Opinione scritta da Michele “el Diablo” Serra
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Ultimo aggiornamento: 06 Febbraio, 2024
Top 100 Opinionisti -
I Temic sono un nuovissimo gruppo Progressive nato dall'incontro di due importanti nomi del Metal cosiddetto di qualità (e per qualità intendo non solo tecnica, ma anche gusto ed inventiva sullo strumento): parliamo di Diego Tejeida, ex tastierista degli Haken, ed Eric Gillette della The Neal Morse Band, ma anche nei Shattered Fortress (di Mike Portnoy) e con Devin Townsend. Gli altri membri, e cioè Simen Sandnes alla batteria e Fredrik Bergersen Klemp alla voce, non sono da meno avendo militato in bands quali Shining, Maraton, Arkentype e chi più ne ha più ne metta! Dunque, se siete amanti del Prog Metal le premesse per un gran disco di debutto ci sono tutte, schiacciamo play e vediamo che succede. Iniziamo con il dire che "Terror Management Theory", uscito per la Seasons of Mist, dura 58 minuti e, secondo chi scrive, sono 58 minuti che valgono la pena di essere goduti appieno e che se riascoltati più volte lasciano trasparire delle sfumature che non si colgono immediatamente. I Temic si muovono su territori musicali cari agli Haken appunto, ai Leprous, agli Architects, ai TesseracT, ma aggiungono qualcosa di nuovo al già sentito dei gruppi supertecnici appena menzionati, e cioè quella neanche troppo velata vena Pop che porta a canticchiare i ritornelli dei brani e che in gran parte è attribuibile alla struttura degli stessi che sono sì complicati, ma mai troppo contorti o poco fruibili ai più. Infatti certe produzioni delle citate bands vanno davvero troppo al di là e personalmente le reputo finalizzate più al far vedere “quanto siamo bravi” piuttosto che al “senti qua che bel pezzo!”. Nei Temic la vena Pop è data fortemente dalla timbrica e dal modo di cantare del singer Fredrik Bergersen Klemp, che ha tutto tranne che un aspetto da metallaro o una voce Metal. Ed infatti il ragazzo nel lontano 2011 ha partecipato in Norvegia al talent musicale Idol Norge, portando appunto sul palco scandinavo brani come “Don’t think twice, It’s All Right” di Bob Bylan o “Rolling in the Deep” di Adele, cioè quanto di più distante dal Metal che conosciamo bene. Però l’accoppiata Metal ultratecnico e voce Pop ci sta tremendamente bene e brani come “Falling Away” o “Through the Sands of Time” sono dannatamente belli e si lasciano cantare allegramente... solo dopo averli capiti però, perché strutturalmente non sono i classici strofa, bridge, ritornello (come d’altronde è giusto che sia nel Prog). “Through the Sands of Time” in particolare mi ha ricordato molto, nei primi 30 secondi, i Seventh Wonder di "Mercy Falls" del 2008; ed amando profondamente quel disco non poteva non piacermi questo pezzo, anche se non ho molto apprezzato dal minuto 3:32 l’uso eccessivo dei synth e dei riffing Djent style e so che sarete d’accordo con me quando sentirete l’apertura ed il bel solo di chitarra al min 4:06. Se quei 30 secondi prima li avessero cassati nessuno ne avrebbe sentito la mancanza. Ci sono anche altri momenti degni di nota come la bella “Mothallah” (dal nome dell’omonima stella distante 64 anni luce dal sistema solare, meglio conosciuta come Alfa Trianguli), con un intro tipicamente Symphony-X, una strofa eterea pronta ad esplodere in un incedere Dream Theater style, un ritornello che potrebbe essere tranquillamente in un disco dei Coldplay ed un rientro in strofa dove se non avessi saputo che erano i Temic avrei immediatamente pensato a Simone Mularoni ed ai suoi DGM (tra l’altro tutta roba che adoro); “Skeletons” dal nome e dall’intro sembra un brano dei gloriosi Goblin del maestro Claudio Simonetti e non sfigurerebbe in un horror di Dario Argento. Mi sarei evitato la solita strofa eterea senza strumenti, però sembra che ultimamente sia una moda tra le band Progressive e quindi adeguiamoci. Al minuto 3:00 si entra nel Funk ed un basso slappato cosi non te lo aspetti proprio. Al minuto 4:13 invece è la batteria ad essere dance anni '70 e poi ritornano i DT dal minuto 4:28 al 4:39. Tutto molto fico, molto strano nell’ensemble ma fico. “Acts of Violence” inizia lenta e parte solo al minuto 2:43. Ha una strofa estremamente orecchiabile, ma nel complesso è un brano che non mi ha impressionato. “Paradigm” è sulla stessa linea di “Act of Violence”, anche lei inizia lenta fino al secondo 2:11, ma mi è sembrata molto più ispirata nel ritornello ed mi ha coinvolto di più nell’ascolto, soprattutto nelle belle parti soliste di chitarra. C’è una cosa che però non ho capito di questo disco, e cioè il brano “Friendly Fire”. Una suite da 6 minuti totalmente strumentale nella quale la chitarra “solista” fa capolino solo al minuto 3:19? Sarà un mio limite ma, da chitarrista Metal che ama la melodia, non lo concepisco un brano che avrebbe potuto tranquillamente durare la metà del tempo e che personalmente mi ha annoiato dalla prima all’ultima nota. E mi ha annoiato perché appunto è priva di melodia! Sembra quasi un pezzo nel quale in fase di mixing e mastering si siano dimenticati di inserire la traccia vocale. Può apparire una battuta, ma in realtà sentendolo è esattamente l’idea che mi ha dato. E’ un brano che può essere tranquillamente cantato e buttarlo così nel mucchio senza la voce non mi ha dato emozioni. Peccato. In conclusione, tranne qualche caduta di tensione nei 58 minuti totali (e ci sta), "Terror Management Theory" dei Temic mi è piaciuto davvero molto e lo riascolterei volentieri più volte. Ne consiglio fortemente l’acquisto, perché oltre ad essere magistralmente prodotto e suonato (anche se certi passaggi, da musicista, sarei proprio curioso di sentirli e vederli dal vivo), può ben figurare in una discografia Progressive Metal del 2023 che, a parte poche perle, non ha fornito granché. Bel lavoro, bravi!
Ultimo aggiornamento: 01 Febbraio, 2024
Top 100 Opinionisti -
Ho approcciato questo “Ergo Atlas” dei portoghesi Apotheus con molta curiosità e soprattutto senza minimamente sapere né chi fossero e né tantomeno cosa avessero prodotto prima di questo full-length edito per la Black Lion Records. Bella la copertina che mi ha ricordato il capolavoro cinematografico di Ron Howard, "Cocoon", del 1985. Dunque, pieno di aspettative, la prima cosa che ho fatto è stata vedere il video del loro singolo “Cogito” e sono stato immediatamente rapito dai primi dieci secondi del brano che si apre con una chitarra arpeggiata e piena di riverbero degna dei migliori Katatonia. Ed in effetti il brano sembra tratto da quel capolavoro del 2012 che io reputo essere "Dead End King". Qui però i suoni sono più puliti, si distinguono meglio gli strumenti, il rullante e la cassa sono secchi ed in faccia all’ascoltatore. Produzione cristallina, pulita e professionale. Le atmosfere create dal brano sono eteree ed i suoni delle chitarre nel bel refrain in 7/4 non sono mai propriamente Metal. Le distorsioni sono quasi più Brit Rock che Hard Rock, e c’è un non so che di Creed nella voce del cantante Miguel Andrade che mi ricorda Scott Strapp. Il territorio sonoro è quello dei primi Tesseract e dei Leprous, ma molto meno tecnici e nervosi, sempre con i Katatonia come stella polare da seguire per tutto il disco. Qua e là sprazzi di growl e sonorità alla Opeth, ma ritengo, ed è un gusto puramente personale, che il growl non sia ahimè nelle corde della band che invece ben sa fare altro e dovrebbe concentrarsi su quello. Altro come la bella strofa clean del brano di apertura “Shape and Geometry”, potenza, tecnica e melodia per tutto il tempo della traccia. Pochi virtuosismi di chitarra, anzi nessuno, ma a tutto vantaggio della compattezza sonora che ho davvero apprezzato. A volte less is more e questo è un ottimo pezzo di apertura. Segue “The Unification Project” che apre con la chitarra arpeggiata, con i riverberi “a cannone”, che ricreano le atmosfere cupe e tristi del singolo “Cogito”, ma questo pezzo non ha lo stesso appeal del citato singolo. Con la terza “Firewall” invece le chitarre pulite si fanno da parte (finalmente) e si comincia subito forte con un ritornello che conquista al primo ascolto con il suo incedere lento e cadenzato. “Ergo Bellum” comincia sempre con la chitarra pulita ed eterea per più di un minuto e mezzo e poi per magia arrivano i Dream Theater di Overture con la chitarra distorta di Petrucci che arriva da lontano, ah no scusate non sono i DT, errore mio! Però questa salita è davvero troppo banale ed anche se la plettrata è leggermente diversa, il senso è quello lì, ed essendo io un amante delle novità e delle idee nuove (oltre ad essere un chitarrista Prog Metal da circa trent'anni) questa è un’idea vecchia di venticinque anni e se fossi stato nel chitarrista dei portoghesi mi sarei evitato questa banalità, in un disco che ha l’ambizione di essere tutt’altro che banale; scusate ma lo dovevo dire. In “March to Redemption” abbiamo la stessa, a questo punto fatemelo dire “solita”, chitarra pulita iniziale (e stavolta c’è per tutto il brano per cui, se cercate le distorsioni, skippate oltre), ma finalmente qui almeno c’è un bel solo finale con ottimi bending intonati. E poi i brani “Alphae’s Sons”, “Re:Union” e “Re:Genesis”, i primi due con le stesse atmosfere del resto dell’album, mentre "Re:Genesis", per assurdo, rallenta ancora di più con un growl ed una cadenza quasi Doom. Insomma, il disco degli Apotheus è sicuramente ben suonato, ben cantato (growl a parte, che non ho apprezzato) e ben prodotto. Un plauso va alla sezione ritmica con basso e batteria sugli scudi, ma il disco nel suo complesso, volendo giocare con il nome della band, è tutto tranne che un’apoteosi. Si lascia ascoltare, è vero, ma trovo che un disco Metal non possa e soprattutto non debba avere nei primi sette brani un solo pezzo senza chitarre arpeggiate ("Firewall") o atmosfere introduttive che portano l’ascoltatore a dover aspettare tra 1.30 ed i 2 minuti un po’ di distorsione e di Metal appunto! Decisamente no. Il risultato secondo me è quello di annoiare (almeno così è successo a me) rendendo tutto troppo piatto ed ogni brano uguale al brano precedente. Meno introduzione e più dinamica l’avrei preferita in tutti i pezzi. Certo, non posso dire che non mi siano piaciuti due o tre brani, perché ci sono pezzi eccellenti, posso però dire che solo questi non bastano per farmi acquistare un disco nella sua interezza. Quindi il voto alle qualità tecniche della band è 8, il voto personale è 6 e quindi, a gusto mio, i portoghesi chiudono con un onestissimo 7. Se però voi siete amanti dello Xanax, della depressione, del nero, del grigio e del triste questo è il disco che fa per voi e di sicuro non vi annoierete più di quanto non lo siate già.
Ultimo aggiornamento: 13 Gennaio, 2024
Top 100 Opinionisti -
Ragazzi, ho tre domande per voi: Are you ready to rock? Do you want a good time? Do you want to get high? Bene, se la risposta a queste tre semplici domande è si, allora siete nel posto giusto, mettetevi comodi e proseguite tranquillamente con la lettura. Se invece cercate funambolismi chitarristici, orchestrazioni, arrangiamenti eleganti, doppia cassa a gogo e testi pregni di contenuti, beh passate velocemente oltre. Rieccoci puntuali, di due anni in due anni rispuntano i Danko Jones o meglio rispunta Danko, voce e leader indiscusso (anche perché dà il nome alla band) dei rockers canadesi. Siamo infatti all’undicesimo album in circa 27 anni di attività del gruppo e, per chi non li conoscesse, immaginate una band così carica e così “Rock’n’Roll” da esplodere nelle vostre orecchie fin dall'inizio e senza soluzione di continuità! Questo è appunto R’n’R ad alto numero di ottani, ben confezionato, orecchiabile da morire, ma allo stesso tempo senza troppe pretese! Just rock and that’s it. Non è assolutamente una critica sia chiaro, ma il territorio in cui si muovono i canadesi è una via di mezzo tra i Foo Fighters e gli Offspring, tra le atmosfere scanzonate dei Blink182 e l’Hard Rock di matrice AC/DC e ZZ Top (ma con le chitarre più moderne, compresse e pompate), da ascoltare ad un raduno Harley Davidson mentre la birra scorre a fiumi e le salsicce cuociono sulla griglia. Semplicità old school, ma a volte less is more. Siamo perciò lontani anni luce dalla classe negli arrangiamenti dei connazionali Harem Scarem o dal muro di suono dei Nickelback. Nello specifico, in concomitanza con la fine della sessione invernale, gli studenti universitari americani, dopo aver dato il maggior numero di esami possibile, si concedono una settimana di relax, festeggiamenti e “sballo” totale, il mitico Spring Break, durante in quale la maggior parte degli studenti decide di partire per una vacanza in qualche meta “modaiola”, ballare, divertirsi e conoscere gente nuova. Ecco, “Electric Sounds” è la colonna sonora perfetta per un viaggio di gruppo, magari su un pick-up carico di casse di birra direzione Daytona Beach o Las Vegas sulla Route 66. L’album inizia forte con "Guess Who's Back”, un mid tempo alla AC/DC con il classico ritornello da “scapoccio” e la batteria che picchia forte sui piatti per creare l’effetto apertura. “Good time”, il secondo singolo estratto da "Electric Sounds", conferma la migliore qualità dei Danko Jones e cioè l’immediatezza. La voce rauca di Danko ed il riff quasi psichedelico iniziale ci regalano, secondo lo scrivente, il pezzo migliore dell’album, con una certa attenzione alle dinamiche all’interno di un brano semplice ma mai piatto. Seguono la title-track “Electric Sounds”, che nel ritornello mi ha ricordato vagamente i Tesla, e la scanzonata e catchy “Get High?”, nella quale è forte, se non lampante, l’influenza di Dave Grohl & Co. “She’s My baby” è marcatamente Punk, una corsa all’impazzata con guest Tyler Stewart dei Barenaked Ladies (ma l’album vede anche la partecipazione di Damian Abraham dei canadesi Fucked-Up e di Daniel Dekay degli Exciter), "Eye for an Eye" è per me quello che Danko Jones fa così meglio: scatenarsi e farci scatenare! Quel tipo di energia e abbandono che rende viva la musica! Dopo l’ottantiana e cadenzata “I like it”, arriva la scanzonata “Let’s Make Out”, "What Goes Around" è Punk allo stato puro con riff frenetici, batteria possente e con un assolo semplice ma incisivo; la festa termina con “Shake Your City”, e sì i Danko Jones ci scuotono alla grande ed è stato un grande R’n’R party!!! Ma poi? Eh si, poi, come cantava la grande Ornella Vanoni “La musica è finita, gli amici se ne vanno”, e personalmente, al di là dell’odore della maria e delle lattine di birra schiacciate per terra, non so se rimetterei play riascoltandomi tutto il disco di nuovo. La musica dei Danko Jones, l’abbiamo detto, è soprattutto coerenza, dando un'occhiata alla serie di album a partire da "Fire Music" del 2015, vale a dire "Wild Cat", "A Rock Supreme" e "Power Trio”, sai esattamente che, come un orologio svizzero, ogni due anni ascolterai un'altra raccolta di brani divertenti, pieni di energia e di qualità. Ma sempre la stessa minestra a volte può risultare stucchevole ai più, sicuramente al sottoscritto, anche se c’è da sottolineare che stavolta, come confermato dallo stesso Danko durante una recente intervista, l’album è più veloce dei precedenti. In conclusione, se ami l'energia incessante del Rock and Roll, questo è l'album che fa per te e, se non li hai già fatti entrare, hai bisogno dei Danko Jones nella tua vita!
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