Opinione scritta da Valeria Campagnale
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Ultimo aggiornamento: 06 Novembre, 2024
Top 50 Opinionisti -
Band leader del modern metal svizzero/tedesco, gli Ad Infinitum hanno pubblicato l'album “Abyss” per Napalm Records, un lavoro che intreccia chitarre djent arrivando sul filo del pop e con dei growl piazzati a dovere.
Ho ascoltato più volte “Abyss” e devo ammettere che non vedo un eccitante lavoro, ma che sia orecchiabile è indiscutibile e molto probabilmente aumenterà la schiera di fans della band, favorendone l’ascesa.
Personalmente mi sarei aspettata qualcosa di più accattivante, meno easy listening e più potenza, considerando che i singoli promettevano molto bene, di fatti sia “Follow Me Down” che con l’ipnotico “My Halo” sono la pura rappresentazione del modern melodic metal. In effetti, se vogliamo andare per il sottile, in questi due pezzi si possono riscontrare delle chitarre taglienti e selvagge con la giusta dose di melodie e più che ottimi ritornelli. Altro brano che risulta ottimo è “The One You'll Hold On To”, che riesce ad incarnare lo stile melodico, forse più groove e con un buon up-tempo.
Notevolmente bella anche la versione orchestrale di “My Halo” e il brano “Euphoria” in cui brillano sia la voce sempre molto seducente di Melissa Bonny e le tastiere che donano a questo pezzo un’atmosfera trascendentale. Anche qui Adrian mostra i suoi virtuosismi alla chitarra e la linea ritmica è perfetta.
Sembrerebbe anche quasi che basso e batteria, rispettivamente dei bravi Korbinian Benedict e Niklas Müller, siano più minimali rispetto agli album precedenti, tranne che in “Outer Space” e “Parasite”.
“Aftermath” è un brano robusto ma manca di mordente, il che è un peccato perché con una sferzata sarebbe risultato veramente un pezzo incisivo.
Troppo accattivante “Surrender” che il pop non lo rasenta, lo oltrepassa definitivamente; la ballad “Anthem for the Broken” non è viscerale e non riesce a mio avviso a trasmettere la giusta emozione e “Dead End”, in chiusura, è sostanzialmente condotta dal synth, il che fa perdere fascino a quelle che sono le cose positive del brano, come la sezione strumentale ed i vocalizzi alternati tra puliti e aspri.
Personalmente avrei lasciato le linee ritmiche più tecniche come nei lavori precedenti, sentire basso e batteria come fossero secondarie strumentazioni è piuttosto anomalo e porta l’album ad un calo di spessore.
Trovo questo lavoro alquanto piatto e un po’ scialbo; ripeto, è un peccato perché con un’impronta differente e più marcata, “Abyss” sarebbe potuta essere un’ottima uscita...
Ultimo aggiornamento: 01 Novembre, 2024
Top 50 Opinionisti -
I War Dogs continuano l'esplorazione dell’epic metal con l’album “Only the Stars Are Left”, rilasciato per Fighter Records; il disco è un’evoluzione più raffinata rispetto al loro debutto “Die By My Sword”, mantenendo le influenze di bands classiche come Iron Maiden e Judas Priest, ma integrando elementi moderni, così da renderlo ricco di riff potenti, temi eroici ed energia.
In “Only the Stars Are Left” troviamo anche un intreccio tra richiami doom e NWOBHM che si distingue notevolmente e crea una aria decisamente potente.
La breve introduzione acustica “The Hour Of Fate” ci porta al primo vero e proprio pezzo “The Prosecution” in cui Alberto Rodriquez mostra un’ottima potenza che riesce a reggere l’epicità del brano tra sferzanti riff e ritmo potente.
Anche “The Prosecution” ha un mood potente tra buone chitarre e una dose di polverosa di metal britannico, uno dei brani che apprezzo particolarmente di questo disco; il ritmo è secco e cadenzato, niente fronzoli, ma un solido riffing ed un accenno ad una cavalcata in stile Maiden; anche la voce è perfetta nella sua profondità.
Più o meno simile la seguente “Riders of the Storm” che si differenzia per una propensione più speed; per il resto, il basso di Manuel Molina è fantastico così come la batteria di José V. Aldeguer. Un brano da battaglia sfarzosa e minacciosa.
Bellissima la traccia seguente “Heaven's Judgement” con il suo intro cupo che in crescendo porta verso un turbinio di suoni epici con cori molto orecchiabili ed una musicalità che, per certi versi, ricorda i Judas Priest.
Continua la corsa, nel vero senso della parola, con “Astral Queen”, veloce, minimale e la sensazione è quella di percorrere il brano su un filo di rasoio. Bel pezzo davvero, massiccio e potente. Ci fermiamo qui? Assolutamente no, poiché i War Dogs ci regalano un altro pezzo energico, ma più melodico ed infatti “Fallen Angel” è il perfetto proseguimento del brano precedente, le chitarre taglienti ed un assolo strepitoso affilano una traccia già di per sé aguzza.
Arriviamo al primo singolo estratto, “Vendetta” che, se avete avuto occasione di ascoltare, mostra la verve e lo spirito della band tra martellante ritmo e le sempre aggressive chitarre; un brano sostanzialmente orecchiabile dove, anche qui, troviamo un assolo che non ha nulla da invidiare ai grandi nomi delle sei corde. Innegabilmente, è un altro brano che annovero tra i migliori di questo lavoro.
La title-track “Only the Stars Are Left” parrebbe una pausa che intervalla la tempesta e nella quale la voce di Alberto Rodríguez ci culla, ma subito cambia rotta per tornare, da questo intro tranquillo, ad una musicalità potente. José V. Aldeguer alla batteria è sorprendente e mostra un’ottima maestria; ovviamente troviamo anche in questo pezzo le chitarre sferzanti. Brano notevole e molto piacevole e mettiamo anche questo tra i miei preferiti.
Intro parlato per la pungente “The Seventh Seal”, con un appiglio decisamente old-school, ma sempre d’effetto, anche qui la potenza è il perno su cui ruota la canzone con una forza trainante incredibile. Nuovamente Manuel Molina mostra un basso intenso e profondo.
Dopo tanta veemenza, la chiusura con il brano “The Vengeance of Ryosuke Taiwara” è la ciliegina sulla torta, non ci si poteva aspettare un finale migliore tra chitarre trascinanti, intervallo melodico tendente al blues e nuovamente la tempesta
“Only the Stars Are Left” è un album poderoso, epico e ambizioso che riesce a fare pieno centro, bravi i War Dogs che sono riusciti a creare un lavoro molto interessante senza perdersi in orpelli obsoleti e ingombranti.
Bellissima anche la copertina di Victor Vasnetsov ed il suo dipinto “Cavaliere al bivio”.
Se amate le galoppate metal, è l’album che fa per voi.
Ultimo aggiornamento: 01 Novembre, 2024
Top 50 Opinionisti -
I Grand Magus festeggiano venticinque anni di onorata attività musicale e lo fanno con l’album “Sunraven”, pubblicato per Nuclear Blast.
Questo nuovo lavoro è uno di quelli in cui si trova del buon heavy metal vecchio stile e tanta coerenza artistica che si può già ascoltare nel brano di apertura “Skybound” e singolo che ha anticipato l’uscita dell’album; qui i Grand Magus ci lanciano in un disco classico, con una impronta stile Iron Maiden; questa apertura è la giusta spinta per addentrarci in un album che promette bene e, del resto, i Grand Magus non ci deludono mai.
Il potente ritmo di batteria di Ludwig “Ludde” Witt ed il basso di Mats “Fox” Skinner creano un tappeto perfetto per le chitarre e la voce del grande Mr. Christoffersson che durante tutti questi anni non smette mai di ruggire.
In “The Wheel Of Pain” la cavalcata iniziale è un classico, ma anche una bella sferzata d’energia che si protrae per tutto il brano con l’ottimo lavoro di batteria che ben si intreccia con le chitarre.
Restando sempre su un suono classico, ecco la bella “Sunraven” e l’elettrizzante “Winter Storms”, intense ed intrise di sano heavy metal old school.
Con “The Black Lake”, i Grand Magus propongono un pezzo epico che parte in modo relativamente fioco per poi esplodere in un fragoroso riff sprigionato dalle corde di Janne, direi un pezzo veramente memorabile.
Più gioviali “Hour Of The Wolf” e “Grendel” che regalano a “Sunraven” un livello superiore e ben marcato.
Con la successiva “To Heorot” ad essere protagonista in assoluto è la sezione ritmica per una canzone che non raggiunge le precedenti, ma che ha comunque un suo senso all’interno dell’album.
“The End Belongs to You”, in chiusura, è un pezzo di assoluta classe a cui la band ci ha da sempre abituati.
Tra doom, riff blues e tonalità epiche, il nuovo lavoro dei Grand Magus rispecchia le aspettative e lascia un nuovo segno memorabile nella carriera del gruppo.
Ultimo aggiornamento: 19 Ottobre, 2024
Top 50 Opinionisti -
Lunga e dolorosa è la storia dei Funeral, combo nato nella provincia di Oslo nel 1991, con ricorrenti problemi di formazione, che ha perso due dei propri membri chiave, Einar André Fredriksen (basso) e Christian Loos (chitarra), rispettivamente nel 2003 e nel 2006, per suicidio ed overdose.
La band è da sempre impegnata a creare la forma più deprimente e lenta di doom/death possibile, in un momento in cui il loro paese natale veniva etichettato come il luogo di nascita del black metal.
Con Anders Eek, membro fondatore, alla batteria, Eirik Krokfjord, cantante d'opera baritonale, Ingvild Johannesen al violino, Rune Gandrud al basso, Stian Kråbøl e Morten Søbyskogen alle chitarre, il gruppo riprende l’attività dopo l’album “Praesentialis in Aeternum” pubblicato nel 2021, pubblicando per Season of Mist il nuovo lavoro “Gospel of Bones”.
L’album è intriso di dolore, malinconia, solitudine e perdita, elementi essenziali in questo lavoro che vede i Funeral godere di ottima forma e, come dice la presentazione del disco stesso, “Il contenuto lirico dell'album è un'autobiografia delle disavventure della vita del batterista/compositore A. Eek, e tratta di vera oscurità, miseria, dolore e perdita!".
L’opener “Too Young To Die” è un brano funeral doom a tutti gli effetti ed è una composizione che riesce a strappare il cuore, cupa e malinconica, inizia con il suono soave del violino che, proseguendo, ci porta alla voce meravigliosa di Eirik Krokfjord che riesce ad interpretare appieno la cupezza e la malinconia del brano che musicalmente è, oltre ad essere lacerante nella sua interezza, intriso di un profondo senso pesante di cupezza.
Non si discosta la seguente “Yestertear” che, nel suo essere profonda, è un’immersione in un limbo di sonorità cupe e avvolgenti, con i vocalizzi che lasciano attoniti per la loro grandezza.
Ammaliante la seguente “Procession of Misery” in cui gli elementi orchestrali creano un intreccio con il suono cupo e pesante, accentuando l’impronta gotica, per un brano che risulta essere schiacciante. Bellissime le linee di basso e la batteria.
“Ailo's Lullaby“ è una traccia strumentale dal sapore intimista ed è una sorta di soglia liminale che ci porta verso pezzi notevolmente più pesanti, senza abbandonare lo stile straziante.
In “My Own Grave” le chitarre acustiche si intervallano ai riff massicci che, insieme alla sezione di archi, donano sempre quest’aura dolorosa.
L’intro opprimente di “To Break All Hearts of Men” è imponente, così come la voce del resto, Eirik Krokfjord riesce ad esprimere sentimenti dolorosi e profondi con un tappeto di strumenti ad arco.
“Når Kisten Senkes“ è un'altra osservazione intimista che raggiunge un alto livello sensoriale, mentre “Three Dead Men“ è una chiusura che mostra sfaccettature vocali, una musicalità intensa ed il perenne lacrimoso sound di cui i Funeral sono forieri.
“Gospel of Bones” è un lavoro inquieto e molto ben articolato, decadentista, triste e per certi versi minimale, che mostra la maestria di composizione, nonché d’esecuzione, in cui Eirik Krokfjord è inevitabilmente in evidenza. Un album solenne in cui immergersi completamente in incantevole mestizia.
Ultimo aggiornamento: 16 Ottobre, 2024
Top 50 Opinionisti -
I power metallers italiani Wind Rose tornano con il nuovo titanico album “Trollslayer” via Napalm Records, otto pezzi epici in cui la band ci conduce in un viaggio potente nel mondo dei Nani, guerrieri ed emotività. L’apertura è il brano strumentale dal sapore epico “Of Ice and Blood”, che ci proietta nel cuore di questa nuova avventura e troviamo poi subito la tumultuosa “Dance of the Axes”, con le chitarre che irrompono in modo tagliente, così come il cantato in growl che aggiunge un’impronta teatrale; pur essendo un brano nel suo complesso potente, risulta essere orecchiabile con il ritornello che si imprime nella memoria. “The Great Feast Underground” è un pezzo dall’aria più goliardica che, tra accenni celtici e una ritmica cameratesca, ci travolge in una festa tra, probabilmente, un bicchiere di Miruvor o Limpë. Questa aria festosa non manca di ritmo serrato e riff potenti, così la stessa atmosfera la troviamo nella seguente “Rock and Stone” dal sapore anthemico, brano epico ispirato al videogioco Deep Rock Galactic, in cui le chitarre e la batteria si rincorrono in una briosa atmosfera ed in cui la voce risulta essere sempre più che adeguata, anche nel suo ritornello travolgente. La batteria finale è il colpo di coda di questo brano. Nuovamente la batteria, questa volta in apertura, in “To Be A Dwarf” muove la brigata dei Nani che ci trasporta tra melodie Power Metal, la linea di basso è apprezzabilissima nella sua profondità, la voce sempre potente rende l’insieme epico e sempre vivace. Di fatti, se c’è qualcosa che non manca in questo album è proprio la dinamicità e l’allegria che sprigiona, anche nei momenti meno gioviali. “Home of the Twilight” è il brano più Speed Metal che troviamo, l’accompagnamento d’archi è un elemento brillante che ben si inserisce tra le chitarre raggianti e potenti e, ancora una volta, la batteria trascinante. Bella la voce che guida questo pezzo. Se fino ad ora abbiamo avuto un’atmosfera verosimilmente leggera, con “Trollslayer” la band ci catapulta in un pezzo aggressivo tra voci pulite, growl e chitarre pungenti ed energiche. Bel brano possente che mostra l’aggressività della band, ma mantenendo sempre una linea melodica che incanta anche nei momenti più burrascosi. Con “Legacy of the Forge” cambia di poco la linea, pur essendo meno aggressiva e più legata ad un senso di cameratismo, nanico in questo contesto, proponendo una combinazione di elementi folk metal a momenti epici in cui si evince il concetto di unione tra allegria e momenti più cupi. Bella l’apertura di “No More Sorrow”, quasi cinematografica e certamente drammatica per un brano cupo e profondo in cui la voce si immedesima, risultando sempre più istrionica. Anche qui troviamo delle chitarre pungenti e un ritmo serrato, il tutto accompagnato dal ritornello orecchiabile. I Wind Rose in “Trollslayer” ci regalano momenti di pura energia tra leggiadria e momenti più profondi, dando vita ad un album che non si smetterebbe mai di ascoltare con momenti musicali celtici ed altri più epici, mantenendo una linea Power. Promossi ancora una volta!
Ultimo aggiornamento: 16 Ottobre, 2024
Top 50 Opinionisti -
Album di debutto per gli Heavenblack, band greca che propone elementi classici Heavy Metal con tocchi moderni: "Blindfolded" è uscito lo scorso mese di agosto per Sleaszy Rider Records. I Nostri propongono un buon lavoro, giocando con delle buone melodie ed un sound accattivante già dalle prime note dell’opener “Hell Denied”, con l’ottimo basso profondo di Giannis Verios e le chitarre graffianti di Giannis Patakakis e Dimitris Varvarigos; di primo acchito potrebbe sembrare di ascoltare un brano dei Judas Priest, ma la band si contraddistingue per la freschezza e la voce armoniosa di Marios Kouroupis. Ottimo inizio, e la qualità continua con la successiva traccia “My Insane”, uno dei singoli rilasciati e a ragione direi, poiché questo pezzo offre una gamma Heavy che non scherza tra riff rasenti al Thrash e un Metal quasi Speed, anche qui la band si dimostra veramente buona con una batteria ossessiva grazie a Mantalena Krikelli alle pelli. Ritornello orecchiabile e voce sempre all’altezza. Con “The Dominant”, altro singolo, la band greca non si risparmia e ci regala un pezzo pesante in cui anche qui troviamo delle linee di basso profonde e chitarre ben solide. La voce si differenzia e si fa a volte più cupa, mantenendo una linea che non cede mai. “Heavenblack” è una traccia esplosiva, pesantemente in sintonia con il genere proposto in cui le chitarre hanno un ruolo fondamentale e la voce di Marios brilla nuovamente; si continua sulla stessa onda, ma in modo più melodico, con “On My Skin”, mentre con “Orphan” si ritorna alla potenza di un puro Heavy Metal vecchia scuola che ci ricorda nuovamente i Judas, tra riff potenti e ritmica secca e decisa. La voce risulta chiara e forte, pur avendo sempre questo timbro melodico che personalmente trovo molto bello. Altra scarica di adrenalina con “Clowns”, che si apre con chitarre molto old school, ma con un tocco moderno, basso e batteria a seguire che aprono la pista per l’entrata di Marios Kouroupis: bel brano fresco e orecchiabile. A chiudere, la title-track “Blindfolded” è il brano più ipnotico dell’album, molto profondo e interessante che riesce a far convivere le molte melodie con suoni pesanti, tendenti quasi al Doom. Bravissimi Heavenblack che, con questo debutto, fanno sperare in una carriera longeva che auguro di cuore, perché sono ottimi musicisti che riescono ad intrecciare il classico ad un tocco di modernità nell’universo Metal.
Ultimo aggiornamento: 07 Ottobre, 2024
Top 50 Opinionisti -
I Cult Of Scarecrow, band heavy metal belga formatosi nel 2017 da ex-membri di gruppi metal anni '90 come Dead Serious e Die Sinner Die, hanno uno loro stile che può essere descritto come una fusione di epic doom ed heavy metal vecchia scuola, con accenni di grunge e thrash.
Il loro EP di debutto autointitolato è stato pubblicato nel 2018, mentre il primo album “Tales of the Sacrosanct Man” nel 2021; quest’anno tornano con il secondo album “In Nomine Filiorum”, uscito per Empire Records.
“In The Name Of The Children” è un pezzo d’apertura d’impatto e crudo nella tematica poiché parla degli abusi della Chiesa Cattolica sui minori e, proprio per questa tematica raccapricciante, la musica è minacciosa con chitarre violente e ben salde. Questo brano, primo singolo estratto, è solido, con un basso penetrante in pieno stile doom. Bello davvero, cattivo e torvo.
Se già con l’apertura i Cult Of Scarecrow riescono ad entusiasmare, il prosieguo dell’album è sempre più interessante; la terza traccia “Phantom Pain”, ad esempio, dal ritmo veloce, con un potente lavoro di batteria di Nico Regelbrugge che regge per tutto il brano, tra le graffianti chitarre di Jan Van Der Poorten e Ivan De Strooper e l’ottima voce di Filip De Wilde. Un brano tosto e selvaggio.
“Lord of La Mancha” si discosta leggermente ed ha l’intro con una venatura ambient tra passi ed ululati che ci conducono in un bel pezzo oscuro che vede nuovamente protagonista Nico con un grande assolo di batteria; nulla togliendo al resto della band, è inutile negare che qui la batteria è ancora l’elemento essenziale, chapeau!
Più thrash la seguente “Road to Ruin” che contiene delle buone melodie che esaltano i vocalizzi di Filip ed una buonissima chitarra veramente solida mentre, in “Love Over Life”, troviamo un suono rivolto più agli anni '90 e quindi con un suono più verso il grunge.
Decisamente più incalzante, ma mantenendo una linea melodica, è “Reason to Live” che risulta un buon pezzo rock con chitarre ruvide.
“Sunday Child”, ultima traccia, ha un suono più heavy metal e doom vecchia scuola, con la voce melodica ed è davvero un’ottima chiusura.
Sintetizzando, “In Nomine Filiorum” è un ottimo lavoro suonato col cuore e si sente che l’anima del gruppo è racchiusa in queste otto tracce. Il punto centrale è legare le svariate influenze della band tra proposte doom a quelle thrash finendo al rock, i Cult Of Scarecrow ci mostrano tutte le loro sfaccettature che, personalmente, trovo potenziale incentivo per proseguire l'ascolto più volte.
Ultimo aggiornamento: 02 Ottobre, 2024
Top 50 Opinionisti -
“Polaris” è il terzo album per il duo canadese Lodestar, che si addentra in una musicalità Gothic Metal, Doom e Hard Rock. Il disco in origine fu autoprodotto nel 2023, e si presenta oggi in nuova veste per Sliptrick Records. Partiamo subito con “Shooting Star”, che apre il disco con chitarra pesante ed ossessiva che si intreccia con synth delicati; è un pezzo d’apertura potente ed una sferzata di energia che ci porta verso la più tenebrosa “Never Die” e, per marcare l'atmosfera cupa, ecco la voce di Kate Glock che con la sua profondità accentua quest'impronta tetra. Anche questo secondo brano è interessante e proprio per la sua natura ombrosa che si rispecchia maggiormente nei miei canoni, mi fa apprezzare maggiormente l’inizio di “Polaris”. Manteniamo la cupezza con la successiva “Save Me from Fate”, in cui le voci melodiose lasciano uno spiraglio per prendere fiato prima di immergersi nuovamente nell’oscurità, anche i cori seguono questa linea e regalano al brano una sorta di saliscendi tra luce e oscurità, altro brano da apprezzare a pieno. C’è da dire che "Polaris" è un album molto intimista, per nulla commerciale e va ascoltato in tutte le sue sfumature gustandolo a pieno. Con “In This Life“ i Lodestar rallentano la morsa della mestizia e ci portano in un limbo più arioso, quasi spazioso, per poi tornare in un esteso ed intenso mondo tetro con la riuscitissima “In Your Shadow”, in cui il basso si fa penetrante e vitale, un’altra track incisiva che mostra ulteriormente l’anima Doom del duo. “Distance to Your Light” è una sferzata energica con una buona chitarra pesante, anche in questo pezzo la ritmica ci porta su e giù come fosse un ottovolante, estroso ed instabile. È davvero difficile decidere se in questo disco ci sia effettivamente un pezzo migliore di un altro, ogni canzone ci porta in luoghi differenti pur mantenendo uno stile preciso. Molto raffinata e soft la seguente “Light of My Life”, che si diversifica dai brani precedenti, mentre con “World of Change” i Lodestar ci propongono una sonorità più epica e devo ammettere che è un pezzo che non mi sarei mai aspettata. Dopo questo ‘coup de théâtre’, ecco la spettacolare “Polaris”, che chiude l’album in modo armonico. Un lavoro creativo ed interessante, un mix interessante tra Gothic, Doom Metal e melodie Hard Rock fatto di chitarre, synth e momenti orchestrali.
Ultimo aggiornamento: 30 Settembre, 2024
Top 50 Opinionisti -
The Lucidia Project, band del North Dakota, fonda melodie con riff molto pesanti, atmosfere oscure e venature Prog per un Metal melodico che arriva a toccare livelli Death. Con l’EP “Requiem”, uscito per WormHoleDeath, offre buone corde in un prodotto che non eccelle per produzione, ma poco importa in realtà, perché lo fa figurare come un lavoro naturale e genuino. La title-track “Requiem” è ricca di un pianoforte avvolgente che va ad accompagnare verso delle buone chitarre pesanti ma melodiche, mentre la bella voce pulita di Chase Baldwin spicca assieme ad una ritmica Rock, nel complesso è un brano con un buon piglio che riesce a catturare l’attenzione. “Eventide”, con le sue affascinanti tastiere, ci regala nuovamente degli ottimi vocalizzi tendendo sempre ad accenti malinconici e tristi, una traccia potente e, nel suo essere calorosa, è un’altra buona prova per questa band. Nell’accattivante “Deliverance” i nostri offrono una maggiore emotività con un pezzo che non per nulla è stato scelto come singolo, bella riuscita, pulita e con ottimi agganci. La strumentale “Interlude (Seeing the Truth)” è veramente molto bella e ci accompagna al finale con “The End of the Lies”, in cui riappaiono vocalizzi più che ottimi e queste voci più roche, arrivando al growl, ben si sposano con le solide chitarre ed una buona linea ritmica. Un EP che rappresenta la drammaticità dei The Lucidia Project che, visto questo assaggio di cinque pezzi, sono certa riusciranno, spero presto, a proporre un album carico dello spessore racchiuso in “Requiem”.
Ultimo aggiornamento: 25 Settembre, 2024
Top 50 Opinionisti -
Charlotte Wessels ha pubblicato il suo nuovo album “The Obsession” per Napalm Records il 20 settembre, con il supporto di una band composta dai suoi compagni ex-Delain Timo Somers (chitarre, arrangiamenti aggiuntivi), Otto Schimmelpenninck van der Oije (basso) e Joey Marin de Boer (batteria), oltre a Sophia Vernikov (pianoforte/hammond), che contribuiscono al nuovo sound più pesante. Il disco presenta anche gli arrangiamenti di Vikram Shankar (Redemption, Silent Skies), il violoncello di Elianne Anemaat, è stato mixato da Guido Aalbers (Muse, Coldplay, Live, Queens of the Stone Age, The Gathering) e masterizzato dal pluripremiato mastering engineer Andy VanDette (noto per il suo lavoro con artisti del calibro di Porcupine Tree, Deep Purple, Dream Theater e molti altri). In questo nuovo lavoro Charlotte ha raggiunto più potenza nel suo songwriting, in cui musicalmente la malinconia e elementi oscuri seppur orecchiabili, si intrecciano tra sprazzi Prog e Metal. Le tematiche principali sono i pensieri ossessivi e la paura. Il brano di apertura “Chasing Sunsets” è molto orecchiabile, con chitarre che sapientemente riescono ad agganciare l’ascoltatore, anche la ritmica è davvero buona e nel complesso è un pezzo molto godibile. Più intensa la traccia successiva “Dopamine”, che vede ospite Simone Simons alla voce con lamenti operistici, apportando una elemento sostanziale al brano, già di per sé interessante. In “The Exorcism” l’apertura malinconica con la soave voce di Charlotte ci accompagna in una sorta di meditazione musicale, tra un cantato più angelico ed uno più grintoso, con la musica che seguendo la voce, si fa dolce o impetuosa. Questo è un pezzo in cui la nostra Charlotte si fa notare molto di più rispetto al brano iniziale, brillando per la sua interpretazione che la mostra al di fuori dei canoni a cui eravamo abituati ad ascoltarla. Con “Soulstice” Charlotte brilla nuovamente insieme ad un bellissimo pianoforte, la sua voce in questo brano si fa più dolce, mentre la musica che le fa da tappeto l’accompagna cullandoci. Altro ottimo brano. In “The Crying Room” respiriamo un’atmosfera leggera sempre con un altalenarsi di momenti melodici ad altri più pesanti, a volte appena accennati al Folk, molto brillante l’assolo di chitarra di Timo Somers. Più teatrale la seguente “Ode to the West Wind”, che ha come ospite Alissa White-Gluz, pezzo che appare più come un racconto narrato che in un fantastico duetto, ci regala un’altra atmosfera sognante, delicata e sicuramente legante. Se con quest’ultimo brano ci siamo lasciati trasportare in una sorte di turbine, con “Serpentine” Charlotte ci ammalia e irretisce in una rete raffinata di vocalizzi e suoni onirici, un pezzo davvero magistrale e magico, con un assolo meraviglioso, probabilmente il mio preferito dopo “The Exorcism”, due pezzi differenti ma entrambi coinvolgenti. “Praise” è molto particolare poiché contiene cori Gospel e venature Soul, mentre in “All You Are” ritroviamo una voce soave ed angelica, accompagnata da suoni più veementi. In “Vigor and Valor” la musica si fa più pesante, anche se a tratti rallenta la verve Metal per far spazio ai synth e ad una voce dolce, il basso di Otto Schimmelpenninck è molto profondo e marcato, così come la batteria di Joey Marin de Boer, per arrivare ad un finale epico. Il violoncello di Elianne Anemaat in “Breathe” è un brevissimo intervallo che ci porta alla chiusura dell’album con “Soft Revolution”, brano che si presenta con una veste che, ricordo, faceva parte di “Tales from Six Feet Under”, decisamente più pesante e con una differente interpretazione, sempre senza mai esagerare sconfinando in un Metal pesante. “The Obsession” è un album corposo e concettuale in cui le paure vengono messe in risalto esorcizzandole, un disco nel complesso intelligente e suonato da maestri che riescono a racchiudere la propria bravura in un complesso lavoro.
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