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Opinione scritta da Ninni Cangiano

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    12 Mag, 2024
Ultimo aggiornamento: 12 Mag, 2024
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I Violet Eternal nascono dal desiderio di due musicisti, uno giapponese e l’altro italiano, di fare della musica assieme ed ecco che Ivan Giannini (noto cantante di Derdian e Vision Divine, tra i tanti) e Jien Takahashi (chitarrista degli Heaven’s Tragedy, tra gli altri) realizzano col nome Violet Eternal questo debut album intitolato “Reload the violet”. Il disco, rilasciato in Europa dall’italiana Rockshots Records, è composto da dieci canzoni (nell’edizione giapponese rilasciata da Rubicon Music c’è una bonus track che è una versione alternativa della terza traccia) per una durata totale di poco inferiore ai 40 minuti, segno che le canzoni non sono lunghe ed il songwriting è bello conciso ed efficace. Ma, per funzionare, un gruppo ha bisogno anche di chi si occupi di altri strumenti ed ecco che abbiamo una serie di ospiti, da Andrea Cappellari (ex-SkeleToon) ed Ollie Bernstein (Magic Opera) che si occupano in tutto l’album rispettivamente della seconda chitarra e del basso, a cui si aggiungono solo in alcune tracce gente come Ryuya Inoue, Yukhi, Gabriel Guardiola, Takao e niente meno che Timo Tolkki, mentre la produzione (ottima, ma non mi è piaciuto il suono della doppia cassa) è stata curata da quel mostro sacro di Dennis Ward. Ma cosa suonano i Violet Eternal? Nella bio di presentazione vengono fatti paragoni con gli Stratovarius (alquanto campato in aria!), Beast in Black (sinceramente non sento evidenti richiami) ed Angra e proprio quest’ultimo forse è quello più azzeccato, dato che il gruppo italo-giapponese suona un Power dalle tinte Prog molto elegante e frizzante che potrebbe far venire in mente la band brasiliana, con qualche accenno anche al neo-classico nelle parti soliste di chitarra. Quando poi si ha in formazione un cantante di livello eccezionale come Ivan Giannini, allora tutto diventa più semplice e si parte già da una base più elevata rispetto alla media. I vari ascolti dati a questo album sono stati sempre piacevoli e non c’è alcuna traccia di livello qualitativo inferiore all’eccellenza; quello che colpisce, infatti, è la compattezza del disco che è semplicemente una spanna sopra a tanti altri nello specifico genere; se proprio dovessi essere costretto ad indicare una canzone preferita, penso che andrei sulla splendida e velocissima "Sonata black" che chiude il disco in maniera eccezionale. E se c’è ancora qualcuno che sostiene (credendoci e non solo per moda) che il Power Metal non abbia più nulla da dire, ci sono gruppi come i Violet Eternal e dischi come questo “Reload the violet” a smentirli apertamente! Acquisto vivamente consigliato e non solo per i fans dello specifico genere musicale.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    11 Mag, 2024
Ultimo aggiornamento: 12 Mag, 2024
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Sono passati ben 25 anni da quel meraviglioso “Stairway to Fairyland” che fu il debut album dei tedeschi Freedom Call; da allora sono stati pubblicati altri dieci full-length da studio (oltre a vari singoli, EP, live, ecc.), di cui l’ultimo è questo “Silver romance”. Tutti i dischi dei Freedom Call hanno una sorta di marchio di fabbrica che li contraddistingue e li fa assomigliare tra loro; qualcuno potrà tacciare Chris Bay & C. di essere ripetitivi e di utilizzare sempre la stessa ricetta vincente, ma a noi fans della band non ce ne può fregare di meno perché la musica che vogliamo ascoltare dai Freedom Call è esattamente quella che loro suonano! Quel meraviglioso Happy Metal estremamente orecchiabile e ruffiano, pieno di cori e coretti che si finisce per urlare tutti assieme in sede live o a fischiettare mentre si è soli sotto la doccia. Emblematica in tal senso la traccia 12 “High above” che inizia con il classico “oh-oho”, tre battiti di mani e le parole “Take me high above” ripetute all’infinito e già mi immagino dal vivo questa canzone gridata a squarciagola da tutto il pubblico accorso sotto il palco! Bene o male, tutte le tredici canzoni di questo full-length seguono questa falsa riga; un po’ diverse dalle altre la cadenzata “Blue giant” che poi si rivela essere il punto qualitativamente più basso del disco (nonostante una prova del singer decisamente espressiva e versatile) e quella “Supernova” che, nel mood classico dei Freedom Call, inserisce qualche parte elettronica, finendo per essere un altro dei pezzi convincenti del disco. Tutto l’album, nei suoi quasi 53 minuti di durata, risulta estremamente gradevole da ascoltare e sicuramente convincente, a patto però di essere dei fans della band e di questa versione più “happy”, easy e melodica del Power Metal. I testi, come sempre, non sono “impegnati” e canzoni come “Metal generation” o “Big bang universe” vanno prese per quello che sono: puro intrattenimento da godersi tutti assieme, così come lo sono pezzi come “Out of space” con la sua tastierina giocattolosa. Gli assoli delle chitarre sono sempre godibili, ben sorretti in sottofondo dal basso che pulsa a dovere e con la batteria che detta ritmi quasi sempre frizzanti; c’è poi Chris Bay che, come il buon vino, migliora invecchiando e regala una prestazione di tutto rispetto. I Freedom Call sono questi da 25 anni a questa parte, prendere o lasciare… e, per quanto mi riguarda, con questo “Silver romance” continuo a prendere e ad apprezzare! Buon divertimento!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    05 Mag, 2024
Ultimo aggiornamento: 05 Mag, 2024
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Sono passati già vent'anni dalla nascita dei tedeschi Feuerschwanz e, per festeggiare questa ricorrenza, la band ha deciso di rientrare in studio e mettere mano ai suoi pezzi più famosi, ri-registrandoli con i testi in inglese. Ed ecco che canzoni come “Das elfte gebot” diventa “The forgotten commandment”, oppure “Untot im drachenboot” si trasforma in “Death on the dragonship” e “Fegefeuer” cambia in “Purgatory” e così via. Naturalmente rimangono invariate, ma solo nei titoli, dato che i testi vengono tradotti in inglese, le varie “Highlander” (posta in apertura), “SGFRD Dragonslayer”, “Bastard of Asgard” e la sempre splendida “Memento mori” (tra le migliori mai scritte dal gruppo!). Accanto a questi rifacimenti, troviamo anche la cover di “Valhalla calling” del musicista irlandese Miracle of Sound (al secolo Gavin Dunne), diventata famosa grazie al videogioco Assassin’s Creed, nonché un solo inedito intitolato “The unholy grail”. Si tratta di una canzone nel classico stile dei Feuerschwanz, quel tipico Folk Power che ha portato la band ad essere una vera e propria garanzia in questo settore; da segnalare in questa canzone la presenza di ospiti da Orden Ogan e Dominum. Altri ospiti li possiamo trovare in “Wardwarf” dove compare Francesco Cavalieri dei Wind Rose, in “Memento mori” c’è Chris Harms (Lord of the Lost), mentre in “Song of ice and fire” troviamo Patty Gurdy (musicista folk tedesca che ha collaborato, tra gli altri, anche con gli Alestorm). Qualcuno potrebbe chiedere perché acquistare questo disco? La risposta principale, oltre al fatto di avere un inedito ed una cover (che comunque si possono ascoltare sul tubo), sta proprio nel fatto che molte canzoni cambiano radicalmente passando dal tedesco all’inglese e, detta sinceramente, per chi non conosce il tosto e spigoloso idioma teutonico, è un sollievo poter finalmente comprendere cosa viene detto e poterlo cantare assieme ai mitici Hauptmann Feuerschwanz (all’anagrafe Peter Henrici) e Prinz R. Hodenherz III (alias Benjamin Ulrich Metzner). Non credo ci sia altro da aggiungere, se siete fans dei Feuerschwanz e del loro Folk/Power questo “Warriors” non può mancare nella vostra collezione!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    04 Mag, 2024
Ultimo aggiornamento: 04 Mag, 2024
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I Tomb of Giants nascono nel 2013 in Germania, nella Bassa Sassonia; finora, oltre al debut album omonimo rilasciato nel 2017, sono riusciti ad autoprodursi un secondo album uscito a maggio 2023, intitolato “Legacy of the sword”; il disco è composto da sole sette tracce per una durata totale di nemmeno 31 minuti, tanto che è una sorta di via di mezzo tra un EP ed un LP ma, dato che la band, lo definisce come il proprio secondo full-length, accettiamo questa definizione. Il sound del gruppo tedesco (con cantante italiano) è un robusto Heavy Metal, ispirato evidentemente dalla NWOBHM e, soprattutto, dalla lezione impartita dagli Iron Maiden. Abbiamo quindi le cosiddette “twin guitars” di Oliver Nienhüser e Yannik Moszynski che si scambiano parti soliste di gran gusto ed il basso pulsante di Daniel Melchior che è evidentemente cresciuto con il poster di Steve Harris sempre accanto. La batteria del buon Mirco Nienhüser impone spesso ritmi frizzanti e non si limita (giustamente!) al compitino di accompagnamento, mentre la voce del nostro connazionale Sergio Cisternino è potente, spesso rabbiosa e dotata di una buona estensione ed espressività. Abbiamo davanti qualcosa di originale ed innovativo? Assolutamente no, questi termini credo siano assenti dal vocabolario dei Tomb of Giants; credo, infatti, che loro suonino solo e soltanto la musica che amano e lo fanno sicuramente bene! Il loro Heavy Metal è infatti trascinante, ricco di energia e grinta finendo per risultare decisamente convincente ed anche coinvolgente; come ho detto più e più volte nelle mie recensioni, se la musica che ascolto mi da energia e sensazioni positive, me ne sbatto altamente della mancanza di originalità! E gli ascolti che ho dato a questo disco sono sempre stati piacevoli; persino nell’astrusa traccia finale “Dosenbier” che penso sia solo uno scherzo della band che ha voluto “giocare”, magari tra una birra ghiacciata e l’altra… “Legacy of the sword” dei Tomb of Giants non passerà alla storia dell’Heavy Metal, ma ci consente di passare una mezz’oretta della nostra vita ascoltando musica di buona qualità. Cosa pretendete di più?

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    03 Mag, 2024
Ultimo aggiornamento: 03 Mag, 2024
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Le Pirate Queen sono un gruppo tutto al femminile formatosi nel 2023 e proveniente da diversi paesi (UK, Spagna, ecc.), anche se, forse per creare un alone di mistero (tutte usano degli pseudonimi), vengono indicate come provenienti dal Triangolo delle Bermuda nei Caraibi; questo “Ghosts” è il loro debut album, composto da otto tracce per una durata totale di circa 33 minuti. Vengono presente come “la prima band Pirate Metal tutta al femminile”, ma del genere in questione nella loro musica non c’è praticamente nulla! Se per la definizione “Pirate Metal” vi bastano dei vestiti di scena (detta sinceramente, quasi carnevaleschi; la batterista con la mascherina, ad esempio, sinceramente non si può guardare!) ed i testi delle canzoni, allora buon pro vi faccia; personalmente da questo genere mi aspetto chitarre dal riffing serrato ed affilato come sciabole, drumming furioso e veloce (soprattutto nella doppia cassa), cori epici ed atmosfere e, per finire, voce aggressiva e cattiva… ma qui non c’è assolutamente nulla di tutto questo! Le chitarre sono spesso scariche di energia e mai si spingono nella ricerca di riff massicci, la batterista non pesta più di tanto sull’acceleratore e l’uso della doppia cassa non è frequente come dovrebbe (in “Ghosts” e “Santa Lucia” va riconosciuto che si mette al lavoro come si deve), le atmosfere sono rarefatte ed i cori non si sentono quasi mai (forse la sola “In the search of Eldorado”, come qualcosa della pesante “Open fire”, meritano attenzione in tal senso), la voce è poi quella che manca maggiormente di attitudine, risultando assolutamente priva di grinta, ma solo una normalissima voce femminile degna di una normalissima female fronted Melodic Metal band (ed evitiamo di ricordare i momenti stucchevoli in cui cerca liricismi che c’entrano come i cavoli a merenda!). Già, perché in fin dei conti le Pirate Queen non sono assolutamente una band di Pirate Metal, ma un normalissimo gruppo Melodic Power Metal, come tante altre prima di loro, con la sola differenza che usano costumi di scena da pirati e si atteggiano in tal senso (vedere i video per capire), risultando però tutt’altro che credibili e convincenti. Non capisco poi la scelta di inserire ben tre volte la title-track presentata, oltre che nella normale versione, come “radio edit” e strumentale, quasi a voler fare da “riempitivo” per non rilasciare un EP (la breve durata è sintomatica in tal senso). Dispiace perché, se non fossero state presentate come un gruppo di Pirate Metal, ma solo e soltanto come un normalissimo gruppo Power Metal, sia pure nella versione più melodica, tutto al femminile, il risultato finale sarebbe stato differente, perché in fin dei conti la musica suonata dalle Pirate Queen non dispiace più di tanto, pur non brillando particolarmente; a questa maniera, però, non c’è speranza che questo “Ghosts” meriti anche solo la sufficienza. Scusate, ma ora mi vado ad ascoltare gente come Blazon Stone e Silverbones, tanto per ricordarmi cosa è veramente questo genere!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    03 Mag, 2024
Ultimo aggiornamento: 03 Mag, 2024
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I The Inner Me sono un gruppo austriaco attivo da ormai circa un decennio, quanto meno dal 2015, anno in cui è uscito il loro debut album “A new horizon” (al sottoscritto purtroppo sconosciuto); a distanza di quasi dieci anni si ripresentano con un nuovo full-length autoprodotto, intitolato “Rosabelle believe”, dotato di copertina alquanto anonima, composto da dodici tracce per quasi 57 minuti di durata totale. Si tratta di un concept album incentrato sulla figura di Harry Houdini e sul suo amore per la moglie Bess. Ma cosa suonano questi austriaci che, tra l’altro, non sono più dei ragazzini? Il loro sound è un Heavy/Power Metal contaminato da parti Hard Rock e qualche influsso Prog, il cui risultato è un qualcosa non di semplice assimilazione e che non è particolarmente orecchiabile, né ruffiano; sarà per le tematiche dei testi, ma il sound è quasi oscuro e melodrammatico e tutt’altro che easy listening o happy. Ci sono voluti quindi diversi ascolti per assimilare le varie tracce, ricche di sfaccettature diverse ma sempre piacevoli da ascoltare e riascoltare. Un’altra cosa che mi ha colpito è la notevole eterogeneità tra le varie tracce; si passa dal Power di “Immigration” alla hard rockeggiante (con richiami al sound americano degli anni ‘80) di “I am magic”, andando poi alla lenta e malinconicamente romantica “Far away from light” ed allo US Metal di “Dime show” e così via, fino alla breve conclusiva “Epilogue (Rosie, sweet Rosabel)” per piano e voce femminile. Ecco forse questa eterogeneità alla lunga finisce per rivelarsi un’arma a doppio taglio, appesantendo l’ascolto che non si rivela sempre particolarmente fluido e ficcante. Ciò nonostante, i vari ascolti dati a questo disco sono sempre stati piacevoli ed è evidente il buon gusto nel songwriting da parte del terzetto austriaco e, se qualcuno mi chiedesse di scegliere la mia traccia preferita, credo che non esiterei ad indicare “How I conquered the East”, la canzone più veloce e frizzante di tutta la scaletta. Strumento principale è la chitarra di Reinhard "Kotza" Müller che regala piacevoli parti soliste in quantità, ben sorretto dal basso di Daniele Tallamassl che ricama in sottofondo. Da segnalare la presenza di una voce femminile (di ospite ignota), oltre nella traccia conclusiva, anche nella già citata “Far away from light” e nella title-track, che duetta alla grande con il singer David Stawa; alla batteria invece c'è un altro ospite, l'austriaco Rainer Lidauer (come suggeritomi dalla stessa band). Tirando le somme, è evidente che gli austriaci The Inner Me con questo “Rosabelle believe” abbiano realizzato un album di buona qualità; adesso speriamo di non dover attendere un’altra decade per un nuovo disco….

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    01 Mag, 2024
Ultimo aggiornamento: 01 Mag, 2024
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Gli Stormborn arrivano da Londra, dove sono attivi dal 2007; finora però hanno misteriosamente realizzato solo l’album omonimo nell’ormai lontano 2012 ed una manciata di singoli nel corso degli anni. Forti di un contratto con la piemontese Rockshots Records (label sempre attenta ai lavori di qualità!), trovato un nuovo cantante (Christopher Simmons, anche nei thrash/deathsters Wretched Soul), hanno sfornato a fine aprile il loro secondo full-length intitolato “Zenith”, dotato di piacevole artwork e composto da sette canzoni (cui si aggiunge la solita inutilissima intro ed un breve intermezzo strumentale alla quarta traccia) per una durata totale di soli 39 minuti. E’ evidente sin da subito che gli Stormborn sono cresciuti a pane ed Iron Maiden; il loro Heavy Metal, infatti, è solo un po’ più veloce di quello degli Irons (ottimo il lavoro di Andy Felton alla batteria!) ma, a livello di trame delle due chitarre e soprattutto di linee melodiche, ripercorre quanto fatto nel corso degli ultimi 45 anni da Steve Harris & Co.; ecco, a proposito di bassisti, è doveroso sottolineare che Simon Ball (forse il soprannome “Steve” deriva proprio dal suo idolo…) nello stile si ispira al maestro, ma nel sound è meno protagonista, forse perché sacrificato dalla registrazione in sottofondo e messo poco in risalto. Se, quindi, amate le produzioni degli anni ’80 dei Maidens ed, in genere, la NWOBHM, questo disco sicuramente farà al caso vostro. Qualcuno potrà obiettare (ed a ragione) che gli Stormborn non sono per nulla originali e non si inventano assolutamente nulla, suonando della musica che in tanti altri hanno fatto prima di loro, ma penso che la band inglese suoni solo e soltanto la musica che i propri componenti amano e se ne fottano ampiamente di essere originali! Del resto, come ho più e più volte evidenziato nelle mie recensioni, se quello che ascolto mi piace, mi dà energia, mi suscita emozioni, posso tranquillamente fregarmene che non sia innovativo. E, cari lettori, l’Heavy Metal degli Stormborn e le canzoni di questo “Zenith” riescono sicuramente a centrare questo obiettivo, riuscendo anche a non risultare troppo vintage ed old school. Album sicuramente promosso a pieni voti ed indubbiamente più che piacevole da ascoltare, anche se le vertebre cervicali, martoriate dal continuo headbanging, sembrano pensarla diversamente.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    28 Aprile, 2024
Ultimo aggiornamento: 28 Aprile, 2024
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Quello dei War Grave è un nome nuovo che arriva da Londra, dove il gruppo si è formato nel 2021 tra musicisti non di “primo pelo” attivi nell’underground londinese da tempo. Dopo un paio di singoli, la band arriva in questo mese di aprile a rilasciare il proprio primo EP omonimo, composto da cinque pezzi per una durata totale di quasi 28 minuti. Ciò che salta subito all’occhio è la durata importante; alcuni pezzi, infatti, hanno durate elevate (la title-track, ad esempio, dura oltre 7 minuti) e forse sarebbero stati più efficaci con qualche sforbiciata qua e là per abbreviarli di 1-2 minuti. Guardando la bio allegata alla richiesta di recensione, vengono fatti paragoni con gente come Megadeth e Symphony X ma, come spesso accade in questi casi, si tratta di accostamenti decisamente campati in aria; meno inappropriati, invece, sono i confronti con Judas Priest e soprattutto con gli Iron Maiden. Ecco, credo che le principali somiglianze della musica dei War Grave siano proprio con i mostri sacri dell’Heavy Metal inglese da cui il quintetto ha mutuato il proprio sound ed il modo di concepire la musica. Aggiungeteci poi un bel po’ di energia e grinta, che sfocia quasi nel Thrash, ed ecco il sound made in War Grave! Qualcosa di originale ed innovativo? Assolutamente no, ma non credo sia questo l’intento del gruppo inglese; penso, infatti, che loro suonino solo e soltanto la musica che amano, fottendosene altamente dell’originalità e, come ho sempre sostenuto, se la musica che ascolto mi piace e mi dà energia e/o emozioni, me ne sbatto profondamente se non c’è originalità! I cinque brani dell’EP si somigliano abbastanza tra loro, nel senso che hanno come filo conduttore l’energia, la rabbia e l’impatto, con riff massicci, assoli veloci, parti vocali spesso urlate, ritmi di batteria frizzanti ed il basso che pulsa in sottofondo; ecco, ritengo che sarebbe stata necessaria una maggiore attenzione per le melodie, ma forse l’approccio è stato volutamente violento e va preso per quello che è. Intelligentemente il gruppo non vuole sembrare vintage o troppo old school e la produzione viene studiata al passo coi tempi, carica di groove e decisamente ben fatta. Questo EP omonimo è insomma un buon biglietto da visita per i War Grave, gruppo che ha solo bisogno di lavorare di più sulle melodie e sull’efficacia dei singoli componimenti per evitare di “allungare il brodo” inutilmente; per il resto le qualità sono evidenti, aspettiamo solo un LP, fiduciosi che si saprà far meglio di così!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    27 Aprile, 2024
Ultimo aggiornamento: 27 Aprile, 2024
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E’ un mistero come mai un gruppo eccezionale come gli Holy Knights non sia riuscito a sfondare, un mistero come mai abbiano registrato solamente due full-length (uno più bello dell’altro!), un mistero come mai sono dodici anni che non si facciano sentire! Ci ha provato quest’anno la greco/rumena Sleaszy Rider Records, andando a riesumare il demo che la band siciliana rilasciò nel 2000, rimasterizzandolo, aggiungendo due cover (risalenti al 2002) e presentandolo con un nuovo artwork (molto bello!) ed un nuovo titolo: “The demo 1999/2000 (Gate through the past)”. Chi conosce la band, saprà che i pezzi del demo sono poi finiti nel meraviglioso debut album del 2002 “A gate through the past”, praticamente senza modifiche particolari, se non “Quest of heroes” che non è divisa in due parti. Ecco, quindi, che dopo l’intro “The march of black knights” parte la meravigliosa “Sir Parcival”, una delle più belle canzoni Power Metal mai scritte in Italia, praticamente perfetta in ogni sua nota. Come detto, “Quest of heroes” non è divisa in due movimenti ed in questa veste lunga quasi 9 minuti si fa apprezzare ugualmente. Chiude il demo la ballad “Love against the power of evil”, struggente e da brividi, con un Mark Raven estremamente versatile. Ci sono poi le due cover, “Free” degli Heavy Load e “The end of the night” degli Sword, uscite nel 2002 in delle compilation dedicate alle due storiche bands. Le due chitarre del compianto Ezio Montalto (portatoci via dal Covid nel 2021) e di Danny Merthon (all’anagrafe Salvatore Graziano, poi uscito dalla band diversi anni addietro) sono splendide protagoniste, ben sostenute dal basso di Nick Rose (uscito subito dopo il demo dal gruppo) e dalle tastiere suonate dal cantante Mark Raven (Dario Di Matteo, che fa ancora parte della formazione odierna). C’è poi la batteria del maestro Claudio Florio (che qui usa lo pseudonimo di Claus Jorgen) che connota il sound con la sua potenza e fantasia. Qui insomma ci sono i primi passi di una band che avrebbe avuto tutte le carte in regola per affermarsi a livello internazionale: talento, fantasia, songwriting, qualità fuori dal comune… Eppure la storia è andata diversamente, purtroppo! Ci si augura quindi che questo “The demo 1999/2000 (Gate through the past)” sia un primo passo per la rinascita degli Holy Knights, augurando loro di poter presto raccogliere quello che meritano!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    27 Aprile, 2024
Ultimo aggiornamento: 27 Aprile, 2024
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Quando mi hanno proposto la recensione dei toscani Emberstar, non avendo la benché minima idea di chi fossero, pensavo che, visto il nome, fossero un gruppo dedito al Power Metal e mi sono subito tuffato nell’ascolto con entusiasmo. Immaginate la mia sorpresa quando ho scoperto che gli Emberstar suonano invece un Thrash furiosissimo ed estremamente arrabbiato, quando persino l’artwork molto bello farebbe pensare ad altro genere musicale decisamente più melodico e meno violento. Questo “Dialogue with the outside” è il loro debut album, uscito originariamente ad ottobre 2023 come autoproduzione, per poi essere rilasciato dalla Punishment 18 Records a fine marzo 2024; il disco è composto da nove tracce per una durata totale di poco inferiore ai 47 minuti. Purtroppo ho avuto a disposizione per la recensione un unico file con tutte le canzoni messe assieme ed è stato complicato distinguere le une dalle altre, tanto che per individuare la mia preferita (“Queen Anne’s revenge”) mi sono dovuto mettere a fare i calcoli sul minutaggio trascorso. Spero per il futuro di non ricevere mai più un unico file, perché vi assicuro è difficile capire a che punto dell’ascolto si è e quale canzone si sta seguendo in un dato momento, visto che non vi è indicazione alcuna, se non quella del minutaggio trascorso. Ma, tralasciando queste difficoltà, quello che conta è la musica e quella degli Emberstar è decisamente tosta e violenta, grazie soprattutto al cantante Jacopo Terzaroli che vomita tutta la sua rabbia senza soluzione di continuità dal primo all’ultimo istante, senza praticamente concedere mai un attimo di tranquillità, ma urlando sempre come un ossesso. E questo, a lungo andare, diventa il vero punto debole del disco. Se, infatti, le musiche sono sempre ben fatte e piacevoli da ascoltare per un appassionato del Thrash (ottimo il lavoro di Raffaele Muscatiello alla chitarra, come anche quello di Michelangelo Mattei che picchia a dovere sulla batteria), la voce sempre urlata e sempre sostanzialmente uguale a tante altre finisce per rischiare di annoiare; forse sarebbe stato più opportuno diversificare un po’ l’approccio ed evitare di essere solo e soltanto rabbioso. Quello che ne risulta, infatti, è una staticità non indifferente, quasi che il vocalist non sappia fare altro che urlare a più non posso. Dispiace dirlo perché, come già evidenziato, le musiche degli Emberstar sono davvero interessanti e convincenti, ma a non convincere è proprio la prestazione del leader (il gruppo è stato fondato proprio da Terzaroli, assieme al chitarrista Muscatiello). Per il futuro gli Emberstar dovranno provare a staccarsi dal solito cliché rabbioso, tanto diffuso tra i gruppi Thrash di più recente formazione, cercando di diversificare maggiormente il loro approccio, tentando un percorso magari più personale ed introspettivo; per il momento questo “Dialogue with the outside” merita sicuramente la sufficienza, perché mette in mostra buone potenzialità che hanno solo bisogno di essere incanalate verso un interessante futuro.

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