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Opinione scritta da Anuar Arebi

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Opinione inserita da Anuar Arebi    07 Marzo, 2017
Ultimo aggiornamento: 07 Marzo, 2017
Top 100 Opinionisti  -  

Premetto che quello dei Last Rites è un lavoro monumentale, sia per il rigore con il quale è stato prodotto l'album, sia per il decisivo impatto compositivo che scaturisce dai 10 brani di "Unholy Puppets".

Una storia, quella dei savonesi Last Rites, che dura da 20 anni ormai e che vede il loro primo debutto nell'ormai lontano 2001 con un demo che già allora risultava interessante. Questa volta il virtuosismo strumentale accompagna l'ascoltatore per tutta la durata del disco, senza lasciare nemmeno uno spazio per una tregua. Notevole l'impiego delle alternanze tra ritmi serrati e voci taglienti e growl grindcore modello George Fisher, che permettono una costante variazione di organico all'interno di strutture di una compattezza unica.

Certo l'influenza old school è davvero presente e sentire fin dalle prime note Jeff Walker ammetto che all'inizio mi ha leggermente depistato ma, con un po' di pazienza e un ascolto approfondito, ho capito che non è un semplice richiamo, ma una vera e propria ispirazione.

Nessun impasto, la produzione è secca e incisiva e ogni frequenza è tagliata con l'accetta, nessun compromesso ma tanto "respiro sonoro" che è un po' il denominatore comune che spicca in tutto l'album. Gli amanti del genere non resteranno delusi da "Unholy Puppets" dei Last Rites, soprattutto all'estero dove questo genere, spesso orientato al revival, ha un discreto mercato.

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4.5
Opinione inserita da Anuar Arebi    07 Marzo, 2017
Ultimo aggiornamento: 08 Marzo, 2017
Top 100 Opinionisti  -  

"Decaying Human Condition" è il primo lavoro sulla "lunga distanza" per gli Abscendent, questo terzetto tutto nostrano che promette ottimi risultati fin dai primi riff. Una line up apparentemente anomala per il genere proposto; gli Abscendent non sono gli unici, ma è sicuramente bizzarro un power trio death/thrash, soprattutto in questo momento storico dove le line up più rigorose dettano, anche per questioni di impatto live, legge.

Per qualche motivo a me ancora oscuro, l'atmosfera che mi creano nell'anima e nel cervello mi riporta ai Carcass di Heartwork e in qualche punto anche i Death del compianto Schuldiner. Non so dirvi il perché, visto che il cantato di GABRIELE VELLUCCI (anche chitarrista) è decisamente più profondo e cavernoso e le chitarre risultano più "moderne", fatto sta che l'imprinting della vecchia scuola si sente tutta, senza però che questa venga malamente scimmiottata. Anzi, tutt'altro!

Una delle qualità più rilevanti è sicuramente la personalità che, pur non nascondendo assolutamente origini e influenze, viene orgogliosamente portata sul piatto in modo davvero esemplare. La tecnica dei musicisti è ottima, sempre efficace e al servizio della musica e non delle "pippe" del musicista con la sindrome del traguardismo.

Interessante, anche se un paio di giri in più non avrebbero fatto male, la fase solistica di "Doppelganger", forse il brano più ricco di episodi ritmici e compositivi. Nonostante superi gli 8 minuti, offre sempre qualcosa di nuovo, nota dopo nota, passaggio dopo passaggio.

Un ottimo debutto questo "Decaying Human Condition" che lascia presagire, nonostante l'Italia, un bel futuro per gli Abscendent.

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3.5
Opinione inserita da Anuar Arebi    19 Dicembre, 2016
Ultimo aggiornamento: 20 Dicembre, 2016
Top 100 Opinionisti  -  

Molto spesso si fa menzione alla parola "alternativo" in maniera del tutto inconsapevole e spesso inconscia. In musica ad esempio...senti qualche tempo lento e pesante come un macigno di piombo, testi tra l'introspettivo e il "pippone" e in un attimo ti ritrovi con l'etichetta di "alternativo". Bello o brutto, buono o cattivo, fatto bene o fatto male non hanno più valore perché tanto, ormai, sei alternativo. Spesso questo "diversismo" diventa sinonimo di riuscito. Quasi un'ancestrale maledizione. Alternativo? Allora è ok.

Ascoltando l'omonimo album dei Virgo ci si potrebbe imbattere in questo presunto errore; gli elementi caratteristici ci sono tutti: cantato italiano impegnato, alternanza tra tempi groovati e veloci e rallentamenti enteogeni - si ascolti Coco per un esempio a pieno titolo - introspezione, ma anche collera e oscurità. Ma questi elementi non sono alternativi. A cosa poi? Essere alternativi non è un valore, né tanto meno una virtù. Questi lo sono, anche chi copia in modo perfetto un dipinto di Giotto è in realtà un alternativo. Quindi analizziamo il disco per quello che è e deve rappresentare.

Uno sforzo di rinnovamento si percepisce nelle 12 tracce proposto dal quintetto che si definisce a cavallo tra stoner e blues; incastonate in una sorta di colonna sonora immaginaria e indefinita si alternano suggestioni sonore che abbracciano con buona confidenza psichedelica ("Trasparenze", forse il capitolo più pop dell'album, "Selene") e rock più grezzo, senza abbandonare il mood granitico dello stoner più blasonato, leggi Kyuss, Wo Fat giusto per citarne un paio. Seppur il disco per ovvie ragioni di genere e modalità espressiva, può risultare un po' legnoso, presenta maturità compositiva e anche gli arrangiamenti risultano stabili e ben articolati. Degno di menzione è la ricerca di dimostrare con una buona dose di onestà intellettuale, che il virtuosismo ha lasciato lo spazio alla maturità compositiva e strumentale. Un lavoro sicuramente faticoso, che presenta qualche insidia ma che supera soddisfa le aspettative degli amanti del genere.

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Opinione inserita da Anuar Arebi    19 Dicembre, 2016
Top 100 Opinionisti  -  

Australiani, poco inclini alla "serietà" e una sana dose di stoner rock compongono i lati di una cornice che potrebbe inquadrare i MAMMOTH MAMMOTH che si mettono alla prova con questo EP senza grandi sorprese, se facciamo eccezione per "Dead Sea", un brano decisamente psichedelico e forse il più interessante per l'originalità.

L'EP scorre senza troppi sobbalzi: la voce roca di Mikey Tucker, forse un po' troppo chiusa in un master che ha tagliato qualche frequenza ancora necessaria, si distingue comunque come colonna portante dell'intero lavoro insieme alla ruvida chitarra di Ben Couzens.

Nel complesso un lavoro ruvido, nei cliché del genere che quasi mai fa gridare al miracolo per originalità, ma che mantiene, anche in questo caso, un buon livello generale. I fan dei MAMMOTH MAMMOTH non resteranno certo delusi e molto probabilmente chi era lontanto da questo genere continuerà a tenersene alla larga.

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