Opinione scritta da Herah of Ice
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Ultimo aggiornamento: 30 Giugno, 2023
Top 100 Opinionisti -
La grande stella del nord… ah, quanto venerata è stata nel corso dei secoli! Gli indiani la chiamavano Dhruva, noi la chiamiamo Stella Polare, ma il suo significato è sempre lo stesso ovvero fungere da faro nelle rotte terrene e devo dire che con "Beyond North Star", gli Henget illuminano il cielo notturno del Black Metal costellato sempre più spesso da uscite poco originali. Potremmo dire che quest’album appartenga a due mondi distinti che non smettono mai di incontrarsi durante tutte le otto tracce: da un lato abbiamo la sperimentazione tipica dell’Avant-Garde e dall’altra la produzione e la cattiveria appartenente al Black Metal vecchia scuola dei primissimi anni 2000, riuscendo ad incontrare i palati di tutti gli appassionati. I brani seguono più o meno tutti lo stesso modus operandi, offrendo una base di riffing e vocals Black Metal interrotta e/o accompagnata da influenze esterne al Metal in sé. Cercherò qui di citare gli esempi più interessanti a livello sperimentale, cercando di non elencarli tutti lasciandovi il piacere di scoprirli da voi; il terzo brano "Henkivallat", completamente in finlandese, si chiude con una sonora risata maligna e un synth che richiama il pianoforte. Si passa al quarto brano "Great Spiral", uno dei più belli a mio parere, che presenta una contrapposizione tra Black ed Epic Metal molto alla Bathory di "Blood Fire Death", una parte a metà brano eseguito con chitarra pulita quasi Blues e un finale molto particolare con la musica che sovrasta le vocals. Come non citare poi la title-track, la quale è l’apoteosi di tutto ciò che viene proposto nell’album: estremamente sperimentale ma al contempo dannatamente old school. Anche qui possiamo ascoltare una venatura Epic/Power Metal e l’assolo di chitarra composto da due parti distinte di cui la prima con le vocals in sottofondo che vanno a creare un’atmosfera lugubre. La stereofonia è curata a livelli maniacali, tanto che da sola riesce a creare dei frangenti indimenticabili in un brano come "Nouse", pezzo in finlandese completamente diverso dal resto del disco con atmosfere tra il Doom, il Jazz e il Blues e vocals in sottofondo anche qui atte a creare un’atmosfera più cupa. Il brano finale "The Calice of Life and Death" riprende idee e atmosfere della title-track e di "Great Spiral", terminando nel modo più epico possibile. Un piccolo accenno alle vocals che si mantengono su livelli molto alti per tutta la durata del disco, riprendendo il Mid Scream, o Mid Growl a seconda delle scuole di pensiero, tipico di band come i Behemoth, riuscendo ad adattarlo perfettamente ad ogni contesto. Gli Henget con questo debutto, presentano uno dei prodotti più originali e riusciti degli ultimi anni, riuscendo nell’arduo compito di far convivere pacificamente vecchia e nuova scuola in un connubio di qualità musicale elevatissima. Senza dubbio l’esperienza dei membri ha aiutato notevolmente nell’affrontare questo particolare lavoro, ma senza quel pizzico di coraggio e originalità, probabilmente non ci troveremmo di fronte a un lavoro eccelso come questo, ma semplicemente ad un buon disco. Se questo è solo l’inizio, tenete d’occhio gli Henget perché potrebbero davvero riservarci dei capolavori di rara bellezza.
Ultimo aggiornamento: 30 Mag, 2023
Top 100 Opinionisti -
Il Depressive Black Metal è, a mio parere, il sottogenere più estremo al quale le nostre orecchie sono sottoposte. Probabilmente molti non saranno d’accordo con questa definizione avendo in mente altri generi decisamente più brutali (Brutal Death, Grindcore ecc…), ma vi spiego subito cosa intendo. Il Depressive è così estremo perché incredibilmente reale. Possiede la capacità di catapultarci in quelle sensazioni così angosciose e ci riesce forse perché un po’ tutti abbiamo vissuto tali emozioni anche se la società vorrebbe far intendere che questo sia sbagliato, in realtà è la cosa più umana che esista. Ho voluto iniziare questa recensione con un preambolo, proprio per farvi capire quanto io sia innamorata del Depressive e in particolare proprio gli Austere sono stati tra le prime band del genere che io abbia mai ascoltato. Sono riusciti a conquistarmi con quel capolavoro di “To Lay like Old Ashes” datato 2009. Capite bene che, a distanza di tredici anni dalla loro ultima apparizione, mi sono fiondata a preordinare il loro nuovo lavoro “Corrosion of Hearts” entusiasta ed estremamente curiosa di ciò che avrebbero tirato fuori.
La prima cosa che subito salta all’orecchio è lo scream, diverso da quello a cui il duo ci aveva abituati e molto più simile a un Black Metal classico. Mentre il disco scorre, però, ci rendiamo conto che i Nostri non hanno abbandonato quello scream così particolare ed identitario del loro progetto, ma semplicemente ne hanno dimezzato le dosi, sfruttandolo solo in determinati momenti come alla fine della track “A Ravenous Oblivion”. Così come, per fortuna, non hanno abbandonato la voce pulita che tanto amavo nei loro lavori optando per una soluzione tanto particolare quanto azzeccata, ovvero tenere la voce pulita in sottofondo quasi soffocata dalla musica, andando così a rendere il tutto quasi claustrofobico. Ma andiamo ad analizzare più nei dettagli il disco: diciamo subito che chiunque conoscesse gli Austere, si sentirà subito a casa. Parliamo di quattro tracce di lunga durata, quindi brani dall’ampio respiro che permettono alla band di esprimersi al meglio. Ovviamente ciò comporta anche il non essere adatto a tutti i tipi di orecchie, le quali potrebbero annoiarsi essendo un genere altamente introspettivo e malinconico con davvero poca azione al suo interno, al contrario di un normale disco Black Metal. Lapalissiano è il miglioramento della produzione rispetto al precedente capitolo, con tutti i suoni al posto giusto adatti a fare atmosfera e creare sensazioni malinconiche all’interno della mente dell’ascoltatore ma, eccezion fatta appunto per la produzione e la maturazione generale del sound, questo disco sembra ripartire da dove il precedente terminava, con tutte le differenze del caso. Ottima la prima traccia "Sullen", che mischia sapientemente lo scream Black classico, la voce pulita e lamenti tipici del Depressive Black riuscendo a trovare sempre la soluzione vocale adatta ai vari momenti che si susseguono. Particolarmente bella è l’introduzione di chitarra pulita nel terzo brano “The Poisoned Core”, mentre la traccia conclusiva “Pale” è a mio parere la più riuscita del disco, una degna conclusione di questo nuovo capitolo che va a far esplodere le atmosfere e le melodie sentite in precedenza. Da ciò che ho scritto potrete certamente comprendere che questo disco mi è piaciuto parecchio e, in effetti, è così. Ma vi è un unico neo che devo, purtroppo, riportarvi: manca una traccia che sia davvero memorabile. Il disco è riuscito, l’evoluzione esiste ed è certamente ciò che ci saremmo potuti aspettare dagli Austere, ma manca una traccia alla “This Dreadful Empiness” o alla “Down”, ovvero un brano che ti faccia venir voglia di ascoltarlo a ripetizione come invece la band ci aveva abituati. Ma ciò in realtà non mi preoccupa più di tanto, poiché vedo questo disco come una sorta di rito di passaggio atto a concretizzare il loro ritorno, un album che dice “Ci siamo, siamo tornati e abbiamo voglia di fare buona musica” e sono sicura che il prossimo disco sarà una vera perla così come fu nel 2009 “To Lay like Old Ashes”, incrocio le dita.
Top 100 Opinionisti -
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