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Opinione scritta da ENZO PRENOTTO

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    04 Luglio, 2024
Ultimo aggiornamento: 04 Luglio, 2024
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La carriera dei tedeschi Voice è stata caratterizzata da una più che buona qualità sonora ma, allo stesso tempo, la loro storia è stata decisamente travagliata. Nato nel lontano 1988, il combo da sassone, impiegò quasi dieci anni per l’esordio, arrivando poi quasi a scomparire per circa quindici anni dopo l’album "Soulhunter", facendo qualche comparsata come cover band. Solo nel 2017 i Voice tornano effettivamente sulla scena dopo quel lungo silenzio, pubblicando prima il tonante "The Storm" e lasciandosi nuovamente desiderare per diverso tempo prima della pubblicazione di questo "Holy or Damned", che rimescola non poco le carte in tavola abbandonando quasi totalmente quel Melodic Power Metal, alla Nocturnal Rites, che aveva caratterizzato il proprio stile. Il passaggio all’etichetta Massacre Records deve aver dato una spinta energetica non indifferente, dato che il precedente "The Storm" straripava per potenza e dei suoni devastanti. Questo "Holy or Damned", invece, come anticipato sorprende e lascia perplessi per il suo andare in direzioni, finora, quasi mai intraprese. Il riffing di chitarra si fa meno irruento e si evolve in un Hard'n'Heavy molto old school, optando per assolo immediati ed efficaci e soprattutto un approccio melodico nei cori e nei ritornelli con delle deliziose reminiscenze AOR (“Nevermore”). C’è una rocciosità Hard Rock di fondo, come se i Saxon incontrassero Jorn Lande (“The Silence of Prescience”), combinando il tutto con un epica musicale alla Diamond Head per quel meraviglioso intreccio di finezza sonora, squarci mistici ed esplosioni metalliche (“In This World”). Il disco è forse il più variegato del gruppo che, seppure offra dei pezzi prevedibili e quadrati (“Dream On” e “Let's Go Ahead”), riesce sempre a tenere per mano l’ascoltatore cercando di intrattenerlo nel miglior modo possibile: la cavalcata dinamitarda “Schizo Dialogues” con i suoi cori trascinanti e molto curati nella maggior parte dell’album, la ballad pastorale “Tears in the Dust”, il pathos di “Chatroom Wishpering” o “Petrified Dreams” con i suoi riffs rallentati. Un album davvero ben suonato, con qualche leggera caduta di tono ma pieno di belle canzoni che meritano di essere ascoltate e riascoltate. Un eccellente ritorno che si spera porti ad un nuovo lavoro in tempi più brevi del solito.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    04 Luglio, 2024
Ultimo aggiornamento: 04 Luglio, 2024
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Puntualissimi come orologi ecco che ritornano i metallari di Gothenburg, gli Evergrey, con il loro quattordicesimo album chiamato "Theories of Emptiness", prodotto sia dal vocalist Tom S. Englund che dal batterista Jonas Mauritz Ekdahl (oramai nella band solamente come produttore, sostituito definitivamente da Simen Sandnes). Dopo più di trent’anni, fa solo che piacere vedere nuovamente all’opera il combo nordico e c’erano curiosità ed attesa per capire che tipo di sound ci si sarebbe trovato davanti. Guardando indietro alle ultime release c’è da dire che "Escape of the Phoenix", nonostante tanto mestiere, aveva dalla sua interessanti variazioni strumentali grazie ad un lavoro più presente, oltre che corposo, di basso e soprattutto tastiere. Il successivo e più recente "A Heartless Portrait (The Orphean Testament)" era una sorta di ritorno al fortunato e pregevole "Hymns for the Broken" grazie ad un sapiente lavoro su cori e ritornelli. La nuova opera è una sorta di mix dei precedenti dischi dato che punta proprio a sperimentare cercando di mantenere quell’aurea Progressive/Dark Metal oscura da sempre marchio di fabbrica della band. Non ci si lasci condizionare troppo dall’opener “Falling from the Sun”, con il suo assalto cervellotico alla Meshuggah, in quanto arrivano in breve tempo quelle tipiche melodie grigio/malinconiche tipicamente nordiche che non mancano mai nel songwriting degli Evergrey. Il coro è pregno di pathos ed il buon Tom disegna passaggi vocali meravigliosi mantenendo il suo posto fra i migliori singer in circolazione. Il lavoro delle chitarre è nuovamente roccioso, ma nel corso dell’album mostrano sfiziose evoluzioni sia negli assolo meno virtuosi, sia nelle atmosfere come nella bellissima “To Become Someone Else”, che ha quel mood bluesy vocale squarciato poi da dei muri nervosi di chitarra che lasciano spazio ad un intermezzo celestiale di tastiera che spazia dall’Hard Rock a passaggi delicati da pelle d’oca. Ma è forse in “Say” che si sente una crescita delle sei corde, che spaziano continuamente fra Metal e Hard Rock (presenti anche nella decisa “Our Way Through Silence”), senza dimenticare notevoli esplosioni sonore grazie anche ad un fragoroso lavoro di basso. Se poi si trovano due tracce leggermente sottotono o comunque “nella media” (“One Heart” e “The Night Within”) ci pensano le rimanenti a risollevare del tutto la situazione. La futuristica “Misfortune” ha un refrain corale di ampio respiro unito ad un lavoro di tastiera colmo di pathos, “Ghost of My Hero” è notturna e quasi Trip Hop mischiata ad un mood sinfonico, con la pesantissima “We Are the North” si sfiora il Doom, mentre la lunga “Cold Dreams” ha un mood molto elettronico impreziosito dalle voci di Jonas Renkse dei Katatonia (con il suo growl massiccio) e Salina Englund, figlia di Tom apparsa già come corista in alcuni album degli Evergrey. "Theories of Emptiness" è un piccolo miracolo. Da avere!!!

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    04 Luglio, 2024
Ultimo aggiornamento: 04 Luglio, 2024
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Si potrebbero aprire mille dibattiti su come sia nato il Power Metal americano e come negli anni si sia piano piano (ma nemmeno in maniera così lenta) involuto arrivando ad una forma attuale così sempliciotta e pallida. Eppure è così e se, nel contesto europeo, ha cercato di mantenere una certa rispettabilità, ciò non si può dire quando gioca in casa. Nella maggior parte dei casi la componente strumentale si appiattisce in favore di melodie tamarre ed una potenza tanto scintillante quanto innocua, modello effetto speciale iper digitalizzato. I canadesi Unleash the Archers fanno parte della scena da un po’ di anni e tornano in pompa magna con il nuovissimo "Phantoma", concept album distopico sull’intelligenza artificiale. Per gli amanti del Metal moderno, la recente opera della compagine guidata dalla singer Brittney Slayes farà sicuramente l’effetto di una panacea con i suoi enormi cori, sferragliate metalliche, melodie tonanti dal taglio cinematografico e qualche spruzzata elettronica tanto per ribadire il concept fantascientifico di fondo. E’ l’ennesimo album facile e furbacchione che strizza l’occhio a quel mainstream patinato in cui purtroppo sta finendo il mondo metallico. L’impatto è sicuramente notevole e grazie ad una produzione nitida e scintillante le tracce ne traggono grande giovamento (“Buried In Code”, “Ghosts in the Mist” o la devastante “Seeking Vengeance”). Il problema è un songwriting piattissimo e derivativo che non offre nulla di più a mille altri colleghi che popolano la scena e poco serve infilarci dentro qualche venatura Hard Rock (“Human Era” o “Blood Empress”), scream/growl forzati (la cattiva “The Collective”) ed inserti Progressive Metal (“Green & Glass”). La sensazione di povertà sonora è palpabile e si percepisce quella spiacevole ed oggettiva sensazione di già sentito, come gli abusatissimi interventi solisti neo classici, duelli tastiera/chitarra e batteria a mitragliatrice (“Ph4/NT0mA”), ritornelli ai limiti del Pop (“Gods in Decay”) e le prevedibili ballad pianistiche ( “Give It Up or Give It All”). Al giorno d’oggi tutto appare così perfetto, imponente e piacevole eppure è quella maschera che si fa via via più pesante, rigida e sempre più stretta.
Sia chiaro che il disco, per quanto di mestiere, è un validissimo prodotto da ascolto leggero e spensierato, ma lontanissimo da quella qualità che dovrebbe avere il genere e che lo rendeva così speciale tranne i rari casi più underground. Un prodotto eccellente nella forma, ma nella sostanza mostra tutti i suoi limiti. All’ascoltatore finale l’ardua sentenza.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    04 Luglio, 2024
Ultimo aggiornamento: 04 Luglio, 2024
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I californiani Witherfall non sono più un segreto. Attivi da poco più di dieci anni, il combo di Los Angeles ha saputo ritagliarsi il suo spazio nel panorama Heavy Metal americano, riuscendo a portare il metallo classico degli anni ottanta ad un nuovo livello, attualizzandolo ai tempi odierni. Un mix di old school e moderno insomma ed il rischio di finire nelle citazioni esagerate è sempre dietro l’angolo. Con una manciata di album pubblicati bisogna dare ragione ai Witherfall: nel giro di poco tempo il combo ha pubblicato dei piccoli gioiellini, forse troppo sopravvalutati dalla critica, eppure meritevoli di attenzione. "Sounds of the Forgotten" è quindi il quarto lavoro e segue di tre anni il precedente e validissimo "Curse of Autumn", ampliandone il mood già di per sé elaborato, segno che la band non ama tanto sedersi sugli allori. Sebbene ci sia stato un cambiamento alla batteria (entra Chris Tsaganeas al posto del mostruoso Marco Minnemann, che ha comunque registrato questo disco), le coordinate sonore non sono cambiate poi molto e soprattutto la qualità è rimasta invariata. Jake Dreyer (ex-Iced Earth e Demons and Wizards) e Joseph Michael (attualmente anche nei Sanctuary) costruiscono nuovamente una macchina da guerra feroce ed affamata, che da un lato sfrutta un notevole bagaglio tecnico e dall’altro punta alla distruzione con un bilanciato mix di Nevermore, King Diamond, Judas Priest (periodo Owens ovviamente) e molti altri oltre alle già citate band madri. Ogni brano ha una sua personalità e sebbene in alcune occasioni non abbia una chiara direzione, perdendosi, denota una ricerca ed una cura non indifferenti. Per fare qualche esempio: “Insidious” è una mitragliata thrashy che contiene delle accelerate di batteria quasi Death Metal, ma al suo interno ha stacchi acustici molto tetri, passaggi Doom ed una moltitudine di stili vocali impressionanti. “Opulent” richiama il Flamenco. L’opening track “They Will Let You Down” ha dei riff affilatissimi che poi impazziscono in un delirio Progressive Metal di forte impatto. “Ceremony of Fire” è una mitragliata US Power Metal, un rullo compressore con un lavoro di chitarra formidabile con dei passaggi epici ben scanditi dai cori. Non tutto però fila proprio liscio. “Where Do I Begin?” è un esperimento finito male, dato che si tratta di una ballad troncata a metà che all’improvviso diventa un Prog estremo in maniera abbastanza netta, mentre la title-track pare arrampicarsi sugli specchi e non lascia capire dove voglia andare a parare.
Rimangono fuori due delle migliori tracce del lotto. La prima è “When It All Falls Away”, più pacata e malinconica con delle delicate pennellate chitarristiche che esplodono poi in notevoli esplosioni rabbiose. La seconda è "What Have You Done?", lunga circa dieci minuti ma densa di dettagli ed atmosfere con dei muri di suono imponenti che non annoia mai. Un nuovo piccolo capolavoro, imperfetto forse ma sono i difetti a renderlo speciale.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    04 Luglio, 2024
Ultimo aggiornamento: 04 Luglio, 2024
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Parlare dei Teramaze equivale a tirare fuori una delle bands storiche del panorama Progressive Metal. Attivo fin dalla metà degli anni '90 (in realtà, all’inizio, si chiamava Terrormaze che poi divenne il nome con cui è conosciuto), il gruppo australiano ha sempre portato avanti con tenacia una sua visione rocciosa del genere. Inizialmente partito in una versione molto più rocciosa e Thrash Metal, con il passare degli anni si sono fatte largo influenze provenienti dai Dream Theater, Symphony X e Vanden Plas fra i tanti, unendo quindi anche una componente Power Metal. Capitanati nuovamente dal buon Dean Wells, unico membro storico rimasto, i Teramaze pubblicano questo nuovo "Eli - A Wonderful Fall from Grace", forse il disco meno metallico della loro carriera. Dopo l’intro “A Place Called Halo” si entra nel vivo con “The Will of Eli”, uno dei brani forse più rappresentativi del presunto cambiamento stilistico degli australiani. Le chitarre sono molto meno spesse e nervose e puntano ad una finezza figlia di maestri come i Fates Warning, idem per la sezione ritmica molto meno irruenta e più pacata. Le vocals sono davvero magnifiche, romantiche ma decise e valorizzate durante i cori grazie anche all’ottimo lavoro di tastiere. Ovviamente la componente Prog non manca ed ecco quindi comparire cambi di tempo, accelerate, intermezzi notturni acustico/malinconici e degli splendidi assolo bluesy. La seguente “Step Right Up” si fa più epica e metallica, innalzando la potenza dei riff, ma inserendoci dentro degli affreschi tastieristici visionari accompagnati da eterei voli di chitarra, creando un perfetto ibrido fra violenza e melodia. C’è veramente una voglia non indifferente di superare i propri limiti ed evolversi in qualcosa di più alto. Se da una parte ci sono episodi più classici come la fredda e cupa “Madame Roma” (con tanto di growl) e la quadrata “Standing Ovation” (con però delle interessanti derive Progressive Rock) o semi-ballad evocative modello Everon (“Hands Are Tied”), dall’altra ci sono atmosfere elaborate che flirtano anche con il Jazz grazie all’intenso sax presente nella lunga ed elaborata “A Wonderful Fall from Grace”. La band riesce sempre a tenere alto l’interessa non cadendo mai nella trappola del virtuosismo fine a sé stesso o nell’eccessiva durezza che caratterizzava gli esordi, sfornando un piccolo gioiellino che ben si accompagna a gemme discografiche come "Are We Soldiers" e "Sorella Minore", forse le loro opere migliori. Negli anni la band è stata molto prolifica soprattutto dal periodo pandemico e nella marea di pubblicazioni è uscito davvero qualcosa di molto valido. Fatelo vostro!!!

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    04 Luglio, 2024
Ultimo aggiornamento: 05 Luglio, 2024
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Dopo circa quattro anni dal precedente "Elysium" ritorna con nuovo album il combo thailandese Melodius Deite. Questo "Demonology" si distacca nuovamente sia dall’ultimo album che dalla precedente trilogia ("Dream On", "Voyage Through the World of Fantasy" e "The Archangels and the Olympians"), per inaugurare una nuova saga sempre orientata nuovamente a tematiche fantasy ed al Power Metal neoclassico, avvalendosi anche di una nutrita schiera di special guests. L’ultimo lavoro era già stato trattato in queste pagine e mostrava una band ancorata fortemente ad un’ideologia Malmsteeniana ed a certe rimembranze del Power Metal nordeuropeo degli anni '90. Anche in questa occasione la minestra è sempre la stessa e si porta avanti, sfortunatamente, anche i problemi di produzione che affliggevano il passato andando a segare tastiere e batteria che paiono di plastica. Ma su questo ci si potrebbe anche passare sopra. Il problema di fondo è la testardaggine di voler proseguire su di un genere che sta invecchiando velocemente e malamente, fatto di velocità folli e virtuosismi spesso buttati a caso solo per una mera dimostrazione di abilità strumentale. Andando nel dettaglio, per capire meglio la situazione, basta far partire l’ultra tecnica “Lucifer (The Fallen Star)” con il suo guitarwork iper elaborato che duella con le tastiere e si schiariranno subito le idee. Una pioggia di note senza sosta condite da vocals epiche e colme di cori esagerati alla Dragonforce, ovviamente su una base chiaramente proveniente dalla musica classica (“Knights of Heaven”), con qualche intarsio Progressive Metal tanto per complicare le cose. Le cose peggiorano quando compaiono le screaming vocals, invero troppo effettate, che stonano nel complesso donando quella venatura estrema poco convincente e mal inserita (“Warriors’s Heart and Soul” e “Full Moon Howls”), ma anche quegli abusatissimi stacchi aristocratici sentiti migliaia di volte che danno veramente fastidio quando dovrebbero essere qualcosa di speciale (“Heroes Strike Back”). Nella lunghissima sequela di tracce gli episodi migliori risultano quelli più semplici come la fiabesca “Prince of the Nightfall”, “Overture of Silence”, la battagliera e veloce “Prepare for Battle”, l’epica e corale “Lament of the Banshee” e la posata “Witchery”, che nel complesso si lascia ascoltare piacevolmente. Si dice che “squadra che vince, non si cambia”, ma in casi come questi ci sono preoccupanti problemi di fondo che alla lunga potrebbero portare all’autocombustione. Solo per fans sfegatati del genere.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    04 Luglio, 2024
Ultimo aggiornamento: 04 Luglio, 2024
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I finlandesi Hanging Garden sono una di quelle bands che riesce sempre a mantenere alta la qualità nonostante i non pochi anni di carriera alle spalle. Reduce dal bellissimo "The Garden", uscito l’anno scorso, la combriccola nordica decide di avventurarsi in un’operazione molto rischiosa, ossia la pubblicazione di un EP, al momento solo digitale, con delle rivisitazioni di alcuni brani provenienti dall’ultimo album. Tali registrazioni sono avvenute in sede live in occasione di un’intima performance presso la galleria espositiva Paja & Bureau di Helsinki, specializzata in metallurgia. L’opera in questione si intitola "Citylight Sessions" e presenta cinque brani in una versione totalmente trasformata rispetto al Gothic/Doom Metal originale, con una formazione allargata per l’occasione a otto musicisti. Ci si dimentichi delle chitarre imponenti, delle bordate di batteria possenti, delle atmosfere apocalittiche o delle melodie epiche come pure delle growl vocals. La componente metallica è totalmente, o quasi, abbandonata in favore di una costruzione dei brani molto più stratificata ed eterea. La prima traccia, “The Journey”, trasforma le chitarre in pennellate sognanti, il mood diventa notturno e metropolitano grazie ai synth, mentre le voci pulite sono il tassello mancante per rendere il brano totalmente da abbandono dei sensi. “The Four Winds” si fa ancora più urbana con un mood molto noir dettato dalla delicata sezione ritmica, che si intreccia al tocco leggiadro delle sei corde. L’impeto viene messo da parte in favore di un songwriting dal sapore elettronico che si fa disturbante e glaciale, ai limiti dell’Industrial (“The Garden”), lisergico e colmo di dettagli da catarsi (“The Fireside”) ed a volte a braccetto con il Trip Hop dai crescendo melodici meravigliosi pregni di una sottilissima anima bluesy (“The Construct”). Tutta la band offre uno spaccato differente del proprio sound ed è sorprendente come il risultato finale sia così valido senza risultare forzato. Potrebbe essere un segnale di un futuro cambio di sound? Oppure è un caso isolato? Un’opera splendida che avrebbe meritato una release fisica, ma che soffre unicamente del fatto che i brani sono delle rivisitazioni e non dei brani originali. Meritevolissimi di ascolto come sempre!!!

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    04 Luglio, 2024
Ultimo aggiornamento: 04 Luglio, 2024
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Sono passati otto anni dalla loro ultima fatica discografica eppure gli eroi metallari del New Jersey, gli Attacker, sono ancora fra noi carichi come sempre e vogliosi di sparare sugli ascoltatori una massiccia dose di metallo americano, ovviamente old school. Per gli ascoltatori più giovani è bene sapere che gli Attacker sono in giro da quarant’anni e proprio questo nuovo album chiamato, "The God Particle", vuole proprio omaggiarne l’anniversario. A capo c’è, come sempre, il batterista Mike Sabatini, unico rimasto dei membri fondatori che contribuirono a creare il debutto "Battle at Helm’s Deep" nel 1988. Musicalmente si parla ovviamente di Heavy Metal (o anche US Power Metal) decisamente grezzo e minimalista, poco incline a barocchismi o tecnicismi ma semplicemente dedito ad un feroce assalto all’arma bianca che si presenta decisamente più sporco e malvagio rispetto al precedente disco "Sins of the World", portandolo a dei livelli sonici ai limiti del Thrash Metal come la micidiale “Knights of Terror”, che mette subito le cose in chiaro. I riff primitivi, il cantato screaming aspro e la sezione ritmica piena e compatta: questo è ciò che si trova nei meandri dell’album che potrebbe richiamare anche i Judas Priest oppure anche i Primal Fear più violenti. La recensione potrebbe anche fermarsi qui, dato che nel complesso i brani seguono la via della traccia di apertura senza particolari cambiamenti rispecchiando l’amore illimitato della band per il genere. Andando nel dettaglio si assiste a veloci cavalcate di batteria (“Stigmatized” o il pathos eroico di “The Mighty Have Fallen”), tendenze Heavy/Thrash Metal (“Kingodm of Iron” e la maestosa “World in Flames” con le sue belle impennate), Power Metal classico (“River of Souls”) e qualche concessione al Metal classico britannico nella sinistra “Curse of Creation”, che grazie ai suoi cupi giri melodici e cantato tetro richiama alla mente qualcosa degli Iron Maiden. La band è rodata, compatta e l’ottima produzione valorizza benissimo gli strumenti, in particolare il basso, che escono nitidi ed affilati dalle casse. Il neo più grande è il suo essere fedele ad un genere che sta invecchiando male ed ogni anno che passa rischia di perdere fan, dato che solo gli appassionati “irriducibili” seguiranno tal genere. Gli altri, purtroppo, potrebbero non accorgersi degli Attacker, in quanto band minore e troppo legata agli stilemi. "The God Particle" è l’Heavy Metal nella sua forma più pura e primordiale. Piacerà ai metallari vecchio stampo e forse attirerà qualche nuovo adepto. C’è tanta passione in ogni nota, ma non sempre basta.

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    04 Luglio, 2024
Ultimo aggiornamento: 04 Luglio, 2024
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Il percorso dei maltesi Weeping Silence è stato decisamente travagliato fin dalla nascita nel 1998. Partiti inizialmente come band Gothic Metal con voce femminile, nel corso degli anni fra cambi di formazione e stile la band ha visto un cambio di genere che li ha portati verso un Melodic Doom/Death metal con contaminazioni Progressive Metal e l’utilizzo totale della voce maschile. Ben otto anni sono passati dal precedente "Opus IV Oblivion" (il quarto album) e le differenze con il recente "Isles of Lore" si notano parecchio, grazie ad una produzione ottimale che valorizza gli strumenti e l’abbandono delle vocals femminili di Diane Camenzuli. Ne consegue sicuramente un indurimento non indifferente del sound dei Nostri, ma in ogni caso le cesellature melodiche e le finezze strumentali sono ancora ben presenti. Il disco si ispira al folklore locale fatto di creature, personaggi storici e leggende del paese natale della band che si andrà a spiegare nel dettaglio durante la recensione. Come anticipato, il disco si presenta nitido e cristallino e permette di godere di un’eccellente qualità audio, ma soprattutto vira verso un songwriting parecchio elaborato. Molti brani sono spesso caratterizzati da parecchi cambi di tempo e di umore. Ne è riprova il pezzo di apertura, sorta di inno ad un antico spirito guardiano che veglia sugli abitanti locali, che contiene una moltitudine di elementi: dalle chitarre melodiche ancorate al Doom, alle accelerate di batteria, voci pulite, tastiere orchestrali, assolo malinconici ed epici crescendo, il tutto condensato in pochi minuti senza che ci sia confusione; un miscuglio fra le atmosfere placide degli Amorphis e la robustezza drammatica dei Moonspell. Non mancano comunque episodi più massicci come i riff arrembanti della magnifica “Serpentine” e la sua enfasi nelle melodie tipica degli Evergrey, o la furiosa “The Collector” che richiama la grande mietitrice in versione femminile che appare al momento della propria morte. La componente Death Metal è anche essa presente nelle bordate feroci di “Engulfer” (antico mostro leggendario di cui si narravano le gesta per spaventare i bambini), nell’equilibrata “Where Giants Roamed” con le sue sfiziose ritmiche di batteria e tante sfumature nascoste o nel Progressive Death di “A Silent Curse”. Le perle più rare sono i due brani più lunghi. Il primo è “The Beast and the Harrow”, che mischia intermezzi psichedelici, parti Ambient, drumming jazzato, melodie che salgono fra gli astri e dei muri di suono imponenti. Il secondo, di sedici minuti, “The Legend of Matteo Falzon” (che narra le vicende di Matti Falzun, nobile che fu condannato come eretico dall’Inquisizione e che scappò in Sicilia nascondendosi dentro un barile), è un Doom apocalittico pregno di tastiere catacombali, spruzzate Jazz, tenui accenni Folk e drammatiche linee pianistiche. Non si poteva chiedere di meglio. Bentornati Weeping Silence!

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Opinione inserita da ENZO PRENOTTO    04 Luglio, 2024
Ultimo aggiornamento: 04 Luglio, 2024
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I bresciani Ignis Absconditus sono una delle tante piccole perle imperfette nascoste nell’underground nostrano. Nati nel 2018, ma provenienti da diverse realtà Metal ed Ambient (Nebrus, Nott e Flusso Delirante Persecutorio), il combo italiano guidato dal polistrumentista Henry Der Wanderer e dalla cantante Noctuaria, raggiunge la tappa del secondo disco a nome "Golden Horses of a Dying Future", un lavoro ambizioso che mira ad ampliare il ventaglio di sonorità rimanendo comunque ancorato alla Darkwave ottantiana. Il primo lavoro, "Portrait of Beyond", era fortemente debitore del Neo-Folk oltre che dalle atmosfere cupe dei Christian Death, ma qui ci sono sostanziali cambiamenti o comunque una certa evoluzione. Viene dato ampio spazio alla componente gotica e teatrale, su cui ci vengono ricamati sopra svariati chiaroscuri come gli accenni Post-Punk dell’ opener “Shadows”, il ritorno alla Darkwave in “Lucid Madness” (seppure derivativa funziona alla grande) o anche qualche concessione al Metal tanto caro a malinconici colleghi come Katatonia o Evergrey. Non è un caso che si parli del mondo metallico perché non sono pochi i muri di chitarre che vengono fuori durante l’ascolto e difatti ecco comparire riffs micidiali in “Mr. Smith”, accelerazioni non indifferenti nella rocciosa “Mental Roulette” o le stridenti e acide note della lunga e finale “Chasm of Deceit” pregna di un evocativo coro. Non da meno è la sezione ritmica che fa molto di più che da semplice collante, ergendosi quasi a protagonista alla maniera di certi Bauhaus che fanno quasi da padrini per la maggior parte dell’album: le ossessive ritmiche circolari e la secchezza della chitarra trovano spazio nella gelida “Wolfheart”, basso e batteria viaggiano spesso in prima linea per poi lasciare che la distorsione faccia il resto (“Seagull's Laughter”). Le vocals sono quasi in sottofondo e si fanno via via più lontane, aliene per lasciar spazio ad incalzanti e variopinti fraseggi strumentali (“Carousel of the Departed”) fino agli amplessi Dark/Punk di “Weight of Knowledge”, fulgido esempio di Gothic Rock sfibrato ed epico. Moltissime le influenze e sebbene l’originalità sia ancora latente bisogna dare atto che questo nuovo album degli Ignis Absconditus ha quella magia che invoglia ad ascoltare più volte per cogliere ogni dettaglio.

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