Opinione scritta da Ninni Cangiano
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Top 10 opinionisti -
I Crimson Storm nascono nel 2009 in Sardegna per iniziativa del chitarrista italiano Lögan Heads (non è noto il nome anagrafico), il quale si è poi trasferito a Barcellona in Spagna, dove adesso la band è attiva, arrivando quest’anno all’agognato debut album “Livin’ on the bad side”, uscito per la label iberica Fighter Records. Già dall’artwork del disco (composto da sole 9 tracce per nemmeno 34 minuti di durata totale) si capisce che la band affonda le proprie radici negli anni ’80, quando poi partono le prime note dell’opener “Night of the tyrant” se ne ha la conferma; il sound, infatti, è uno speed/heavy metal, con qualche rara digressione nell’hard rock, chiaramente ispirato ai grandi nomi degli anni ’80 (a voi la scelta dei nomi). Fortunatamente la produzione, contrariamente a quanto spesso accade con gruppi del genere, non è old-style ma al passo coi tempi e permette di assaporare tutti gli strumenti degnamente. Ecco quindi che si apprezza il lavoro di Aless Oppossed al basso che supporta egregiamente il leader con il suo strumento protagonista che regala anche parti soliste al fulmicotone; in questo è anche ottimamente aiutato da Pol Esteban alla batteria che impone spesso ritmi belli sostenuti, come la ricetta dello speed metal richiede. C’è poi la voce abrasiva del singer Pau Correas, sporca e corrotta, forse non particolarmente entusiasmante in quanto ad espressività, ma comunque accettabile per lo specifico genere musicale (anche se sarebbe stato preferibile avere un cantante dall’ugola più “pulita”). Se siete alla ricerca di originalità ed innovazione, tenetevi lontani da questo disco, perché i Crimson Storm non si inventano assolutamente niente di nuovo, ma ripercorrono la strada che tanti gruppi hanno percorso prima di loro in questi ultimi 40 anni; lo fanno però con passione ed una discreta perizia, fregandosene altamente delle mode e dei predetti concetti, ma suonando solo e soltanto la musica che amano e già solo per questo motivo meritano stima e rispetto assoluti. Se, quindi, anche voi siete tra coloro che apprezzano lo speed metal ispirato agli anni ’80, sappiate che questo “Livin’ on the bad side”, debut album dei Crimson Storm, pur non essendo un disco che passerà alla storia dell’heavy metal, potrebbe indubbiamente fare al caso vostro. Sufficienza sicuramente meritata. Ad Majora!
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Ci sono gruppi più o meno famosi che, nel corso degli anni, si sono guadagnati una discreta reputazione con lavori di qualità superiore alla media; in campo thrash metal, fra questi, possiamo sicuramente annoverare i canadesi Hazzerd, autori tra il 2017 ed il 2020 di due dischi semplicemente spettacolari. In questo inizio di 2025, il gruppo è tornato con il proprio terzo full-length (il secondo per la label statunitense M-Theory Audio) intitolato “The 3rd dimension”, il cui artwork è stato nuovamente realizzato dall’artista Andrei Bouzikov (Municipal Waste e Toxic Holocaust, tra gli altri con cui ha collaborato); il disco è composto da 10 tracce per poco più di 41 minuti di ottimo thrash metal. Il sound dei ragazzi canadesi è incentrato sulla chitarra solista di Toryin Schadlich, vero e proprio strumento protagonista, ben supportato dalla chitarra ritmica (nel disco registrata dall’ex-membro Brendan Malycky, a cui è adesso subentrato Nick Schwartz) e dal basso di David Sprague. Il batterista Dylan Westendorp impone ritmi frizzanti e spesso vicini al mosh della scuola newyorkese; lo stesso Dylan si occupa anche di cantare, con uno screaming furioso e violento che si sposa comunque benissimo con il sound aggressivo del gruppo; oltretutto, nel suo stile canoro, riesce anche ad essere espressivo, fattore poco diffuso tra gli screamers in genere. Dall’inizio alla fine ascoltare questo disco è davvero piacevole ed infonde energia a profusione; a colpire è poi la compattezza del songwriting e la qualità dei vari componimenti, tanto che non ci sono assolutamente fillers o tratti di singoli pezzi di livello inferiore all’eccellenza. La band si cimenta con successo anche in una lunga suite (“A fell omen”) che alterna momenti lenti, quasi romantici, con le classiche cavalcate thrash, dividendo il brano sostanzialmente in 4 diverse parti, riuscendo a renderlo estremamente accattivante, coinvolgente e soprattutto convincente. Non resta molto altro da aggiungere, come avrete compreso gli Hazzerd fanno centro ancora una volta e questo “The 3rd dimension” non fa altro che confermare quanto di valido i canadesi avevano realizzato in passato, del resto la classe non è acqua!
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Nonostante il loro paese sia coinvolto in una guerra da tempo, quattro giovani ucraini mettono su un gruppo metal e lo chiamano Lunarway, riuscendo a fine dicembre 2024 ad autoprodursi anche il proprio debut album, intitolato “Eternal moments”. Il disco è dotato di semplice artwork (una luna tra le nuvole) ed è composto da 12 pezzi per la durata totale di oltre 68 minuti, segno che alcune tracce hanno anche minutaggio elevato. Capisco che si tratta di un’autoproduzione del proprio debut album e quindi è tollerabile che non si voglia lasciare fuori niente, ma forse sarebbe stato meglio accorciare un po’ la tracklist, magari mettendo da parte un paio di pezzi (soprattutto tra quelli della parte conclusiva) da riservare ad un eventuale futuro EP, così da rendere più efficace il tutto e più semplice l’ascolto. Il sound della band è un canonico female fronted melodic symphonic metal, con la voce dell’affascinante Alina Yermakova che solo raramente si spinge sul cantato lirico, ma è spesso espressiva e tutt’altro che stucchevole, risultando indubbiamente convincente; questo almeno fino alla parte conclusiva dell’album, in cui la cantante si lascia andare a liricismi forse un po’ esagerati che rischiano di stancare presto. Strumento protagonista è la chitarra di Serhiy Bezzubenko, ma anche le atmosfere create dalle tastiere (non è noto l’autore) non sono da meno, così come la batteria dell’ottimo Dmitriy Volokhov che impone spesso ritmi molto frizzanti e godibili; un po’ in sottofondo, forse troppo, il basso di Ernest Dashevskyi che avrei gradito potesse essere messo più in risalto dalla produzione. I vari ascolti sono sempre stati gradevoli e le canzoni migliori si trovano nella prima parte dell’album, tanto che sarei in difficoltà se dovessi scegliere tra le prime 5 tracce quali segnalare tra le mie preferite. Poi arriva l’intermezzo strumentale di “Under the serene firmament” che sinceramente non mi ha lasciato nulla e che, nei vari ascolti dati a questo disco, avrei volentieri evitato. Dopo l’ottima “The voice of universe”, l’ottava traccia è la classica ballad che ho trovato poco esaltante, mentre poi l’ingombrante ombra dei Nightwish si affaccia prepotente sulle successive canzoni (“Lost in memories” è comunque un gran bel pezzo che non sfigurerebbe affatto se fosse scritto da un certo Tuomas Holopainen!), con la cantante che si lascia andare spesso e volentieri a liricismi che finiscono per stancare abbastanza presto (specie in “Crossing all way”, il pezzo peggiore della tracklist). La lunghissima “Forever in my heart” soffre per un ritmo poco brillante e sarebbe stata più efficace se fosse durata quei 3-4 minuti in meno; il disco si chiude infine con la discreta “After the sunset” che suggella un disco che poteva essere eccezionale, se solo il livello qualitativo fosse stato costantemente come quello della sua prima metà, ma che comunque, come detto, si lascia ascoltare gradevolmente e mette in mostra un gruppo di sicuro talento. Speriamo adesso che i Lunarway possano continuare sulla loro strada, perché questo “Eternal moments” è indubbiamente un debut album molto promettente.
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Si sa poco dei finlandesi Dragonknight: sono formati da 5 musicisti che si celano dietro maschere e costumi ed usano nomi falsi (un po’ come fanno i nostri Nocturna), con il solo cantante di cui è nota l’identità (l’ex Metal de Facto, ex-Dyecrest, tra gli altri, Mikael Salo); addirittura non si sa chi suona i vari strumenti e quando e come la band si è formata. Questo alone di mistero è stato creato appositamente per incuriosire, ma a noi interessa molto poco, dato che quello che conta è la musica! E la musica di questo debut album “Legions” (uscito per la sempre attenta Scarlet Records) è davvero piacevole, un power metal fatto davvero bene e decisamente ruffiano, con qualche rara digressione nel folk (“Defenders of dragons”) e nel pirate (“Pirates, bloody pirates!”), sempre orecchiabile e con un gusto per le melodie sopraffino. Certamente qualcuno potrebbe obiettare che la band finlandese non si inventa assolutamente niente e ripercorre i classici cliché del power metal sia per le musiche (chi ha detto Rhapsody?), ma anche per il nome (ho perso il conto quando ho provato a calcolare su metal-archives.com quanti gruppi ci sono con le parole “Dragon” o “Knight”) e per l’artwork che, per onestà, non entusiasma particolarmente, ma questi sono tutti concetti che per questo umile scribacchino passano in secondo piano quando la musica è piacevole. Ed indubbiamente la musica di questi cinque finlandesi è davvero bella da ascoltare, convincente, efficace, suonata e cantata ottimamente, sicuramente in grado di far trascorrere 51 minuti scarsi in maniera gradevole e questo alla fine fa la differenza. Personalmente avrei evitato l’inutilissima intro di oltre 2 minuti ed accorciato un po’ la ballad “Astarte rise”, mentre per il resto, detta sinceramente, non trovo difetti particolari ed ho sempre ascoltato e riascoltato questo disco più che volentieri. Se anche per voi, fans del power metal, quello che conta è la qualità della musica, sappiate che questo “Legions” dei Dragonknight è pieno zeppo di canzoni molto piacevoli e sarebbe davvero un peccato farselo sfuggire!
Ultimo aggiornamento: 11 Gennaio, 2025
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Dopo un disco fantastico come il secondo album “AQVA”, per i Beriedir si prospettava un compito difficile: ripetere i fasti di quel lavoro o fare ancora meglio! E purtroppo, diciamolo subito, hanno fallito in questo compito, dato che il loro nuovo disco “Liminal spaces” è inferiore a livello qualitativo rispetto al suo predecessore. E questo accade per un semplicissimo ed unico motivo: il leader Stefano Nüsperli si è messo a cantare ogni tanto (ma comunque troppo) in growling, aspetto che semplicemente non c’azzecca niente e sta come i cavoli a merenda nel sound della band bergamasca, anche quando si indurisce con il blast-beat della batteria (“In the corner of my eyes”). Se si fosse limitato a qualche brevissima backing vocals ogni tanto, magari solo su un paio di canzoni, poteva anche essere accettabile, ma rovinare a questa maniera ogni santa traccia ha dell’autolesionismo puro. Ho provato ad ascoltare e riascoltare innumerevoli volte per abituarmi (o costringermi a farlo) a questo modo di cantare, o anche solo per provare a comprenderne (ed eventualmente accettarle) le motivazioni di questa scelta, ma ogni volta finivo l’ascolto con una sola parola in testa: perché? Già, perché decidere di rovinare un disco che sarebbe stato bellissimo (dato che le musiche dei Beriedir lo sono!) se solo fosse stato cantato normalmente. E per fortuna che il buon Nüsperli nella maggior parte dei casi lo fa, dimostrando anche una non indifferente espressività, unita all’intelligenza di non spingersi mai su note troppo alte dove madre natura non gli consente… ma quelle digressioni, più o meno lunghe (a seconda dei brani), in growling sono davvero alquanto intralcianti e fastidiose. Peccato, davvero peccato perché le varie canzoni, come detto, sarebbero proprio piacevoli da ascoltare, le melodie sono davvero azzeccate, le atmosfere estremamente accattivanti, il songwriting efficace e convincente, le tastiere sono splendide protagoniste (dando anche un tocco electro ogni tanto), le due chitarre non sono da meno e la sezione ritmica di basso e batteria è di tutto rispetto, ma quel modo di cantare…. Il voto di “Liminal spaces” è una media tra l’ottima musica dei Beriedir (che meriterebbe un voto davvero alto) e la pessima idea di metterci il growling.
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I Caressing Misery si formano nel 2021 dall’incontro tra il cantante tedesco Julian Aust ed il polistrumentista statunitense Zac Campbell, uniti dalla passione verso il gothic ed, in genere, la dark wave degli anni ’80/’90. Nel mese di dicembre 2024, grazie alla label greca The Circle Music, rilasciano il loro debut album intitolato “Lost and serene”; il full-length, dotato di piacevole artwork, è composto da sole 8 tracce per meno di 37 minuti di durata totale ed annovera anche la partecipazione, in veste di cantanti ospiti, di Hendrik Müller e della nostrana Mariangela Demurtas (presente su “A thousand seasons”, brano scelto anche per un singolo). I ritmi delle canzoni non sono mai particolarmente elevati e spesso la band sfocia nel doom più oscuro (come in “Giving birth to loss”, in cui possiamo ascoltare le harsh vocals dell’ospite Hendrik Müller); quando le atmosfere, invece, sono più brillanti, le tastiere si fanno sentire e la chitarra lavora quasi in sottofondo, ecco che i richiami alla dark wave si fanno evidenti, in particolare a gruppi come i Sisters of Mercy, anche per via della voce profonda da basso del singer Julian Aust che ricorda non poco quella del grande Andrew Eldritch. Ciò che comunque permea tutto quanto sono le atmosfere romantico-decadenti, tipiche del gothic metal con voce maschile della scuola scandinava (chi ha detto Sentenced?) e quell’alone di oscurità che permea tutto il disco e che penetra fino in fondo all’animo di noi appassionati di questo particolarissimo genere musicale. Ho ascoltato e riascoltato sempre con piacere questo disco e devo dire che la voglia di ricominciare ogni volta era sempre forte per lasciarsi cullare da questa dolce malinconia che ogni nota delle varie canzoni sprigionava. Cos’altro aspettate? Anime oscure non fatevi assolutamente sfuggire questo “Lost and serene” dei Caressing Misery, sarà ambrosia per tutti voi!
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Il prog thrash è sempre stato un genere estremamente di nicchia ed ostico ai più; solo pochi gruppi sono riusciti ad emergere nello specifico settore ed ancora meno sono riusciti a rimanere attivi a lungo e prolifici nel corso del tempo. Oggi parleremo di “Whispers of Leviathan”, debut album dei danesi Mezmerizer, gruppo attivo da oltre 15 anni ma che solo a fine novembre 2024 è riuscito a rilasciare il proprio primo lavoro. Ci troviamo davanti ad un full-length composto da 12 tracce per la durata totale di poco inferiore ad un’ora, un album parecchio ostico, in cui i vari musicisti hanno una tecnica mostruosa che mettono in mostra senza soluzione di continuità, aggiungendo un carico di groove davvero notevole che va a ricordare un po’ il sound che idearono tra fine anni ’80 e primi ’90 i Despair di quel genio di Waldemar Sorychta. Una marea di note ci sommerge fin dall’opener “Nadir of guilt” e questa caratteristica si manterrà invariata per il resto della tracklist fino alla title-track conclusiva, senza che ci sia un brano ad interrompere questa linea di condotta nel songwriting. Indubbiamente l’ascolto non è dei più semplici, né immediati e ci vuole la giusta predisposizione di spirito, oltre ad una passione per queste sonorità così contorte e particolari; ad aiutarci c’è la splendida voce del grande Michael Bastholm Dahl (ex-Artillery) che è sicuramente tra i migliori cantanti in circolazione nel campo thrash e quando hai un asso nella manica del genere si vince facile. Il ritmo non è mai particolarmente sostenuto, anche per via del fatto che il batterista Kristian Schultz centellina con parsimonia la sua doppia-cassa. Questo disco è da sorbire nella sua interezza, non a singoli passi o brevi dosi, perché solo con la sua compattezza si riesce ad addentrarsi nel mondo dei Mezmerizer e nel loro modo di concepire la musica; non si tratta di un lavoro adatto ai più, ma ad un’élite di persone in grado di apprezzare sonorità del genere. Qui dentro c’è tanta, ma tanta roba messa una sull’altra ed è quasi impossibile affermare che un pezzo sia migliore dell’altro, perché sono tutti connotati dall’essere singolari e complessi. Nel prog thrash, oltre ai predetti Despair, possiamo citare anche i Mekong Delta che sicuramente hanno fatto da muse ispiratrici per il sound di questi danesi. “Whispers of Leviathan”, come detto, non è un disco facile, ma un album estremamente affascinante ed ammaliante, realizzato dai Mezmerizer, una band che ha tutte le carte in regola per farsi ricordare nel tempo! Ora speriamo solo di non dover attendere altri 15 anni per avere un nuovo album…
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Gli In Chaos arrivano da Lisbona in Portogallo, dove si sono formati nell’ormai lontano 2009; da allora hanno realizzato solamente il debut album “From chaos rises order” nel 2016, prima di questo “Hope wears black”, autoprodotto a metà settembre 2024. L’album, con un artwork minimale (un piccione nero che spicca il volo) quasi da gruppo gothic, è composto da 10 brani per poco più di 50 minuti di durata totale ed è uscito solo in versione digitale. Ma cosa suonano gli In Chaos? Il loro è un heavy/thrash davvero piacevole, con le due chitarre di Jorge Martins (autore di piacevoli assoli) e André Lopes vere protagoniste del sound, sempre ricco di groove come i maestri Metallica e Megadeth insegnano. C’è poi la voce di André Marinho (anche ottimo bassista) che è semplicemente spettacolare, espressiva, versatile, grintosa al punto giusto, davvero perfetta per un genere come l’heavy/thrash (o melodic thrash, chiamatelo come volete), ma che potrebbe avere ottimi risultati anche con qualsiasi altro genere di metal che non richieda il growling. Possiamo quindi affermare senza ombra di smentita che la vera arma in più degli In Chaos, rispetto alla media degli altri gruppi che suonano in questo particolare settore, è proprio il cantante notevole che si ritrovano! C’è poi anche il batterista Pedro Rijo che, come tradizione di questo tipo di metal richiede, pesta a dovere sul proprio strumento, ma senza mai imporre ritmi particolarmente forsennati, grazie ad un sapiente uso della doppia-cassa, onde evitare di cadere in generi più estremi. Insomma gli ingredienti per un ottimo album ci sono tutti ed effettivamente questo disco possiamo definirlo ben superiore alla media, dato che tutte le canzoni si lasciano ascoltare molto gradevolmente ed infondono energia in dosi massicce; se, infatti, qualcuno volesse sapere quali sono le tracce preferite, sarei davvero in difficoltà, dato che sono tutte di ottima fattura, grazie anche ad un songwriting mai esagerato, ma efficace e relativamente conciso (in un paio di casi, magari, si poteva non allungare il brodo, ma comunque la scorrevolezza è sempre assicurata). Gli In Chaos sono l’ennesima dimostrazione della miopia del music business che ci ammorba con immondizie musicali e poi non si accorge dell’esistenza di gruppi di così evidente talento e di dischi di qualità superiore alla media come questo “Hope wears black”. Disco da non farsi sfuggire, sperando che qualche label più attenta possa stamparlo presto in cd.
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Capita ogni tanto in redazione, quando arriva una grande quantità di materiale da recensire, di lasciare indietro senza alcun motivo (se non appunto quello della grande mole di dischi da recensire) qualche disco; è questo il caso di “The seven laws”, secondo album degli spagnoli Empiric, autoproduzione risalente ad aprile, ma arrivataci nel mese di giugno. Ingiustamente questo disco non è stato notato, anche perché i nomi coinvolti sono davvero importanti: in primis ora fa parte della band il leggendario bassista brasiliano Luis Mariutti (ex-Angra e Shaman, tra i tanti), ma hanno partecipato come ospiti, tra gli altri, Sascha Paeth (Avantasia ed Heaven's Gate, tra i tanti), Doug Scarratt (Saxon) e Chris Caffery (Savatage, tra i tanti); la produzione, infine, è stata affidata ad un mostro sacro come Fredrik Nordström (anche al lavoro con Hammerfall, In Flames, Arch Enemy, Dimmu Borgir, Powerwolf, Opeth, ecc.) nei rinomati Studio Fredman di Gothenburg in Svezia. Il disco è composto da sole 8 tracce (finalmente una tracklist non infinita!) per nemmeno 30 minuti di durata totale, ma 30 minuti di heavy metal classico di ottima qualità! Gli Empiric, infatti, uniscono ad un songwriting estremamente efficace e diretto, un gusto per le melodie non indifferente, un approccio bello tosto, della tecnica strumentale e canora di livello elevato, i tre musicisti infatti sono tutti protagonisti nel sound con ottime prestazioni ed il cantato è versatile ed espressivo (ascoltate “Mission” per farvi un’idea). Ci sono, insomma, tutte gli ingredienti per un disco di qualità ed effettivamente ci troviamo tra le mani un album con 8 canzoni di heavy metal estremamente piacevole e di livello eccelso che sorprende tantissimo nessuna label abbia notato e ristampato, al fine di renderlo maggiormente disponibile sul mercato! Come sempre, siamo ammorbati da immondizie musicali e poi gemme come questo disco vengono ignorate e relegate all’autoproduzione…. Serve aggiungere altro? “The seven laws” degli Empiric è tra le migliori uscite indipendenti del 2024 e tanto basti! Adesso speriamo che qualche etichetta di qualità si accorga di loro per farli conoscere in giro per il mondo….
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Quello dei Jaded Heart è un nome sulla scena da diverse decadi; attivi già tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80 con i monicker di High Voltage prima e Tax dopo, per poi assumere il nome attuale nel 1990 e sfornare una lunga serie di full-lengths in oltre 30 anni, prima di arrivare a questo EP, in assoluto il primo della loro carriera, intitolato “Intuition”. Il disco è composto da 4 tracce per poco più di ¼ d’ora di durata totale, è uscito a fine settembre per la Massacre Records. In questi giorni di inizio anno, in attesa delle uscite del 2025, ci siamo messi al lavoro per recuperare gli arretrati e questo lavoro è stato tra i primi che sono stati ripescati. Jaded Heart è un nome che è da anni garanzia di qualità, con la loro proposta di metal estremamente melodico, sempre parecchio ruffiano ed orecchiabile, con numerose digressioni nell’hard rock. E proprio da gruppi più hard rock ecco che vengono prese due cover. La prima è “Dance the night away”, canzone degli Europe tratta dal loro secondo album del 1984, “Wings of tomorrow”; la seconda, invece, è molto più recente, dato che si tratta di “Square hammer” dei Ghost, tratta dall’EP “Popestar” del 2016. In entrambi i casi, non conosco bene gli originali, ma queste versioni targate Jaded Heart sono sicuramente piacevoli. L’EP è aperto dalla title-track, brano inedito; si tratta di un pezzo molto orecchiabile, aperto dal piano dell’ospite Henrik Larsson (noto produttore e tastierista svedese), in cui la band mostra i muscoli, ma stando sempre attenta alle melodie, con un Johan Fahlberg che si mette in ottima evidenza; piacevoli le parti soliste della chitarra di Peter Östros, ben accompagnate dal basso di Michael "Mülli" Müller, mentre Bodo Stricker alla batteria impone un ritmo frizzante, ma non esageratamente veloce. Canzone sicuramente riuscita e di buon gusto. Chiude il lavoro la versione live (registrata nel novembre 2022 durante un concerto ad Amburgo) di “Love is a killer”, tratta dall’album “Perfect insanity” del 2009; al riguardo devo dire che la registrazione non è proprio perfetta, soprattutto per il rullante della batteria che risulta troppo “secco”. In conclusione, ci troviamo davanti ad un lavoro non imprescindibile e che sicuramente non passerà alla storia del gruppo, se non per il fatto che è l’unico EP realizzato in tanti anni di carriera; se però siete fans dei Jaded Heart, questo “Intuition” non potrà mancare nella vostra collezione.
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