Opinione scritta da MASSIMO GIANGREGORIO
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Ultimo aggiornamento: 12 Marzo, 2023
Top 50 Opinionisti -
Per le vecchie rocce come me, quando si sente pronunciare o si legge la frase "Never Surrender", per associazione di idee la mente corre subito alla mitica canzone dei fantastici Saxon inserita nell'immortale album "Denim and Leather". Così come ogniqualvolta si pensa alla scena francese del Rock duro in genere, sempre per associazione di idee, la mente corre subito a quei Trust che furono la band del mostruoso drummer Nicko Mc Brain, approdato poi alla corte della Vergine di Ferro dell'epoca di "Piece of Mind" (chi non ricorda il suo attacco bestiale in "Where Eagles Dare"?). Ebbene, questo debut album dei francesi Titans Rage non è affatto male: Heavy Metal che più classico non si può, da veri e propri "defenders of the faith" ultra ortodossi, in cui nessuno degli elementi che compongono il giusto mix di metallo pesante viene tralasciato o trascurato. Riffoni in gran spolvero, voce al vetriolo, chitarroni in primo piano, sezione ritmica tellurica, assolacci al fulmicotone e songwriting godibilissimo (ma nulla di miracoloso...) all'insegna di una pregevolissima rivisitazione dei canoni metallici. Questa volta, anziché partire con l'ascolto dalla opening track, sono andato direttamente ad ascoltare il pezzo dedicato a Lemmy, una delle vere e proprie icone del Rock di tutti i tempi (la curiosità era troppa, n.d.r.): divertentissima, ti fa scattare la pogata che è una bellezza, con Olivier Bourgeois che per l'occasione arrochisce la voce per una performance in perfetto "Motorhead style" con tanto di inserto vocale del mostro sacro al quale è ispirato il brano. Passando a valutare le altre tracce, l'outtake della opening/title-track è un autentico assalto all'arma bianca mentre la seguente "Saints of Hell" ha l'incedere di un caterpillar; "Amon Is Alive" si apre con un giro di basso inquietante, come lo è l'intero pezzo che - come fecero i Maiden - rievoca la grandeur dell'Antico Egitto. Peraltro, un po' come tutte le bands che destreggiano il Power classico, anche i Titans Rage pagano dazio agli Iron Maiden stessi, una delle principali influenze del gruppo (basti sentire la estrazione dickinsoniana dell'ugola di Olivier per rendersene facilmente conto). Le tracce successive (a cominciare da "Welcome to my Hell") non fanno che confermare il tutto: il full-length si chiude con una "The Kraken" in puro Iron Maiden style efficacissimo. Insomma, questa prima fatica dei nostri vicini d'Oltralpe è un vero "French assault" (e, anche qui, scatta l'associazione di idee con la serie di EP dei sulfurei Venom... è proprio vero che sto invecchiando..) arrembante e massiccio: provare per credere!
Ultimo aggiornamento: 04 Marzo, 2023
Top 50 Opinionisti -
Ed eccoci nuovamente al cospetto di una band proveniente dalle gelide lande finniche, dove - allorquando correva l'anno 2004 - per riscaldarsi un po' le membra in preda ai geloni, gli Antipope hanno pensato bene di mettere tutto a ferro e fuoco creando un micidiale mix di Progressive, Black, Gothic ed Industrial Metal. Le tematiche care al combo finlandese sono state, in un primo momento, quelle ideologiche, religiose (beh, per la verità non è che il nome della band lasci spazio alla immaginazione..) e mitologiche, per poi evolversi verso quelle più intimistiche ed introspettive. Non il solito black metal scandinavo tutto blast beat e chitarre a zanzara con un suono a scatoletta, questo album è molto di più: è un crogiolo di stilemi e di idee musicalmente perverse e pericolosissime. Dopo una bella intro, da brividi come non se ne sentivano da tempo, irrompe una "Rex Mundi Aeternum" che - nei suoi ben 10 minuti di durata - ci fa inerpicare per sentieri sonori perigliosi ma affascinanti, dove davvero succede di tutto e di più, e non vi svelo altro! La susseguente "Hounds Of Lords" prosegue sulla falsa riga della opening track: a mia memoria (e vi assicuro che di anni sul groppone ne ho) solo alcune bands tipo i Mercyful Fate, scrivevano pezzi in cui vi erano così tanti cambi di tempo come in questa fatica dei nostri quattro "amiconi" del santo padre. L'incipit della successiva "Eye of the Storm" è semplicemente terrificante, così come l'intero brano. E così, via via, i nostri ragazzoni finnici snocciolano una sequenza di brani che sono tutti uno scrigno di gemme (idee) metalliche che rappresentano un vero e proprio crossover tra Black, Dark, Symphonic e Gothic: ed in questo senso essi sono "Progressive", accompagnandoci nella esplorazione di territori musicali, sebbene non nuovi (ormai non si inventa più nulla ma si rivisita e si personalizza) quantomeno egregiamente rielaborati e assemblati. Assemblaggio che ha dato alla luce un'opera magna, un capitolo significativo della Bibbia metallica che - a mio modesto parere - non potete e non dovete perdervi; acquistando questo CD apporterete realmente un plus alla vostra discografia ed alla vostra cultura metallica.
Ultimo aggiornamento: 11 Febbraio, 2023
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"The Weight of Remembrance" è l'album d'esordio assoluto per i Tribunal, duo canadese a tinte fosche, formatosi a Vancouver nel 2019. Una coppia ben assortita votata ad un Gothic/Doom Metal ricco di fascino e molto evocativo. Già la scelta del nome rievoca con terrore la Santa Inquisizione, che ha seminato orrore e morte per secoli in nome di un fanatismo religioso portato fino all'eccesso. Per tantissimo tempo, cadere nelle sue mani (e bastava davvero un nonnulla, specie per le donne) era sinonimo di condanna a morte, per di più dopo lunghissime ed atroci sofferenze, visto che gli inquisitori erano tristemente noti per il loro sadismo che manifestavano attraverso una sequela di torture sempre più raffinate e fini a sé stesse. Ho fatto questo preambolo perché questo full-length di debutto ben si potrebbe prestare a fungere da colonna sonora per le interminabili sessioni di tortura. Le sonorità proposte sono cupe, al limite del lugubre e del mortifero, che ben potrebbero trovare la giusta ambientazione nelle segrete umide e malsane dove erano soliti estorcere improbabili confessioni, fatte solo per poter metter fine al tormento e passare finalmente al rogo. Oltretutto, a mio sommesso parere, laddove ci sono interpreti femminili, il genere dark acquisisce quella ulteriore tenebrosità che solo le donne sanno conferire, grazie alla loro potentissima capacità immaginativa e la loro complessa potenza evocativa. La opening track fa "bella" mostra di una campana a morto quantomai sinistra mentre il dualismo e l'alternanza delle voci di Soren e Etienne, che a volte si intrecciano in maniera macabra, sarà il leitmotiv dell'intera opera al nero partorita dai nostri due darksters. L'intermezzo musicale "Remembrance" ci dà, in poco più di un minuto e mezzo, un'ulteriore dimensione dei Tribunal: quella delle ninne nanne maledette. E, difatti, il tratto distintivo del sound dei Tribunal sta proprio nella classe sfoggiata a livello di songwriting, che, abbinata ad una estrema cura (persino) nei dettagli, rende il tutto sì lugubre, ma con classe. La stessa voce femminile, che mi ha ricordato un po' la mitica Siouxie Sioux, nell'alternarsi e/o intrecciarsi sapientemente con il semi-growl maschile, funge da contraltare di quest'ultima (come a dire:"la bella e la bestia"). Ciò si apprezza vieppiù in "A World Beyond Shadow". La successiva "Without Answer" non fa altro che confermare quanto scritto, con un violoncello (strumento dal suono triste per antonomasia) in gran spolvero. Il CD si chiude magistralmente con la lunga e misterica "The Path", che sta a rappresentare esotericamente il sentiero della nostra esistenza, costellato di eventi funesti dai quali riusciamo a venir fuori (magari senza nemmeno sapere come e grazie a chi o cosa) proprio come l'evento-ascolto di questo "The Weight of Remembrance" che ci dà più volte la netta impressione di non lasciarci scampo, in quanto destinati ad essere avvolti da una nebbia fosca ed inquietante per sempre. Ne sentiremo parlare.
Ultimo aggiornamento: 04 Febbraio, 2023
Top 50 Opinionisti -
Se vi nominassi il Canada, a voi cosa verrebbe in mente? Gli Anvil di Lips? Gli Exciter di Dan Behler? Gli Annihilator di Jeff Waters? Ok, giusto! Io ci metterei anche i Danko Jones che, anche se non propriamente Heavy Metal, sono i figliocci incazzati degli AC/DC. E gli Sword? Non li avete mai sentiti nemmeno nominare? No? Eppure gli adepti della spada sono in circolazione dal lontanissimo 1980! E' stato allora che, in quel di San Bruno (nel Quebec) si è generato questo losco quartetto di metallari duri e puri. Un quartetto che, però, è avvezzo alle pause di riflessione moooolto lunghe: basti pensare che il loro album di debutto (l'ottimo "Metalized") è uscito dopo ben sei anni dalla loro formazione; ha fatto seguito il full-length "Sweet Dreams" (dal quale fu estrapolato il singolo "The Trouble Is") due anni più tardi e poi il lungo oblio protrattosi fino al 2006, allorquando è stato dato alle stampo nientedimeno che un "Best of.." (ma come, dopo appena due album?). Poi ancora un lungo silenzio, rotto dieci anni dopo (2016) da un album dal vivo al mitico Hammersmith. Altri quattro anni di assenza e poi due singoli - sfornati tra il 2020 ed il 2022 - ossia "(I am) In Kommand" e "Dirty Pig", che poi ritroviamo tra i pezzi di questo LP della (si spera) definitiva rinascita. Per fortuna, tutto questo tempo non è trascorso invano perché i nostri quattro ragazzacci si mostrano subito in grande spolvero, continuando a proporci il medesimo metallo canonico, scevro da qualsivoglia contaminazione o ibridazione di sorta: in questo full-length c'è solo ed esclusivamente metallo pesante con tutti gli ingredienti classici della ricetta (semplice ma sempre vincente da decenni) del nostro genere beneamato: riffs ben concepiti, con chitarrone sugli scudi, assoli strappamutande (ma mai stucchevoli, dotati di tecnica ma senza che indulgano sul virtuosismo fine a sé stesso), ugola ben robusta e sezione ritmica da terremoto e precisa come un implacabile metronomo. L'album è un po' cortino, solo 34 minuti, ma vi posso garantire che è devastante! Tutti i sette pezzi ("Surfacing" è uno strumentale da un minuto e mezzo) meritano, anche se - a me personalmente - è piaciuta più di tutti la conclusiva "Not Me No Way", degno finale di questa autentica perla di metallo tostissimo che ci ha restituito una band che sembrava ormai persa per sempre e che, invece, ha dimostrato di essere "alive and kicking". Speriamo solo di non dover riparlare di loro tra molti anni.
Ultimo aggiornamento: 28 Gennaio, 2023
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Nono full-length per Blood Thirsty Demons, one man band italianissima, in quanto proveniente da Varese; è stato lì che – nel lontano 1997 – il malvagio polistrumentista Cristian Mustaine (presumibilmente epigono del compianto Quorthon, colui che originò l’oscuro moniker Bathory), ha generato questo insano progetto ispirato ai demoni assetati di sangue. Basta dare una scorsa ai titoli delle produzioni per capire facilmente quanto siano care a Cristian le tematiche esoteriche (e, guarda caso, questa ultima opera di chiama proprio “Esoteric”): il primo demo marchiato 2000 si chiamava “Solve et Coagula”; seguito dall’EP “Sabbath”; nel 2009 è stata la volta dell'LP “Occultum Lapidem” e, ora, l’assalto è portato da questa ultima fatica, non meno maledetta e sinistra. Già la intro “Holy Mountain” ci mette subito i brividi, facendo da preludio ad una “Black Mass” che non lascia certo spazio alla immaginazione quanto al contenuto. Giusto il tempo di essere disorientati da una cover di Alice Cooper ("Steven") - sia pure abbondantemente personalizzata e resa mefitica quanto basta per far sì che il clima di terrore e mistero non ci abbandoni -, che irrompe la title-track con tutta la sua carica maligna, avviluppandoci in un vortice orrorifico senza speranza. Sensazione che si perpetua con la seguente “Invocation” (più diretti di così, è il caso di dire, si muore…) dove torna a spiccare il pianoforte in maniera breve ma intensa: giusto il tempo di farci entrare nella “Devil’s Church” per la consequenziale celebrazione con tanto di organo a canne in gran spolvero, come nella bathoreggiante “Spiritual Path”. Le idee ci sono e sono piuttosto valide, sia pure tutte inesorabilmente orientate alla esaltazione del Male in tutte le sue forme e manifestazioni, nessuna esclusa. La tecnica – complessivamente – si rivela adeguata e di discreto livello (si badi, trattasi pur sempre di un polistrumentista…). Se proprio devo muovere un rilievo, lo faccio nei confronti del singing di Cristian, a tratti poco consono, un po’ monocorde e – comunque – spesso pregiudicato da una pronuncia inglese non proprio impeccabile. Purtuttavia, il lavoro è ben concepito e ben realizzato; soprattutto, ed è questo ciò che realmente conta, è efficace perché riesce pienamente nel suo intento di generare costante inquietudine dal primo all’ultimo solco: appunto, terrore e mistero. Bel colpo, Cristian!
Ultimo aggiornamento: 21 Gennaio, 2023
Top 50 Opinionisti -
E rieccoci a recensire nuovamente gli Incursion, quintetto esplosivo proveniente da Miami, dove sono nati nel lontanissimo 1982 per poi spostare il baricentro delle loro scorribande metalliche su Nashville (Tennessee) in pieno territorio monopolizzato dalla musica Country. Difatti, avevo già avuto l'onore di recensire il loro precedente EP "The Hunter", laddove avevo avuto modo di sottolineare la bizzarria dei trascorsi di questi cinque ragazzotti tutto ferro e fuoco: formatisi nel 1982, avevano giusto inciso una demo nel 1984, poi poi sparire nell'oblio più totale fino al 2020, allorquando sono riemersi dalle nebbie con il precitato EP. Ebbene, ora è finalmente giunto il momento di saggiarli su di un full-length, non fosse altro per verificare che quelle buone premesse sciorinate nel precedente lavoro fossero o meno state consolidate. E, signore e signori, posso ufficialmente comunicarvi che lo sono state, eccome! Questo album d'esordio (meglio tardi che mai) spacca di brutto! Certo, anche nel caso di questa band "matura" non possiamo gridare al miracolo, ma le idee ci sono e sono tante e dirompenti. Qualità e quantità, sia pure ampiamente "nei ranghi" dei canoni del Power Metal più ortodosso. Pronti via, e la title/opening track ci arriva già come una mazzata di crick in piena faccia; ma non solo, perché da quei primi solchi in poi non ci sarà letteralmente più respiro: i pezzi si susseguono in un vero e proprio fuoco di fila. Questo CD è come una mitragliata lunga 41 minuti, in cui - al limite - solo con "The Sentinel" ci sarà modo di tirare un po' il fiato. Se a ciò si aggiunge il fatto che la produzione è davvero "iper", il risultato che ne vien fuori è un suond robustissimo: l'ugola di Steve è rocciosa, la sezione ritmica di Dan e Robbie fa impennare la scala Mercalli e le asce di Max e Michael saettano da par loro, un tripudio di metallo "old style" con tanto di sostrato maideniano a serpeggiare (neanche tanto) sotto traccia. "Strike Down" e "Master of Evil" (in puro stile Exciter) sugli scudi, ma è tutta la release a significarci che il nome della band è quanto mai azzeccato: si tratta di una incursione in piena regola, avente come obiettivo i nostri padiglioni auricolari e la nostra capoccia, che proprio non riesce a fermarsi se non dopo l'ultimissimo solco. Così come azzeccatissimo è il nome dell'album, perché veniamo letteralmente assaliti da una forza accecante ed annichilente. Ultramassicci!
Ultimo aggiornamento: 17 Dicembre, 2022
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Gli Heart Attack sono un interessantissimo combo ateniese (da non confondere con la band omonima francese sotto Atomic Fire Records), che si è formato all’ombra del Partenone nel 2011 e ha subito dato fuoco al debut EP, al quale – nel 2015 – ha fatto seguito il loro primo full-length “Heart Revolution”, per poi approdare a questo “Final Attack”. I nostri quattro ragazzotti ellenici, infatti, si caratterizzano per il loro Hard‘n’Heavy alquanto melodico ma altrettanto tosto e ben suonato e ancora meglio prodotto: l’impatto sonoro è devastante per spessore e potenza. Le linee melodiche sono molto “catchy” e denotano un certo essere avvezzi a modalità compositive di autori di livello eccelso come (e vi assicuro che non sto esagerando) Desmond Child. Un songwriting come raramente se ne sentono, del tutto paragonabili ai dimenticati e bistrattati Europe, ai vari Dokken, Ratt e delle altre bands che hanno apportato lustro a quello che veniva definito AOR, ossia Adult Oriented Rock, seppure con connotati leggermente più tendenti al Metal più classico. Insomma, ci manca davvero un pelo per non classificarlo come Rock da classifica, più che altro per gli assoli molto stuzzicanti di John (vedi quello di “The Last Samurai”, ma quelli sfoggiati negli altri brani non sono da meno), per una batteria in gran spolvero, che nell’AOR viene invece un po’ relegata in secondo piano e per la quasi totale assenza delle tastiere. Ben articolata è “Bring Metal Back (The Final Attack)" che spazia dalla ballad allo Speed con disinvoltura in poco più di cinque minuti, con inserti che sono platealmente delle citazioni dei mostri sacri del genere, dai Black Sabbath ai Deep Purple fino agli Iron Maiden ed ai Metallica: molto godibile, il pezzo più pregiato dell’album. E veniamo alla nota dolente che, invero, denoto in buona parte delle bands: il cantante. George, che è anche l’autore dei testi, mi appare del tutto inadatto ed inadeguato, epigone più del mitico Vince Neil dei Mötley Crüe, ma con una voce ancor meno graffiante, oltre ad essere palesemente meno dotato dal punto di vista canoro (la performance nel pezzo “Immortal” merita una sufficienza stiracchiata). Dalle mie parti si dice che “per un pizzico di pepe si è rovinata la minestra”: ebbene, la voce rappresenta l’unica nota stonata (piccolo calambour) di un album che – comunque – resta del tutto pregevole e meritevole di attenzione da parte di chi predilige il Metal ortodosso che strizza l’occhio alle charts.
Ultimo aggiornamento: 10 Dicembre, 2022
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Quando un polistrumentista proveniente dai Paesi Bassi ha la fortuna di incontrare un drummer italiano che, come lui, è appassionato di tematiche legate al mondo fantasy apocalittico, nasce una strana coppia a nome Legendarium che, dal 2017, riesce a partorire ben quattro full-length, un EP e due singoli ad alto tasso metallico, con striature epiche tipiche del Power Metal tedesco che tanto ci hanno fatto e ci fanno apprezzare Helloween, Stratovarious, Hammerfall, Blind Guardian e compagnia bella. L'opening e title-track innesca immediatamente la miccia, preludendo ad una esplosione di Heavy Metal senza precedenti, con il suo outtake maideniano ed il suo sound ben bilanciato tra chitarroni e tastiere ed un cantato da non disprezzare (of course, tutto by Laurence). La seguente "Arcane Magics of Ancient Origins" ci proietta all'indietro nel tempo, fino a quella era grandiosa ma ingiustamente etichettata come oscurantistica che è stata quella medievale; una intro azzeccatissima che funge da preludio ad un pezzo epicheggiante ma che incomincia a far emergere sentori di incompiutezza. C'è, infatti, una sottile linea rossa che lega tra loro tutti i dieci pezzi che compongono quest'ultima produzione dei Legendarium: quella, appunto, dell'incompiutezza; tante buone idee, tanti ottimi spunti ma - onestamente- si poteva fare di più e meglio; e ciò a cominciare dalle performance canore di Laurence: una voce alquanto monocorde (specie sul cantato "pulito", un po' meglio in quello più duro), la cui già non entusiasmante resa è aggravata da una pronuncia inglese non proprio all'altezza della situazione. Ed è un peccato, perché con un cantante più adatto certamente ne avrebbe guadagnato sotto tutti i punti di vista la band ed il prodotto. "The Ritual of the Thousand Skulls", poi, è spiazzante perché ne è sortito un pasticcio tra linee melodiche prettamente Punk (alla Misfits, tanto per intenderci) che, francamente, risultano avulse da tutto il contesto del CD. "...And All Shall Perish" inizia con uno Speed Metal niente male, ma poi si avviluppa intorno all'ennesimo pezzo all'insegna del "si, bene, ma si poteva fare meglio", con il cantato di Laurence che mi ha riportato alla mente i Carnivore con il mitico Steele alla voce. Tendenza che riemerge in "Killing Fields". In "Agrippa", poi, compare un cantato alquanto svogliato e buttato lì, che non riesce nell'intento di alzare un po' la media compositiva e realizzativa, che, ahimè, rimane bassina (vedi anche "Immortal", canzone alquanto spompa). In definitiva, come succedeva a scuola, questi Legendarium sono - a mio modesto avviso - senz'altro da rimandare e da rivedere alla prossima release, auspicando che riescano a mettere meglio a frutto le loro idee, come detto niente affatto malvage, ma che necessitano immediatamente dell'innesto di un cantante più dotato e convincente ed una produzione più adeguata al loro potenziale inespresso.
Ultimo aggiornamento: 06 Dicembre, 2022
Top 50 Opinionisti -
Decimo full-length per Vinnie Moore, ultra virtuoso delle sei corde statunitense accostabile a suoi omologhi come Tony Macapline, David Chastain, Steve Vai, Ritchie Kotzen, Marty Friedman, etc.; insomma, una vera e propria generazione di fenomeni più o meno suoi coetanei, ma rispetto ai quali Vinnie è di più lunga militanza, se si considerano i suoi trascorsi in una band che risponde al nome di Vicious Roumors, una vera e propria cult-band le cui origini risalgono al lontanissimo 1979, nella quale sono transitati una miriade di artisti di assoluto rilievo (uno su tutti, Brad Gillis che molti ricorderanno per le sue performance nella band di Ozzy, specie nell’immortale doppio live “Speak of The Devil” caratterizzato dalle sue reinterpetazioni personalizzatissime degli assoli di Sua Maestà Tony Iommi). Dal 1986 il nostro axeman ci delizia con delle release iperboliche, ma pur sempre inserite in un contesto di songwriting molto accessibile, quasi da classifica Rock, con risultati assolutamente superlativi: questa ultima fatica non fa eccezione alla regola, perché si tratta di una lunga sferzata di energia Hard'n'Heavy molto ben composta e congegnata. Ho ancora nelle orecchie e nella memoria il suo debut album - del 1986, appunto - “Mind’s Eye” (che poi ha dato il nome alla sua personale casa discografica) e, con queste premesse, mi sono accostato all’ascolto di questo CD; ebbene, già con l’attacco della opening track “Vertical Horizons” mi rendo conto come non solo – da un lato - il tempo sembra che si sia fermato per il nostro Vinnie ma – dall’altro – sappia ancora evolversi nella tecnica chitarristica, rendendo le sue performance non già una mera autocelebrazione stagnante, bensì il frutto di una incessante ricerca di soluzioni compositive/esecutive sempre attuali ed al top di gamma! In questa produzione c’è tanta varietà e tanta freschezza unite ad una durezza di impatto e ad una orecchiabilità (nell’accezione più nobile del termine) che ha pochissimi eguali, con buona pace di chi si aspetterebbe solo un interminabile e stucchevolissimo assolo, cosa alla quale – ad onor del vero – taluni talentuosi maestri d’ascia ci avevano abituati. Invece, si fugge via al galoppo, sull’onda di canzoni che si snodano su un livello medio qualitativo altissimo, a mio modesto avviso paragonabile – come release di questi ultimi tempi – a lavori del calibro dell’album del pargoletto di Eddie Van Halen, il polistrumentista Wolfgang, sotto l’egida/pseudonimo di Mammoth. Insomma, un vero “must have”: accaparratevelo a tutti i costi!
Ultimo aggiornamento: 27 Novembre, 2022
Top 50 Opinionisti -
Quando una band decide di dare in pasto ai proprio famelici fans un "best of", lo fa quasi sempre per tacitare momentaneamente gli appetiti dei suoi adepti più accesi ed irriducibili: una sorta di "contentino" in attesa della prossima release in studio. Magari, inserisce pure qualche brano inedito, a fungere da antipasto, sempre per acquietare i mugugni di chi - da troppo tempo - è rimasto a digiuno ed inizia a sbraitare, manifestando il proprio malcontento, più che comprensibile. Ma quando si tratta di Udo Dirkschenieder e i suoi U.D.O., quando si tratta di un personaggio che, da sempre, fa la storia dell'Heavy Metal, quando si tratta di un'ugola inconfondibile, che - ancora oggi - alla soglia delle 70 primavere, fa rabbrividire e fa tremare tutto e tutti, allora il discorso cambia. Dal 1987 il Signor Dirkschneider ci ha travolti da una tale massa di magma metallico che quasi si stenta a fare a meno di ascoltare qualche pezzo generato dalla sua sordida mente di sacerdote del metallo per più di qualche mese. Se poi ci aggiungiamo che si è contornato non solo del suo impavido drummer generato dai suoi stessi lombi (il quale non ha disdegnato di fungere da session di lusso per altri colossi del genere come i Saxon), ma anche di una prima ascia (Andrey) che ha militato in gloriosi gruppi come quelli messi su da due ex singers dei titanici Iron Maiden (Paul Di'Anno e Blaze Bayley) e di un bassista che ha condiviso il live stage dei distruttori Testament, non possiamo non comprendere perché le crisi di astinenza dei fans dell'ex vocalist degli immensi Accept siano così frequenti. Tale e tanta è la produzione del singer teutonico, che a malapena due CD riescono a contenere i migliori capitoli della sua infinita saga metallica, nonostante ben 33 pezzi, uno più massiccio e dirompente dell'altro (addirittura, nella versione vinile ben 4 dischi!). Altresì, nella tracklist figurano due inediti, proposti come singolo quasi a lasciar presagire l'immediato futuro discografico della band, che rispondono al nome di "Wilder Life" e "Dust and Rust", per non dimenticare la rara "Falling Angels". Dal debut album "Animal House" fino all'ultima fatica in studio "Game Over", vengono passati in rassegna brani che sono tutti autentici campioni dei pesi massimi dell'Hard'n'Heavy, dall'opening track "Fear Detector" passando per "Break the Rules" (estrapolata da "Mean Machine") a "Metal Eater" (tratta da "Timebomb"). Un vero e proprio monumento metallico eretto dal leader tedesco ed i suoi quattro accoliti che, per l'ennesima volta, ci danno ulteriore dimostrazione (semmai ve ne fosse bisogno) che - come dal titolo di uno dei tanti leggendari pezzi marchiati U.D.O.- "Heavy Metal Never Dies", perlomeno fino a quando ci saranno baluardi del loro calibro. Un "must have", senza "se" e senza "ma".
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