Opinione scritta da ENZO PRENOTTO
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Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 2023
Top 10 opinionisti -
Il nome di Marco Mezzadri, in arte Nero Kane, è sempre più sotto i riflettori grazie ad una crescita sia musicale per quanto riguarda la popolarità, seppure si parli ancora di underground. Le origini sonore di Marco vanno cercate prima nel circuito Punk (in primis fonda i Detonators) e poi nel Garage Rock di matrice Stooges/MC5 (entra in seguito nei The Doggs). La vera svolta avviene successivamente con il primo album solista ("Lust Soul"), sotto il nome di Nero, che pone le basi per quello che sarebbe arrivato in seguito, portando una sostanziale evoluzione musicale nel corso degli anni sfruttando un mood decisamente cupo ed oscuro. Questo nuovo "Of Knowledge and Revelation" segue la scia dei dischi precedenti e rappresenta una sorta di punto di arrivo o anche la chiusura di un cerchio. Per comprendere appieno ciò che quest’opera rappresenta bisogna fare dei passi indietro. Del primissimo e ruvido esordio ("Lust Soul"), che era caratterizzato da un suono crudo ed ispirato della New Wave ottantiana, non è rimasto quasi nulla se non in qualche accenno di distorsione funerea della chitarra. Marco ha assunto la veste definitiva di crooner prediligendo una sorta di cantato recitato e teatrale, ben coadiuvato dalla rosso crinita Samantha, musicista/cantante oramai divenuta componente fissa (faceva comunque già parte del progetto fin dal già citato "Lust Soul", in cui si occupava della parte visiva). La controparte femminile rievoca lo stile sciamanico di artiste come Nico e Jarboe (“Sola Gratia”) mentre le sue tastiere creano un animo visionario ed impalpabile (“Burn The Faith”). La musica diventa minimalista e psichedelica, presentando una cura per i dettagli minuziosa che rievoca le distese aride americane presenti nel bellissimo album "Love In A Dying World", incorporando quel Folk/Southern dal tocco bluesy in qualcosa di dilatato ed etereo che non disdegna incursioni anche nell’Ambient (“Lady Of Sorrow”). L’atmosfera si fa via via avvolgente ed apocalittica (“The Vale Of Rest”) dove ogni dettaglio è schivo ed impalpabile e non può non far saltare alla mente il meraviglioso album "Tales of Faith and Lunacy", lavoro che rappresenta il vero punto di partenza per questo "Of Knowledge and Revelation", da cui vengono riprese molte cose ma rilette in un’ottica scheletrica. Samantha era già un punto focale in "Tales…", come pure un certo Folk sfumato e dilatato alla Johnny Cash incrociato con la malinconia di Nick Cave e Tom Waits (“The End, the Beginning, the Eternal”), ma soprattutto per un approccio gotico tipico di Michael Gira ed i suoi Swans che emergono in più di un occasione (la liturgica e corale “Lacrimi si Sfinti”). Non mancano determinate atmosfere autunnali, ben evidenziate anche dall’artwork, inneggiate come una preghiera nelle stratificazioni eteree di “The Pale Kingdom”, molto debitrici degli Anathema del capolavoro "The Silent Enigma", in cui Nero pennella melodie chitarristiche pregne di pathos (una sorta di "Mary Of Silence" più elaborata, traccia sempre presente in "Tales…"). Completa l’opera la delicatezza acustica di “The River Of Light”, che appare un po’ come una traccia isolata dal resto. "Of Knowledge and Revelation" è un disco sicuramente maturo e dettagliato, forse non il migliore della carriera di Nero Kane per il suo essere composto da episodi un po’ troppo simili e che se avessero avuto più dinamiche avrebbero raggiunto un livello straordinario. E’ forse il più intimo, il più nudo, come se l’artista avesse voluto mostrarsi realmente per quello che ha dentro. In ogni caso, critiche a parte, l’album è da considerarsi come il sushi: non deve soddisfare lo stomaco, ma emozionare l’anima e su questo ci riesce in pieno.
Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 2023
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Parlare di Prog/Power metal può portare ad accese discussioni sull’effettiva importanza del genere e sulla qualità artistica altalenante di chi ha cercato di portare avanti queste sonorità. In questo caso si parla di un progetto di nome Pyramid che coinvolge parecchi musicisti e guests speciali diretto dal mastermind Lance Sawyer. La lista è parecchio appetitosa e vede Tim Ripper Owens (ex-Judas Priest, ex-Iced Earth), Andry Lagiou (The Harps) e Harry Conklin "The Tyrant" (Jag Panzer) alle voci, Mike Abdow (Fates Warning) alla chitarra e Chris Quirarte (Redemption) alla batteria, Joey Izzo (Arch Echo) alle tastiere, Perrine Missemer al violino, mentre Adam Bentley (Arch Echo) si occupa sia di missaggio che di chitarra. L’album di cui si parlerà in questa sede è il quinto ed è intitolato "Rage", e non si discosta molto dai predecessori. La componente strumentale tende nuovamente ad essere molto tecnica e cerebrale, con continui cambi di tempo che prendono spunto dalla scena americana (Elegy, Dream Theater e Crimson Glory in parte, primi Fates Warning). L’approccio old school dei pezzi è radicale sia nella costruzione che nello stile classico US Power/Prog utilizzato, oltre che nella scelta della produzione molto grezza e ruvida (l’opener “Greed”). Se però nel precedente album "Validity" la band si teneva a freno nelle sbrodolate strumentali, qui le cose si fanno diverse stile treno in corsa. I brani sono gonfi di tecnicismi esasperati che rendono l’ascolto arduo per chi non mastica un certo tipo di metallo, però la situazione è a livelli fin troppo eccessivi. La complessità crea una corazza intorno alle tracce rendendole iper stratificate e confusionarie (“Empty Roads”, la title-track “Rage” o la masturbatoria “Tyranny”) e a poco serve la presenza di pezzi da novanta come Owens e Conklin alle voci per salvare il lavoro. I brani sono spesso lunghi, alcuni più riusciti come le sinfonie di “Control” e “Magic” o gli squarci epici di “Beast” (che ricorda qualcosa dei Symphony X) ed altri meno come quelli citati in precedenza, oppure le forzature di “Slayer”. A sorpresa la traccia più interessante è quella più lunga (circa venti minuti): “Dungeons and Dragons”, che riesce ad intrecciare tutti gli elementi del combo senza che l’ascoltatore si annoi eccessivamente. Il disco - come pure questa sorta di super band - sono ostici e concedono rarissimi momenti di immediatezza. Consigliato solo ai patiti della tecnica. Agli altri si consigliano gruppi più fruibili e raffinati di matrice europea come Vanden Plas, Anubis Gate, Shadow Gallery o Manticora, ma anche i nostrani DGM o Vision Divine.
Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 2023
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Ad essere sinceri i Dark Sarah non hanno mai particolarmente brillato nell’ambito del Metal sinfonico, seppure fossero piacevoli soprattutto nella prima trilogia di album. Da "Grim" in poi ci sono stati dei cambiamenti: in primis per l’inizio di un concept, e secondo per la massiccia presenza della componente elettronica che in questo "Attack Of Orym" diventa la regina indiscussa del sound, avvalendosi anche di qualche speciale collaborazione, come quelle di Mark Jansen degli Epica, JP Leppäluoto e Kasperi Heikkinen dei Beast In Black. Il disco, come sempre dall’appeal molto cinematografico, prosegue la storia iniziata con "Grim" e lo fa con un sound ancora più tamarro e moderno che potrebbe far storcere il naso a chi mal sopporta certe sonorità. Dopo la tamarra “Intro - Choose your weapons” irrompe la opening track forte di un riff decisamente battagliero che viene messo in fretta in ombra per lasciar spazio ad un caotico miscuglio di elettronica/EBM e Metalcore con delle leggerissime spruzzate sinfoniche (“Attack of Orym”). Se con il disco precedente c’era ancora una certa voglia di mescolare i Sirenia meno pomposi ed i Nightwish post-Tarja, qui si finisce in un pericoloso tunnel senza uscita. I pezzi si fanno sempre più sparati a tutta velocità e non si riesce più a distinguere nulla tale è l’abbondanza di elementi, ma in questo caso messi a casaccio (“Invincible”). La voce di Heidi è sempre più esile e pop, finendo per equivalere ad un miagolio; una voce eccessivamente fiacca e sdolcinata che farebbe la fortuna di un gruppo pop. E’ un continuo susseguirsi di mitragliate di chitarra e ritmiche statiche, dove tutto appare finto con dei suoni al limite del plastificato (“B.U.R.N”, “Goth Disco”, la zuccherosa “Delerium” o “Piece of my heart”), per non parlare dell’agghiacciante growl iper effettato di “Hero and a Villain”, che sembra fatto al computer. Ci si chiede come sia possibile che al giorno d’oggi il Metal sia arrivato a questo punto: un suono vuoto, senza un riff che si ricordi e soprattutto senza un ritornello che riesca a rimanere in testa. I Dark Sarah stavolta hanno esagerato oltre misura. Piaceranno solo ai giovanissimi che prediligono un sound semplice ed immediato, però la fortuna potrebbe durare poco.
Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 2023
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Con la consacrazione di esponenti come Heilung, Wardruna e Månegarm, è sempre più in auge una nuova ondata di Folk nordico sviluppata in maniera più colta ed introspettiva. Nell’estate del 2021, a Stoccolma, nasce il progetto Fredlös, che però non si ispira all’attuale scena Metal etnica di ispirazione nordeuropea, ma torna indietro al primo periodo figlio di formazioni come Storm, Folkhearth o Falkenbach, intrecciandola con un sound tipico di formazioni più recenti come Moonsorrow o Heidevolk. Questo debutto omonimo vede numerosi musicisti fra cui due ospiti speciali come il chitarrista Alex Hellid (Entombed) ed il cantante Erik Grawsiö (Månegarm) e propone un Folk molto oscuro e minimale dall’andamento lento e legato ad un mood pagano ed emozionale. Il disco è composto da brani mediamente lunghi, spesso dall’animo strumentale grezzo e ruvido grazie ad un uso delle chitarre robusto ed epico che si dipana fra intermezzi atmosferici ed un riffing di ispirazione Black Metal. Ne è lampante espressione l’opener “Våt varm jord” con i suoi imponenti muri di chitarre che ben si amalgamano al Folk/Doom del gruppo, che si avvale anche di un evocativa e malinconica voce femminile oltre che al guest maschile per le parti più sporche. Emerge sempre un fascino mistico dalle melodie, soprattutto soliste, che non sono mai facilone o da osteria, ma con una precisa funzione, ovvero il far risaltare il pathos eroico grazie anche ad un sapiente uso del violino (la bellissima e corale “Otto”), ma è la scrittura prima di tutto che funziona. La battagliera “Undergång” ha un crescendo melodico invidiabile, la finale “Requiem”, con i suoi dodici minuti di durata è pura evocazione di terre lontane dove ogni elemento ben si sposa con gli altri, mentre “Uppror” mostra tutto l’amore per il groove nell’arrembante riff chitarristico che trascina l’ascoltatore in una delle tracce migliori. Chiudono il cerchio tre tracce, quelle forse più dure del lotto, ovvero l’aspra “Farsot”, la cupa e velenosa “Missväxt” e la drammatica title-track “Fredlös”. Seppure il disco non brilli per originalità ha comunque molti elementi e stratificazioni che lo rendono speciale e che invoglia ad essere ascoltato più volte per immergersi nella sua magica atmosfera.
Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 2023
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Parlare di Metal moderno non è impresa semplice date le sue continue evoluzioni, però bisogna constatare che spesso si assiste ad una staticità pericolosa specie negli ultimi anni dove le novità latitano. Nel 2017 si assiste all’unione di due forze per dare vita a questi League Of Distortion, che vedono da una parte la cantante Anna Brunner (facente parte del trascurabile progetto Exit Eden, che si occupava principalmente di cover in salsa sinfonica) e dall’altra il chitarrista Jim Müller dei glam rockers tedeschi Kissin’ Dynamite. Va detto che l’unione non è del tutto casuale in quanto il leader dei degli stessi Kissin’ Dynamite è il produttore delle Exit Eden, oltre che essere il fidanzato della già citata Anna. Nasce quindi questo album omonimo che si discosta parecchio dalle sonorità che hanno contraddistinto i musicisti coinvolti, in quanto la direzione è orientata principalmente al Metalcore melodico spruzzato di elettronica che tanto va per la maggiore specialmente fra i più giovani. Facendo subito chiarezza: nel suo essere, questo debutto non rappresenta un’innovazione nel genere e nemmeno qualcosa di fondamentale dato che ha gli stessi difetti di migliaia di altri dischi del genere, ovvero appiattimento della scrittura, semplificazione delle ritmiche e un suono generale totalmente derivativo che vuole nascondere la mancanza di inventiva con suoni pompatissimi e devastanti. Il chitarrista Jim è un musicista quadrato e statico ed in fin dei conti va anche bene per dischi di questo tipo che sono più basati sostanzialmente sull’impatto e la ferocia, oltre che nelle melodie facili da assimilare. Qui non si fanno eccezioni e si sparano sull’ascoltatore bordate micidiali di electro/melodic-core modello mitragliatrice (“My Revenge”) piene di chitarre compresse e breakdown ritmici che si rifanno ad una moltitudine di colleghi come Amaranthe, Bring Me The Horizon, Parkway Drive o Asking Alexandria, uniti sia alla scena novantiana di Guano Apes e Skunk Anansie (soprattutto nel cantato) che quella Rock/Metal Industrial di Rammstein e Marilyn Manson. Chi bazzica in questi mondi saprà quindi a cosa va incontro ed in fin dei conti i brani non sono nemmeno male, complici delle scelte azzeccate come le vocals della bravissima Anna, che fa deflagrare un timbro sexy ed aggressivo senza mai perdere potenza (“Wolf or Lamb”, la stratificata “L.O.D.” o “My Revenge”), creando delle solide e cantabili strofe che faranno sicuramente sfaceli nei live (“Rebel By Choice”). Da segnalare alcune tracce interessanti come l’orientaleggiante “I’m A Bitch” e “It Hurts So Good”, che vede la collaborazione della band Annisokay creando un mood epico e melodico ben fatto. Le rimanenti tracce non si discostano particolarmente dal resto del lotto. Un lavoro che arriva dritto al punto offrendo qualche spruzzata di qualità che piacerà sicuramente ai fan del genere, ma che faticherà ad imporsi causa una concorrenza cattivissima.
Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 2023
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Nel 2018 nascono i modenesi Deep Town Diva e, nel giro di qualche anno, pubblicano questo EP di debutto intitolato "Royal Flush", in cui i quattro amici fanno fluire tutte le proprie influenze artistiche. I cinque brani dell’opera denotano una musica che cerca di essere sia aggressiva che melodica, riuscendo a raggiungere il traguardo in maniera più che buona, soprattutto grazie ad una notevole cura per i suoni e la produzione che valorizzano al meglio gli strumenti. L’opera è decisamente variegata e risente forse di idee troppo derivative e non messe propriamente a fuoco. Il fulcro del lavoro è l’Hard Rock, su cui poi si dipanano le deviazioni sonore che prenderanno i diversi brani. L’apertura con “Jager of Jager” vive di un cantato decisamente vario e roccioso quanto basta e ben si intreccia con i cori melodici ed un solismo chitarristico incisivo. Successivamente si insinua un carismatico tocco bluesy prima sporco e ruvido (“Rising Star”), ma sempre inserito in un contesto melodico ben delineato dal guitarwork e dalla voce, per poi prendere una direzione quasi Soul (la riuscita “Miles and Bullets”, forte di un bel lavoro di armonica). Si cambia ancora registro passando ad un suono più aggressivo e thrashy, come nelle chitarre Metal di “Snake Bite”, sconfinando nell’Alternative grigio e malinconico della finale “Wind Black”. I brani rendono bene e lasciano una sensazione più che piacevole, però manca una certa coesione, come se fossero il risultato di una pasticciata mescolanza di influenze senza una chiara direzione. Dato che si tratta comunque di un debutto, ben vengano anche questi “difetti”, perché le basi per crescere ci sono e si rivelano solide. Si dia tempo a questa band di crescere. Si vedrà come si evolveranno in futuro.
Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 2023
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Fu un duro colpo per molti fan l’abbandono di Charlotte Wessels dai Delain (sebbene non fu l’unica a lasciare la band nel corso degli anni), eppure la vocalist si rimboccò in fretta le maniche e decise di intraprendere la carriera solista pubblicando nel giro di due anni prima l’ottimo "Tales From Six Feet Under" e poco dopo questo "Tales From Six Feet Under Vol II". Anche questa volta tutte le voci e gli strumenti sono ad’opera di Charlotte - comprese le parti elettroniche -, tranne qualche ospitata che si vedrà in seguito. Le coordinate musicali sono all’incirca le medesime del debutto, ovvero una raccolta di stili che spaziano dal Rock al Pop al Metal senza che comunque ci sia una perdita di equilibrio. L’orgia sonora in cui l’ascoltatore viene trascinato potrebbe mettere in difficoltà chi non è avvezzo a continui cambi di stile, anche nello stesso brano. Ogni brano trasuda la voglia di stupire e di intrattenere sfruttando in primis un attitudine Pop che permea molte linee melodiche e soprattutto i ritornelli (“Venus Rising”). La voce si mantiene sempre sulla delicatezza, sfruttando al meglio i tappeti di tastiere che donano un mood etereo, ma non mancano episodi più vigorosi come il Rock robusto della potente “A Million Lives” o di “The Final Roadtrip”, dove Charlotte si diletta in un cantato meno pomposo (anche nella multiforme e gotica “The Phantom Touch”). La maggior parte delle tracce tenta di avere una propria identità e lo dimostrano la cavalcata Metal di “Human To Ruin” e le carezzevoli melodie acustiche di “Against All Odds” (ospite in entrambe una vecchia conoscenza, ossia l'ex-Delain Timo Somers), ma anche il mix variegato di Metal ed elettronica in “Good Dog”. Ogni brano è un mondo a sé, con al suo interno sapori e dettagli che vanno scoperti con calma ed attenzione, ma probabilmente le gemme migliori sono quelle verso il finale: la sensuale “Toxic” inebria con il suo beat elettronico e gli archi, “I Forget” è una splendida ballad malinconica dove compare il delizioso violoncello di Elianne Anemaat dei mitici Celestial Season (che invitiamo a riscoprire), fino alla morbida chiusura con la raffinata “Utopia”. Si può tacciare Charlotte di mettere troppa carne al fuoco ed in effetti non c’è una direzione musicale molto chiara, però la qualità delle composizioni ripaga e potrebbe essere un buon trampolino di lancio per il futuro.
Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 2023
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Gli Aura sono una band nostrana nata nel lontano 1996, ma solo dopo parecchi anni hanno fatto uscire il debutto ("A Different View From The Same Side" del 2008) e nel giro di circa un decennio fece uscire altri due dischi. Il quartetto, nonostante le poche uscite discografiche, ha sempre privilegiato la qualità alla quantità ed anche questo nuovo album, "Underwater", riflette quest’ottica. Le coordinate sonore vanno ricercate sia nel Prog degli anni ‘80 – ‘90 sia nel Progressive Metal circa della stessa decade, dove a prevalere è la venatura melodica piuttosto che quella tecnica. Gli Aura sono musicisti raffinati ed il loro modo di fare Prog rispecchia colleghi come i Riverside per lo stile vocale decisamente carezzevole (“Lost Over Time”) e le atmosfere soffuse, però vengono richiamati all’ordine anche i Pink Floyd più pop grazie ad impianti corali intensi che si sposano perfettamente alla ruvidità delle chitarre in episodi come “Keep It Safe”. Addentrandosi nel disco il gruppo decide di sbizzarrirsi spingendo sull’aggressività delle ritmiche (“On Time”) impostando dei sorprendenti muri di suono (il groove acceso di “Eternal Bliss”), però l’influenza principale arriva direttamente dal Prog Metal americano di scuola Fates Warning. La pesantezza viene dosata con il contagocce privilegiando la sensibilità (“Time To Live” e “My Last Words To You”), ma soprattutto si sfrutta la tecnica per creare, per stupire ed appagare come nelle evoluzioni chitarristiche e strumentali della stupenda “Promises”. L’ascoltatore non viene mai abbandonato ed è sempre stimolato a percepire ogni dettaglio. Se si vuole proprio trovare un difetto è l’eccessiva somiglianza di molti passaggi che creano una sorta di deja vù continuo che possono creare fastidi. Un buon lavoro in bilico fra il mestiere e la voglia di stupire, però non sorprende come ci si aspettava.
Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 2023
Top 10 opinionisti -
Agli appassionati di un certo tipo di Metal moderno con voce femminile (sulla scia degli ucraini Jinjer per intendersi) non sarà sfuggita la presenza nella scena musicale della cantante finlandese Darcy Rioghan. Darcy inizia già nel 2010 a comporre sia poesie che testi e circa dieci anni dopo decide finalmente di dare corpo alle parole creando i Rioghan ed aggiungendoci la musica avvalendosi dell’aiuto di compositori più abili. Esce poi nel 2021 il primo EP "Blackened Sky", che ottiene un’accoglienza decisamente positiva. Non molto tempo dopo si decide di arrivare alla composizione del debutto vero e proprio ovvero questo "Different Kinds Of Losses", che vede un nuovo team al lavoro e collaborazioni decisamente importanti come Jonas Renkse (Katatonia), Einar Solberg (Leprous), Teemu Liekkala (ex-Manufacturer’s Pride, Red Eleven) e Teemu Koskela (ex-Celesty). Ad accompagnare Darcy ci saranno due musicisti fissi ovvero Teemu Liekkala (chitarra, basso e tastiere) e Valtteri Revonkorpi (batteria). Andando al nocciolo della questione, ascoltando l’album si sentono molteplici elementi tipici del nuovo corso che ha intrapreso il Progressive Metal che si è fatto sempre più tecnicamente elaborato (si pensi ad un mix fra Opeth, Dream Theater e tutta la corrente Djent/Metalcore). Ne derivano delle sonorità moderne e compresse, però nel caso dei Rioghan c’è una sensibilità più marcata ed un occhio di riguardo alla melodia e meno all’irruenza. C’è una propensione alla delicatezza vocale che ben si sposa sia alle parti più aggressive sia in quelle atmosferiche, in quanto Darcy ha un controllo vocale notevole. La dilatata “Sight”, con le sue impennate chitarristiche compresse, dà il via alle danze, però anziché fermarsi lì cerca più strade possibili. Difatti con la successiva “Promises” le ritmiche e i riff si fanno decisamente intricati, la voce segue la scia e le stratificazioni come pure l’elettronica completano il mosaico. Successivamente si fanno strada episodi pregni di elementi (“Breath” e “Reflection”), sax e violoncello (la delicata “Time”), armonica (“Innocence”) ed in generale un riuscito mix fra complessità e melodie/ritornelli diretti e pop (“Home”). I brani più riusciti sono “Bruises”, con le sue alternanze vocali scream/pulito davvero fluide, la meravigliosa e futurista “Lights” e la finale “Summer”, con le sue detonazioni elettriche. Un debutto solido e multiforme che piacerà agli amanti delle sonorità Prog più moderne.
Ultimo aggiornamento: 13 Marzo, 2023
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Torna sulle scene il misterioso progetto italiano capitanato dal mastermind Shaman e dalla singer Nicoletta Rossellini (qualcuno se la ricorderà nei Kalidia) che agisce sotto il nome di Walk In Darkness, di cui poco si sa riguardo all’identità della maggior parte dei componenti coinvolti. Attivi dal 2015, questi musicisti hanno pubblicato diversi album in maniera indipendente nel corso degli anni (ristampati nel 2021) e pubblicano ora questo nuovo disco intitolato "Leaves Rolling in Time" che non si discosta molto dal Gothic Metal a cui la band ha abituato gli ascoltatori se non per un approccio più moderno e meno oppressivo. Stavolta la band opta per una scrittura più focalizzata sulla componente vocale che non sugli strumenti o comunque sulle parti più aggressive, prediligendo la cura per l’aspetto emozionale, decisamente maggiore che in passato. Le tracce sono molto asciutte e dirette, quasi Rock nel loro incedere, ma offrono delle leggere dinamiche per non annoiare l’ascoltatore come la pomposa e variegata opening track “Ships to Atlantis”, che vive spesso su orchestrazioni ed un solismo melodico, per poi lasciare spazio ad episodi pregni di sfumature elettroniche (“Bent By Storms and Dreams” e “No Oxygen in the West”), oppure brani dal sapore acustico (il magnifico crescendo emozionale di “Leaves Rolling in Time”). Tornando alle vocals, ci si imbatte in un notevole lavoro ad opera della bravissima Nicoletta, che ha ampiamente superato i timidi esordi con i Kalidia per mostrare al pubblico che sa il fatto suo. La sua voce è dinamica e variopinta, mai sopra le righe, arrivando a livelli celestiali ben supportata anche dai growl maschili. Ciò che preoccupa, come accade di solito in generi come questi, è il fatto che la sezione strumentale non sempre regge come dovrebbe. Sia i riff che le ritmiche sono i medesimi di molti colleghi, seppure agli esordi fossero meglio integrati e più riusciti. Ciò dispiace perché c’è sempre un ottimo equilibrio fra aggressività e melodia (“Get Away” o l’ottima “The Last Glow of Day”) ed anche quando le situazioni si fanno più morbide si percepisce comunque una notevole qualità, come le atmosfere fiabesche di “Elizabeth” o nelle schitarrate imponenti dell’intensa “Walk Close to Me”. Chiude il cerchio la versione alternativa di “No Oxygen in the West” (bonus track) che non aggiunge nulla che possa modificare il risultato finale. I Walk In Darkness sfornano un lavoro nuovamente piacevole e di qualità però non è abbastanza a causa di una concorrenza sempre più feroce.
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