Opinione scritta da Luigi Macera Mascitelli
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L'intransigenza è una qualità che, se da una parte rende unici e per certi versi forti, dall'altra rischia di plasmare un'immagine piatta, scontata e prevedibile. Questo è esattamente il caso di una band leggendaria, che nel bene e nel male è da più di quarant'anni che macina la stessa formula: i tedeschi Destruction. Un gruppo che non necessita minimamente di presentazioni e che a buon diritto siede con Sodom e Kreator tra le band teutoniche più influenti e leggendarie di sempre. Giunti al diciottesimo disco, il qui presente "Birth of Malice", i Nostri si presentano ESATTAMENTE per quello che sono: un carro armato che investe e devasta tutto ciò che gli si para davanti. Ma, come dicevamo all'inizio, è doveroso parlare anche dell'altra faccia della medaglia, quella che, ahinoi, ultimamente sta facendo capolino tra le ultime produzioni di Schmier e soci: la monotonia.
Ora, che lo stile dei Destruction sia quello e basta - e in fondo ci piace così com'è - è cosa nota e risaputa; tuttavia è innegabile come la discografia risenta parecchio ultimamente di questo costante ripetersi delle stesse soluzioni, proposte praticamente con il pilota automatico e che di fatto rendono ogni nuovo disco della band "l'ennesimo" disco della band, né più né meno. Che sia un pregio o un difetto non spetta a noi stabilirlo, ma ci riserviamo di far notare come il cambio di line-up che vide l'ingresso di Martin Furia alle chitarre, sembrava avesse portato un momento di freschezza nel songwriting, tanto che "Diabolical" del 2022 effettivamente quel guizzo in più ce l'aveva eccome. Eppure in questa sede sembra quasi che l'accenno di novità si sia dovuto conformare a quello che è effettivamente lo stile dei Destruction da 4 decenni e più. Inevitabile, dunque, non notarlo e fare qualche ragionamento.
Discorso a parte lo merita, ovviamente, il leggendario frontman: Schmier. Inossidabile, indistruttibile, immune alla fatica. Insomma, un leader eccezionale, non c'è storia. Ma - perchè c'è sempre un ma -, anche in questa sede lo ritroviamo al suo posto comodo, con soluzioni canore perfettamente prevedibili; il che, lo ribadiamo, è un difetto e un pregio contemporaneamente. Insomma, è chiaro che dopo tutto questo tempo non si possa nemmeno pretendere chissà quali stravolgimenti, però è altrettanto vero che è da parecchio che i Nostri sono ormai schiavi di certi cliché e inevitabilmente seguiti dal senso di monotonia. A voi l'ardua sentenza.
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Avanguardisti, futuristici, imprevedibili. Sono questi gli aggettivi con i quali descriviamo i liguri Sadist, band ampiamente nota che in questo 2025 spegne i 34 anni di carriera con il qui presente "Something to Pierce": un disco che abbraccia perfettamente la descrizione con cui abbiamo aperto la recensione.
Descrivere lo stile dei Sadist, o comunque cercare di imbrigliarlo in determinate coordinate stilistiche, è impresa pressocché impossibile, perchè se c'è un fattore che caratterizza i Nostri fin dal principio è proprio il fatto che ogni album è un'opera a sé, sempre diversa dalla precedente e mai uguale. In maniera quasi controintuitiva è propria questa peculiarità che rende i Sadist, per l'appunto, i Sadist. Il decimo sigillo licenziato da Agonia Records non è da meno, e ci presenta una band rinnovata nella formazione ma anche nello stile. Laddove il precedente album si presentava più massiccio e, se vogliamo, feroce, ecco che in questo frangente a farla da padrone indiscusso è il songwriting estremamente eterogeneo, liquido e sfuggente. Un continuo sali-scendi dove il Death Metal si insinua tra strutture e sovrastrutture compositive labirintiche, quasi caotiche, per poi riuscire e infilarsi di nuovo nelle fessure. Il tutto accompagnato da una sezione ritmica e canora che rendono l'intera opera esattamente come la descriviamo dall'inizio: imprevedibile. Sembra quasi che la parola d'ordine usata dai Sadist in "Something to Pierce" sia "curiosità": dove i brani sembrano perdersi nella marea ecco che salta fuori quel quid che ti riporta su lidi più definiti, e così via. Chiaramente non stiamo parlando di una band di facile fruizione, ma d'altronde viene da sé che questa impostazione sia quasi elitaria o comunque per chi abbia voglia di addentrarsi nel Progressive Death più contorto e sfuggente, benché affermiamo senza problemi come l'eterogeneità del gruppo non sia da intendere come caos. Nel calderone è sempre - e lo sottolineiamo - presente la firma dei Sadist a ricordarci che siamo nel loro territorio. Insomma, un'opera che non dovete assolutamente perdervi e di cui andare orgogliosamente e patriotticamente fieri.
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Gli olandesi The Monolith Deathcult sono una di quelle band che o le ami o le odi, senza vie di mezzo; ed il perché è presto detto. Dediti ad un Death Metal pesantemente tinteggiato di sezioni elettroniche, rumori di fondo ed in generale ad un songwriting estremamente ricco al limite del pomposo e pacchiano. Insomma, tutti ingredienti che, nel bene o nel male, sono il marchio di fabbrica di una band attiva da più di vent'anni. È con queste premesse che presentiamo "The Demon Who Makes Trophies of Men", nono album che segue esattamente la strada battuta fino ad ora. Una strada che, ironicamente, ci fa percepire un gruppo perfettamente a suo agio in questa accozzaglia di elementi; anzi, sembra proprio che i The Monolith Deathcult si trovino nel posto giusto al momento giusto, laddove un'altra realtà verrebbe immediatamente cestinata. Da qui segue come il quartetto si sia ritagliato la propria fetta di seguaci e abbia tirato fuori nel tempo degli album comunque degni di nota, fosse solo per l'estrema regalità - quasi pacchiana per l'appunto - dei brani proposti. Eppure anche in un guazzabuglio di ghirigori, rumori ed effetti, i Nostri vantano un comparto tecnico di tutto rispetto, con dei musicisti in grado di elevare un muro sonoro che difficilmente si scorda, a metà tra il Death feroce e tellurico e le ritmiche catchy e martellanti dei Rammstein - con tutte le analogie stilistiche e di immagine che questi ultimi hanno -. Insomma, come si diceva all'inizio, o li ami o li odi proprio per questo stile che fonde l'autoironia, lo sfarzo, la goliardia, la cafonaggine e il lusso, senza mai riuscire a capire se sia quasi uno scherzo. In generale questo "The Demon Who Makes Trophies of Men" ci è piaciuto ed ha confermato nuovamente l'ottimo stato di salute della band. Poi, come si suol dire: i gusti sono gusti.
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Dediti a quello che potremmo tranquillamente definire il filone più contorto, caustico, caotico e malato del Death Metal, i newyorkesi Pyrrhon sono sicuramente i maestri indiscussi della follia fatta musica, quella che ti scioglie letteralmente il cervello lasciandoti con le sinapsi completamente distrutte. È in questo senso, dunque, che deve essere inteso il qui presente "Exhaust", quinto sigillo del quartetto che va a coronare il quindicesimo anno di vita di questa particolare band. Un album, lo diciamo subito come del resto facemmo per il precedente lavoro, che non è assolutamente per tutti, soprattutto per coloro che ricercano una certa armonia musicale o comunque una linearità nelle tracce. Ecco, dimenticate tutto questo, perchè ascoltare i Pyrrhon significa semplicemente buttare al cesso qualsiasi punto di riferimento o di sanità mentale: qui a farla da padrona è la nevrosi più totale schizzata di acido. Rispetto ai capitoli precedenti tuttavia, qui i Nostri hanno deciso di "snellire" la proposta andando ad alleggerire il songwriting preferendo la scorrevolezza dei pezzi, per quanto si possa parlare di scorrevolezza in un disco che sembra più un gorgo oscuro dove inizio e fine, destra e sinistra, su e giù si confondono in un unica marcescente creatura. VA detto però che la grandiosità dei Pyrrhon è proprio quella di generare il caos più totale con un certo ordine, risultando quindi estremamente complessi e difficili(ssimi) da ascoltare, ma al contempo sempre riconoscibili e puntati verso una sola direzione. Un lavoro, ripetiamolo, che non è per tutti, ma che tuttavia riesce a modo suo a rapire l'ascoltatore che vuole dare loro più di una possibilità.
Ultimo aggiornamento: 09 Dicembre, 2024
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Con 3/4 di band rinnovata ed il solo Vance Valenzuela rimasto della formazione originale, gli statunitensi Vale Of Pnath sono arrivati ad un punto di svolta nella loro carriera. Un giro di boa che, a dirla tutta, già aveva iniziato a manifestarsi con la pubblicazione dell'Ep "Accursed" nel 2019: un primissimo segnale di un profondo rinnovo all'interno della baracca. Ed eccoci qui, dunque, dopo otto anni dal secondo album "II" con questo colossale "Between the Worlds of Life and Death". probabilmente e sorprendentemente il disco più completo e sentito del quartetto di Denver; figlio diretto di quel processo di cui parlavamo all'inizio e che già si avvertì nel 2019.
Ora, che i Vale Of Pnath appartengano a quel filone ormai consolidato e caratteristico del Technical Death americano è cosa nota e risaputa: il sound è quello che fa capo a gente come Allegaeon, Inferi, Rivers Of Nihil o The Faceless. Tuttavia ciò che ci ha positivamente stupito di questo "Between the Worlds of Life and Death" è l'efficacia del sound unita ad un songwriting compattissimo che costantemente si tinge di Black Metal, spostando dunque l'asticella dalla tecnica all'atmosfera e viceversa, andando quindi a creare un gioco di luci ed ombre che si intrecciano di continuo. Possiamo dire senza paura che questo stile sia praticamente unico ed inconfondibile: dalla prova canora indiscutibilmente promossa alla sezione ritmica che ci regala dei passaggi di batteria chirurgici e monolitici. Il tutto, lo ripetiamo, fa da ossatura ad un riffing portentoso e ricchissimo di passaggi affatto stucchevoli o tirati troppo per le lunghe: c'è tantissima tecnica, certamente, ma sapientemente utilizzata. Il risultato sono nove tracce - di cui intro e outro - perfettamente riuscite ed altrettanto sentite. Insomma, è chiaro come il Sole che i Nostri abbiano appena dato il via ad una seconda fase con il botto, e noi non possiamo che esserne felici. Complimenti!
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Parliamoci chiaro: ogni tanto ritornare al buon vecchio "classico" fa sempre piacere e bene. Quella sorta di zona che non definiremmo "comfort" per non darne una definizione erroneamente negativo. Diciamo allora che staccare dalle continue innovazioni per ritornare sulle antiche strade che ci hanno portato ad esplorare i lidi più remoti del metal, è qualcosa di sempre gradito. Ecco, con questa premessa presentiamo questo secondo disco degli svedesi Crawl dal titolo "Altar of Disgust", licenziato dall'ottima Trascending Obscurity Records. Un disco che fa esattamente ciò che ti aspetteresti da una band che mangia pane Entombed, Carnage e Dismember: pestare forte, ma tanto forte... Fortissimo. Stop, nessun ghirigoro né fronzolo di abbellimento: puro e semplice Swedish Death nella sua forma più grezza e feroce, per tutti gli amanti del più classico dei classici. E sapete cosa? A noi non ce ne frega nulla se i Nostri non si siano inventati nulla. Ci piacciono così, fedelissimi alla vecchia scuola con un approccio davvero sentito nei confronti del genere. Tanto basta a rendere il secondo album dei Crawl una piccola gemma che non si pone nessun obiettivo avanguardistico, quanto quello di mantenere intatta la vecchia via con un sound ormai leggendario. E sinceramente, in un mondo che guarda solo avanti, è bello trovare ancora qualcuno che lo specchietto all'indietro lo punta ancora.
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Sembrerebbe quasi che lo facciamo apposta ma non è così: ogni volta che l'artista milanese Gabriele Gramaglia pubblica un disco, vuoi con i suoi Vertebra Atlantis, vuoi, come in questo caso, con i suoi Cosmic Putrefaction, possiamo dare per scontato che si tratterà di un capolavoro. Guarda caso anche oggi siamo di fronte a qualcosa che va oltre il Death Metal; una vera perla rara destinata ad arricchire una discografia che già nel 2022 con "Crepuscular Dirge for the Blessed Ones" portò i Cosmic Putrefaction su di un livello quasi inarrivabile. Con sommo orgoglio patriottico presentiamo questo magnifico quarto disco della one-man-band dal titolo "Emerald Fires Atop the Farewell Mountains", Probabilmente il disco più completo, personale e potente partorito dalla mente di Mr. Gramaglia.
Se già due anni or sono i Cosmic Putrefaction ci convinsero a pienissimi voti, tanto da guadagnarsi il titolo di "Album dell'anno", qui, oltre a ribadire il primo posto - di nuovo - confermiamo ancora quanto questo ragazzo sia un visionario che riesce a portare il Death Metal verso dei confini finora toccati solamente da gente come Tomb Mold, Demilich, Immolation, Morbid Angel e Blood Incantation. Il che già basterebbe come biglietto da visita. Tuttavia Gramaglia non si è voluto fermare qui: come anche egli ci spiegò in una nostra intervista - recuperatela -, il concetto di base non è tanto cosa fare CON il Death Metal, ma NEL Death Metal. Tradotto: umiltà, estro artistico e dei "semplici" strumenti. Tutti ingredienti facilmente reperibili ma il più delle volte snobbati dalla proverbiale troppa carne sul fuoco. Qui, al contrario, siamo di fronte ad un disco con elementi più che riconoscibili, ma usati con sapiente maestria risultando unici ed irripetibili. A differenza del precedente disco, questo "Emerald Fires Atop the Farewell Mountains", che conta ancora una volta il fantastico lavoro di Giulio Galati dietro le pelli, risulta più disturbante e per certi aspetti caotico, quasi a richiamare gente come Triumvir Foul o Teitanblood ma senza effettivamente toccarne lo stile. Si tratta dunque di un album complesso e molto più stratificato del precedente - cosa che chi vi scrive reputava impossibile - e quindi molto più complesso da digerire. Eppure traccia dopo traccia i Cosmic Putrefaction creano uno scenario apocalittico, come se il precedente viaggio Dantesco non avesse portato ad un'assoluzione, ma all'inizio di un percorso ancora più contorto e claustrofobico. Complice di tutto ciò è certamente il songwrtiting più intenso e sentito come un fiume in piena ed una produzione corposa e martellante. In pratica se prima ci sembrava che Mr. Gramaglia avesse dato libero sfogo alla sua inventiva, qui dobbiamo ricrederci e spostare il confine ancora oltre. Il risultato è questa perla che va ad arricchire il genere e che DEVE essere presa come punto di riferimento se ci si vuole cimentare in questo filone. Senza girarci attorno concludiamo con quanto detto all'inizio: questo è il disco più convincente, sentito e profondo mai scritto fino ad ora, che di diritto vince il titolo di "Disco dell'anno". Complimenti!
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Dopo un brillante debutto nel 2017 ed un fenomenale Split nel 2020 con gli Antedeluvian, gli Heresiarch tornano a caricare con una ferocia disarmante con il qui presente "Edifice", un monolite di malvagità allo stato puro in cui i Nostri si confermano ancora tra i nomi di punta del cosiddetto War Metal. Un mix assassino di Black e Death Metal che non lascia scampo a nessuna forma di quiete o qualsivoglia ghirigoro di abbellimento. Se, dunque, siete fan della frangia più caotica del genere, quella che fa capo a gente come Diocletian, Teitanblood, Revenge, Antichrist Siege Machine e compagnia bella, allora siete nel territorio giusto.
Probabilmente il miglior attributo per definire questo "Edifice" è claustrofobico: i riff sono pesantissimi e dissonanti, ai livelli della follia Lovecraftiana dove tutto perde di senso ed ogni cosa sembra stringersi attorno al collo fino a soffocare il più piccolo barlume di luce. Insomma, tutto - del resto il genere lo dice già di suo - porta a pensare solo alla guerra e alla distruzione, con un songwriting affatto scontato o prevedibile. Particolarità, quest'ultima, che rende gli Heresiarch piuttosto unici perchè imprevedibili: le strutture dei brani sono arzigogolate, al limite del caos, eppure sempre e comunque puntate verso una sola coordinata, risultando quindi coerenti e al contempo a sé stanti. Da una parte c'è quindi la componente riconoscibile del genere, perfettamente riconducibile ai nomi citati più su; ma dall'altra troviamo delle strutture e delle soluzioni piuttosto uniche, come le spennellate Death Doom che interrompono bruscamente una cavalcata o chiudono un brano in maniera quasi epica, quasi come uno scontro all'ultimo sangue giunto al termine. Il tutto condito da una prova canora eccezionale che sembra provenire direttamente dalle viscere della terra. Insomma, "Edifice" è un disco imperdibile sia per chi ama il genere, sia per chi non lo mastica ma ricerca comunque un album ragionato e affatto scontato.
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Recensire "Servitude", nuovo capitolo dei newyorkesi The Black Dahlia Murder non è impresa facile. dopo la morte dello storico e carismatico frontman Trevor, per i Nostri si è aperta una strada assai facile da percorrere: da un lato mantenere il retaggio di una figura importantissima nel mondo del metal; dall'altra riuscire comunque a (ri)dare un senso a tutta la questione. È in questo senso che l'album va visto, con tutti i pro e i contro del caso. Innanzitutto un plauso allo storico chitarrista e fondatore Brian Eschbach che ha sostituito Trevor alla voce, con un risultato a dir poco eccezionale, tanto che in alcuni punti sembrano davvero uguali nelle timbriche. In secondo luogo, poi, siamo di fronte esattamente a ciò che ci si aspetterebbe da un disco dei TBDM: Melodeath al fulmicotone ferocissimo ed estremamente tecnico, in pieno stile americano. Probabilmente ciò che colpisce, in negativo, di questo album è il fatto di essere leggermente sottotono rispetto ai capitoli precedenti. Se da una parte lo stile è quello, immutabile, ancorato e ben rodato, dall'altro ci è sembrato di notare alcuni eccessi in virtuosismi e giri di chitarre che certamente mostrano una band in forma, ma dall'altra rischiano di annoiare o comunque di far perdere il focus. Per chi vi scrive Brandon Ellis è attualmente uno dei migliori chitarristi in circolazione, con una tecnica pulitissima ed un estro artistico veramente ottimo; tuttavia c'è da sottolineare come queste due qualità se spinte troppo possono suscitare l'effetto indesiderato di risultare prolisse. Fatto salvo nelle tracce in cui i Nostri colpiscono fin da subito secchi e diretti, alcuni capitoli delle dieci tracce presenti arrancano un po' da questo punto di vista. In sostanza "Servitude" è un disco che va ben oltre la media senza tuttavia brillare come avvenuto in passato, ma visti i recenti e tragici avvenimenti non potevamo aspettarci di più da una band che si è appena rimboccata le maniche nel tentativo di ricominciare da capo senza Trevor. Per questo motivo ci sentiamo, non scevri da sentimentalismi, di promuovere il disco con un mezzo punto in più.
Ultimo aggiornamento: 19 Settembre, 2024
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Potenti, accattivanti e adrenalinici: così si potrebbero descrivere i finlandesi Bloody Falls, band attiva dal 2017 giunta al suo terzo disco dal titolo "Amartia". Un disco che al suo interno presenta una commistione molto ben riuscita tra il filone Groove ed il classico Melodic Death, con una maggiore propensione verso il primo a dirla tutta. Comunque sia i Nostri si cimentano in una prova ben al di sopra della media grazie a dei riff totalmente spaccaossa che in alcuni punti potrebbero ricordare i Pantera o i Lamb Of God. Tuttavia non siamo di fronte ad una mera emulazione, ma a un disco che nel suo non avere tutta questa personalità sa comunque regalare dei bei momenti. Banalmente è proprio dove i Nostri si cimentano nelle parti cadenzate che l'album prende il volo; ed effettivamente i Bloody Falls ci sanno fare parecchio. Tuttavia laddove la componente Melodic Death fa la sua comparsa, ecco che spesso si ricade in stilemi fin troppo noti, con arpeggi e gemellaggi di chitarre quasi prevedibili, anche se nel complesso la formula funziona e porta a casa un discreto risultato. In sintesi, dunque, la band riesce in pieno nel suo tentativo di offrirci un prodotto sopra la media, pur non eccellendo in estro artistico, confermando quanto si diceva nel titolo: al posto giusto nel momento giusto, senza infamia e senza lode.
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