrash quadrato e puro, senza mid-tempo e neanche un cedimento o un rallentamento. Le canzoni risultano tutte buone e quelle che ho citato poche righe sopra si attestano una spanna sopra le altre nella tracklist, ma d'altra parte da una band cosi rodata non si poteva che aspettarsi altro; la produzione è pulita ma non laccata e quindi aggiunge un punto in più. Non c'è altro da aggiungere se non che si tratta di un lavoro onesto e ben strutturato, che non aggiunge niente di nuovo, per carità, ma che nasce lontano da quella pretenziosità che sovente tende a portare i gruppi a un niente di fatto: i F.K.Ü. ci credono e gli amanti del genere non potranno che rimanere soddisfatti!

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Opinione inserita da Francesco Noli    06 Gennaio, 2024
Ultimo aggiornamento: 07 Gennaio, 2024
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Gli Americani Aftermath hanno una storia curiosa e sfortunata, quasi cinica oserei dire, essendo sempre stata una band dalle notevolissime qualità sia tecniche che esecutive, suonando un genere che si potrebbe definire come Techno/Thrash con qualche spruzzatina di follia in salsa Prog. Si formano addirittura nel 1986 ma è del 1994 il loro debut ("Eyes of Tomorrow") che riscosse anche un discreto successo tra pubblico e addetti ai lavori creando una certa curiosità per questa simpatica band americana dal suono però scandinavo (soprattutto le chitarre); sembravano destinati a una visibilità notevole e poi invece lo split e il nulla cosmico mai chiarito del tutto. Oggi si ripresentano con questo "No Time to Waste", contenente gli stessi cromosomi dei lavori passati ("There Is Something Wrong" del 2019) con qualche spruzzata di sound moderno qua e là che non guasta mai. Il mondo degli Aftermath è variegato, pur vivendo in un genere che non offre molte vie di uscita, ma loro ci sguazzano bene nel loro mondo e songs come "Original Instructions" e "Transform & Disrupt" sono lì a testimoniare quanta veemenza e cattiveria possono avere in dote i nostri, dove "Charlie" Tsiolis urla in faccia tutta la sua rabbia cantando testi sempre intelligenti che si scagliano contro il sistema corrotto, guerrafondaio e politicizzato. Sprazzi folli di simil-Funk addolciscono - si fa per dire - "Up Is Down", nella quale viene dato risalto al buon lavoro di Steve Sacco alla chitarra e la sua creatività, mentre l'altra faccia della medaglia è la massacrante Techno/Punk/Thrash "Slaveable", un vero assalto all'arma bianca. Non tutto è oro ciò che luccica, difatti con lo scorrere della tracklist si cade in una certa ripetizione un po' stucchevole causa pezzi non molto riusciti, come "We Can Do This Together" o "No Time to Waste" - addirittura posta in apertura -, anche se gli americani si riprendono nel finale con la bombardante "We Don't Want a Riot" e la cover simpatica, curiosa e riuscitissima di "Give Peace a Chance", inno immortale di quel geniaccio di John Lennon. Un disco che sicuramente piacerà ai fans del genere, attirando le attenzioni dei più curiosi tra di voi, suonato bene, ma che non riesce a fare quel salto di qualità che un po' tutti ci si aspettavamo e la sensazione che quel treno, passato ormai trent'anni fa, sia ormai lungi da fare marcia indietro è nitida e pervade l'intero lavoro che comunque si difende bene tra la marea di uscite riguardanti il genere stesso.

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