Opinione scritta da Ninni Cangiano
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Top 10 opinionisti -
I Veil of the Serpent sono un gruppo formatosi nel 2021 e composto da due musicisti tedeschi (padre e figlio, rispettivamente chitarrista e batterista) ed un cantante statunitense; finora la band ha rilasciato una marea di singoli e ben tre EP, fantasiosamente intitolati “Gallery of sin” I, II e III, autoprodotti tra il 2022 ed ottobre 2024. A fine novembre 2024, si sono autoprodotti anche questo debut album e secondo voi con quale titolo? “Gallery of sin”, ancora una volta! Il disco, uscito solo in versione digitale, è composto dai tre predetti EP a cui sono state aggiunte le solite inutilissime ed immancabili intro ed outro e solo due pezzi nuovi, per un totale di ben 14 tracce ed una durata di quasi un’ora e ¼… un po’ troppo direi! Molti, troppi brani, infatti, hanno minutaggi elevati che sfiorano o addirittura superano i 10 minuti, segno che il songwriting tende ad essere alquanto prolisso; i pezzi lunghi, infatti, non riescono a tenere sempre alta l’attenzione e rischiano persino di annoiare (come accade, ad esempio, nella parte finale di “Megalomania”); metterne quindi parecchi tutti assieme si è rivelata una scelta poco oculata. Verrebbe da chiedersi anche che senso abbia autoprodursi solo in versione digitale tre EP in tre anni e poi autoprodursi sempre e solo in digitale un LP che raccoglie i tre EP ed aggiunge sostanzialmente solo due brani (sorvoliamo, infatti, sulle intro ed outro) che forse sarebbe stato meglio inserire in un quarto EP. Ma passiamo oltre a questo lecito dubbio. La musica dei Veil of the Serpent è un heavy metal alquanto oscuro, con un discreto groove sulle chitarre ed un cantato quasi baritonale che ogni tanto sfocia nel più becero (e fastidioso) growling che sinceramente non c’azzecca proprio nulla con il sound della band; JD Stafford, inoltre, non convince più di tanto, quasi abbia un’estensione alquanto limitata (almeno così pare) e difetti un po’ in espressività (ad onor del vero migliora leggermente nella parte finale della tracklist)… una sorta di via di mezzo poco ficcante, quando invece sarebbe servita una voce più calda o più acuta (a seconda dei gusti e della direzione musicale che si voglia intraprendere) e sicuramente maggiormente espressiva. Il ritmo imposto dal batterista tedesco Felix Pirk è spesso frizzante, ma soprattutto nei pezzi lunghi risulta non proprio brillante e fantasioso. Ho ascoltato e riascoltato più volte questo disco (seppur a tratti, a causa dell’eccessiva lunghezza) cercando di trovare qualche spunto positivo, qualche pezzo che da solo salvasse la baracca, ma ogni volta finivo con l’amaro in bocca rimanendo deluso, anche se devo evidenziare che la seconda parte della tracklist è migliore della prima. Trovo poco da salvare per questa band in questo “Gallery of sin” e per il futuro credo che i Veil of the Serpent abbiano bisogno in primis di trovare un cantante migliore e poi magari di svincolarsi da questa galleria di peccati e cercare di snellire il loro songwriting, in modo da renderlo più interessante e coinvolgente.
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I Prehistoria sono una band formatasi nel 2020 e composta da veterani della scena metal underground statunitense; tutti quanti infatti hanno militato in svariati altri gruppi nel corso degli anni e nessuno di loro può essere più definito un ragazzino. Questo “Cryptic halo” è il loro primo full-length, dopo l’EP di esordio “Cursed lands” del 2022; l’album è dotato di artwork non proprio esaltante ed è composto da 9 tracce (compresa la solita inutilissima intro che persino la band definisce “futile” nel titolo) per una durata totale di ¾ d’ora circa; il disco è stato rilasciato dalla californiana Stormspell Records (una vera e propria garanzia nell’heavy metal da ormai un ventennio) e vede la mano esperta del sanmarinese Simone Mularoni nei suoi Domination Studio per mix e mastering (altro nome che è una garanzia di qualità!). Il sound dei Prehistoria è un duro power metal che fa pensare alquanto ai primi Blind Guardian, anche per la somiglianza della voce del singer Alonso “Zo” Donoso con quella del mitico Hansi Kürsch; c’è poi qualche digressione nel thrash quando il sound si indurisce e persino qualche riff serratissimo di scuola black metal. Insomma i Prehistoria dimostrano come anche in campo power metal si può fare qualche sperimentazione senza esagerare e risultare interessanti e non scontati come tanti altri. Le 8 canzoni scorrono via ricche di energia e si fanno ascoltare piacevolmente, dando una bella scossa di adrenalina all’ascoltatore; il ritmo della batteria è spesso bello sostenuto e c’è persino del blast-beat (le registrazioni dello strumento sono state eseguite da tale Joe Viers), le due chitarre si scambiano assoli e riff belli affilati, mentre il basso si fa sentire perché pulsa egregiamente e dona sostanza al sound. Come sempre il lavoro del Mularoni fa la differenza e tutti gli strumenti si apprezzano alla stessa maniera, con un suono che è pressoché perfetto. Ho ascoltato più volte questo album e devo dire che ciò che sorprende è la compattezza, la qualità di tutte le canzoni e l’efficacia del songwriting (mai inutilmente prolisso) ed ogni volta si arrivava alla fine con soddisfazione, consci di aver ascoltato davvero un lavoro ben fatto. “Cryptic halo” dei Prehistoria è dunque un gran bel disco, a conferma che il power metal ha ancora tanto da dare ed è ben lungi dal tramontare!
Ultimo aggiornamento: 08 Febbraio, 2025
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I Night Dream sono una band spagnola che arriva dalla Regione di Murcia, attiva da ormai più di 20 anni, ma con alle spalle solo un album, prima di questo “Heart in fury”, autoprodotto poco prima di Natale del 2024. Il disco, dotato di discreto artwork, è composto da 10 tracce (compresa l’immancabile inutilissima intro ed un’altra breve strumentale a centro scaletta) per una durata totale inferiore di poco ai 40 minuti; segno che almeno il songwriting non è prolisso, ma conciso e diretto. Purtroppo ci sono difetti che fanno però passare questo pregio in secondo piano. In primis la registrazione non è delle migliori, con le chitarre che si sentono poco (soprattutto i riff), così come il basso che viene fagocitato dall’impasto sonoro e finisce parecchio in sottofondo (lo si sente praticamente solo, ottimo protagonista, in "Song of a warrior"), mentre le tastiere (ignoto l’autore) e la voce sono troppo in risalto. Ma fin qui si potrebbe anche chiudere un occhio, dato che si tratta di un’autoproduzione, anche se da un gruppo così esperto, con oltre 20 anni di carriera alle spalle, è lecito attendersi di meglio. Il vero problema è la voce di Alejandro Peñafiel che farebbe meglio a dedicarsi solo alla chitarra e lasciare il microfono a gente verso cui madre natura è stata più generosa in quanto ad ugola. Il pur volenteroso Alejandro, purtroppo, non ha una tonalità particolarmente alta, né espressiva e spesso finisce per risultare ostico e monocorde. L’heavy metal suonato dal gruppo spagnolo richiederebbe un cantante potente, espressivo, versatile ed in grado di raggiungere tonalità alte, tutte caratteristiche che mancano all’attuale vocalist. Dispiace dirlo, perché è evidente che i Night Dream hanno passione ed amore verso queste sonorità classiche, ispirate al buon vecchio heavy metal della NWOBHM; ma tutto questo non basta, davanti ad un disco con evidenti problemi. E dispiace doppiamente, perché le musiche create dalla band messa in piedi dai fratelli Caravaca non sono affatto male e con una registrazione migliore ed un cantante di talento, staremmo a fare un discorso completamente differente! Le 8 canzoni dell’album (ricordiamo che le altre sono brevi intro strumentali) non sono male e si lascerebbero anche ascoltare piacevolmente, magari con un po’ più di groove sulle chitarre che meritano un ruolo da protagoniste; il ritmo imposto dal buon batterista David Caravaca è frizzante e convincente (come in “Forgotten ruins”, tra i pezzi migliori del disco e furbamente scelta per un video), ma purtroppo non basta a salvare le sorti di questo “Heart in fury”. Per il futuro i Night Dream hanno bisogno di migliorare alquanto, iniziando con il reclutare un cantante migliore; per il resto, le qualità non mancano loro e sono sicuro che hanno il talento per fare di meglio!
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Avevo sentito parlare dei Noirad all’epoca del loro debut album “Penny Dreadfuls”, uscito nel 2017; da allora sono trascorsi ben 7 anni e ad inizio dicembre 2024 è uscito il nuovo full-length, intitolato “Aegean legacy”, composto da 8 pezzi della durata totale di poco inferiore ai 41 minuti. Attorno al leader Dario Nuzzolo (bassista) è cambiato praticamente tutto; della formazione che registrò il debut album, infatti, non c’è più nessuno e gli altri musicisti che hanno contribuito alla realizzazione del presente lavoro sono semplici turnisti. Mi ero basato sulle informazioni di metal-archives.com (l’Enciclopedia del metal) dove si descrive il sound come una sorta di heavy/thrash, ma mi sono accorto ascoltando i vari brani che tali informazioni sono alquanto inesatte. Se, infatti, nella prima parte del disco, a partire dalla splendida opener “The hot gates” (sicuramente la traccia migliore dell’album!) e dalla successiva “Hector”, si potrebbe effettivamente identificare il sound dei Noirad come un energico heavy/thrash metal incentrato sul lavoro delle due chitarre, con il basso del leader a martellare e dare sostanza e peso alla musica e la batteria a dare ritmo frizzante grazie ad un sapiente uso della doppia-cassa, ecco che andando avanti con la tracklist le cose cambiano. Già in “Seven against thebes” assistiamo ad un rallentamento massiccio del ritmo che diventa quasi marziale e militaresco (cosa che sentiremo anche in “Plataea”), con un aumento del groove sulle chitarre. Arriva poi “Medea” a spiazzare del tutto, una ballad romantica che inizialmente è per piano e voce, con il greco George Margaritopoulos (dai Wardrum) che sciorina una prestazione canora da brividi, e che solo nella sua seconda parte vede entrare anche gli altri strumenti. Da questo momento, fino alla fine, non ci sarà più traccia dell’heavy/thrash delle prime due canzoni, con l’eccezione della sola “Andromeda”, unico altro pezzo in cui sentiamo la doppia-cassa ed una notevole energia. Negli altri brani, infatti, il ritmo rallenta parecchio ed il sound diventa un heavy metal molto moderato (quasi hard’n’heavy a volte) che ogni tanto strizza l’occhio all’epic, ma con la costante di un buon gusto ed una notevole attenzione per le melodie. La presenza di ben due pezzi lenti nella tracklist (oltre alla già citata “Medea”, c’è anche l’ultima traccia “The poet and the nymph”), infine, non convince più di tanto e personalmente avrei preferito piuttosto un brano energico in più. Il songwriting è quindi alquanto ondivago, quasi come se convivessero all’interno della mente del leader diverse anime, a volte anche alquanto differenti tra loro, il che alla lunga può anche essere un’arma a doppio taglio. Resta da dire che i testi sono ispirati ai miti dell’antica Grecia, segno di una ricerca storica da non sottovalutare. Tirando le somme, “Aegean legacy” è un disco non semplice, con diverse sfaccettature molto differenti tra loro al suo interno, quasi fosse stato composto da soggetti alquanto eterogenei tra loro; questa particolarità è indubbiamente affascinante, ma può anche essere pericolosa perché spiazzante, rischiando così di non accontentare sostanzialmente nessuno; per il futuro forse servirà ai Noirad maggiore compattezza nel songwriting.
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Sono trascorsi ben 7 anni dalla loro ultima uscita discografica, ma tornano a farsi vivi gli spagnoli Kilmara, dopo l’ennesima rivoluzione nella formazione; rispetto all’ultimo lavoro, infatti, attorno al leader John Portillo, è rimasto solo il cantante Daniel Ponce (a sua volta entrato nella band proprio per il precedente album); sono nuovi il batterista Eric Killer (o Killer Lethal che dir si voglia, ma all’anagrafe Eric Martinez) entrato nel 2019, nonché il bassista Dídac Plà ed il secondo chitarrista Carles Salse (che si è occupato anche del sintetizzatore e della produzione), arrivati più di recente. L’instabilità della formazione è da sempre il tallone d’Achille del gruppo di Barcellona e questo molto probabilmente ha inciso sulla loro scarsa prolificità a livello discografico; questo nuovo album, intitolato “Journey to the sun”, infatti, è solamente il quinto in circa 22 anni di carriera (26 se contiamo il periodo in cui la band si chiamava Jadde). Il full-length, uscito nuovamente per la label greca ROAR (recentemente acquisita dalla Reigning Phoenix Music), è dotato di piacevole artwork (realizzato dal bassista) ed è composto da 10 tracce per la durata totale di poco superiore ai ¾ d’ora. Salterei immediatamente l’inutilissima opener, così come eviterei per ora di addentrarmi in inutili divagazioni sulla pessima versione 8-bit della title-track, posta in chiusura, che pare un videogioco arcade degli anni ’80 (e guardando il video se ne comprende il legame); resta dunque da parlare di 8 tracce, 8 canzoni che si fanno ascoltare in maniera assolutamente gradevole, grazie ad un songwriting efficace e convincente, mai banale o prolisso. Strumento protagonista sono le due chitarre che intessono riff massicci ed assoli di gran gusto; sono ormai un paio di dischi che il ruolo del basso è stato alquanto ridimensionato, ed anche questa volta lo sentiamo, ma senza particolari protagonismi, pur avendo sempre un ruolo determinante, come è giusto che sia nel più classico heavy/power suonato dalla band. Il ritmo frizzante viene poi assicurato dall’ottimo batterista, con un drumming potente e con un buon uso della doppia-cassa; ogni tanto si sente anche qualche parte di sintetizzatore che non dispiace (sorvoliamo, come detto, sull’ultima traccia!). C’è poi il cantato di Daniel Ponce, espressivo e versatile, indubbiamente realizzato sapientemente e con eleganza, anche se forse sarebbe più indicato per l’hard rock. Ho ascoltato e riascoltato questo disco più e più volte, arrivando alla nona traccia sempre con molto piacere, perché obiettivamente le varie canzoni, a partire dalla title-track posta in apertura, sono ben strutturate, ricche di energia e si lasciano ascoltare molto piacevolmente, senza particolari cali qualitativi… almeno fino all’ultima traccia, quella nefandezza che vorrebbe essere uno scherzo o un giochino (almeno lo spero!), ma è talmente riuscita male che equivale a gettare nell’immondizia 5 minuti della propria vita! Se non ci fosse stata questa infelice conclusione, sicuramente il voto finale di questo “Journey to the sun” dei Kilmara sarebbe stato certamente più lusinghiero…. E la domanda nasce spontanea: perché rovinare un bel disco con una roba del genere?
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Devo ammettere che non conoscevo i tedeschi Blackslash prima che ci arrivasse la proposta di recensire questo loro quinto full-length intitolato “Heroes, saints & fools”, dotato di uno dei più brutti artwork visti di recente (mezzo punto in meno sulla votazione). La band del Baden-Württemberg è attiva dall’ormai lontano 2007, per iniziativa del bassista Alec Trojan e da allora la formazione è rimasta sempre la stessa, il che è un notevole vantaggio, dato che la coesione dà sempre buoni frutti. Ed in questo loro nuovo album, composto da 9 canzoni per poco meno di ¾ d’ora di durata totale, la coesione e l’esperienza di un lungo percorso fatto insieme si sente eccome! Il loro heavy metal, seppur palesemente ispirato ai nomi più classici della NWOBHM (Iron Maiden su tutti, come facilmente intuibile ascoltando ad esempio “Dye by the blade”), è assolutamente piacevole da ascoltare, estremamente coinvolgente e ricco di energia e melodie. C’è poi la voce di Clemens Haas (fratello del chitarrista Christian) che è bella sporca e ruvida, ma anche estremamente espressiva e si sposa benissimo con il sound del gruppo teutonico. Naturalmente lo strumento protagonista è la chitarra con Christian Haas che regala assoli di gran gusto e piacevoli melodie, ma anche il basso del fondatore Alec Trojan si fa sentire piacevolmente (Steve Harris docet!); a dettare ritmi spesso frizzanti è la batteria dell’ottimo David Hofmeier che, pur senza strafare, si fa sicuramente notare in positivo. Ciò che colpisce è la notevole orecchiabilità di tutti i brani e non meravigliatevi se, dopo qualche ascolto, vi ritroverete a fischiettarne qualcuno sotto la doccia (i coretti di “Tokyo” e “Black widow”, su tutti!); nonostante questo approccio easy e scanzonato, nonché questa evidente ispirazione dai maestri degli anni ’80, la musica sprigionata dal quintetto è fresca ed estremamente godibile, grazie ad un songwriting ispirato ed efficace. Ho ascoltato e riascoltato questo disco più e più volte, ma non ho trovato nemmeno una nota fuori posto o una traccia che sia più blanda o di livello qualitativo inferiore alle altre, tanto che mi è addirittura venuta curiosità di andare a scoprire anche i dischi precedenti della carriera del gruppo. Con questo “Heroes, saints & fools” i Blackslash hanno realizzato un album davvero piacevole, sicuramente tra i migliori usciti in questo inizio di 2025, non fatevelo sfuggire perchè sarebbe proprio un gran peccato!
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Gli On Fire iniziano la loro storia nel 2022 dall’idea del bassista Jo Steel (attivo in tantissime bands dell’underground canadese) che mise in rete immagini di gruppi giapponesi degli anni ‘80 accompagnate dal messaggio, “Cerco di attivare una band che sembri come queste”, attirando subito l’attenzione dell’esperta cantante Cara McCutchen (anch’ella attiva in vari gruppi canadesi, tra cui i Mortillery). Dopo alcuni cambi di formazione, il chitarrista Jeff Black ed il nostro connazionale Alex Rossi (batterista attivo tra vari gruppi toscani) arrivarono a completare il gruppo. Nel 2024 è stato quindi registrato questo debut album, intitolato “Bite the blade”, uscito in questi giorni di inizio 2025 per la label tedesca Witches Brew; l’album, dotato di artwork tra i più brutti visti di recente (forse ispirato da una brutta copia di “In the sign of evil” dei Sodom), è composto da 8 tracce per la durata di appena 32 minuti totali, segno che i pezzi sono brevi e concisi. Del resto, dato che la band suona speed metal, non è necessario che il songwriting si dilunghi troppo. I vari pezzi scorrono veloci, con il nostro Alex Rossi che impone ritmi frizzanti come ogni buon batterista di speed metal dovrebbe sempre fare; la chitarra è strumento protagonista, con il basso del leader che pulsa a dovere e si lascia apprezzare spesso, anche grazie ad una registrazione ben fatta (particolare non così comune tra i gruppi che si ispirano a simili sonorità old-style). C’è poi la voce della singer che è bella aggressiva ed arrabbiata e, pur non avendo un’ugola cristallina, si sposa perfettamente con il sound tosto e ricco di energia della band. Ascoltare e riascoltare questo disco è stato quindi piacevole, a patto però di essere fan di questo particolare genere musicale e di non andare a cercare originalità ed innovazione laddove non ce ne potrebbero essere per ovvie ragioni (basti pensare al messaggio con cui è nata la band, per comprenderlo!). Se quindi vi piace lo speed metal come si suonava tanti anni fa, nell’epoca d’oro di questo genere musicale, sappiate che questo “Bite the blade” degli On Fire potrebbe sicuramente fare al caso vostro; in caso contrario, meglio investire il proprio tempo e la propria pecunia altrove.
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Decimo album da studio per i toscani Labyrinth ed ennesimo centro pieno; certo non siamo (e forse non saremo mai più) ai livelli di “Return to heaven denied”, capolavoro inarrivabile, ma con questo “In the vanishing echoes of goodbye” siamo comunque su ottimi standard, anche meglio di quanto fatto nel più recente passato. Roberto Tiranti è una garanzia assoluta di qualità sopraffina ed anche questa volta conferma di essere tra i migliori cantanti in circolazione con una prestazione estremamente valida, potente, espressiva, calda, poliedrica, ricca di sfaccettature differenti. Le due chitarre degli storici Thorsen e Cantarelli disegnano riff ed assoli di gran gusto, ottimamente supportati dalle tastiere di Smirnoff e dal basso di Mazzucconi; il maestoso Peruzzi, poi, con la sua batteria impone spesso ritmi frizzanti e brillanti, soprattutto nella prima parte del disco, dove troviamo i pezzi migliori. Le prime 5 tracce, infatti, sono una più bella dell’altra, splendidi esempi di ottimo power/prog di classe ed eleganza, con doverosa citazione per “Welcome twilight” e “The right side of this world” che sono tra le canzoni più belle scritte dai Labyrinth negli ultimi 25 anni. Poi dalla sesta traccia in avanti la componente più power metal tende alquanto a passare in secondo piano, il ritmo ogni tanto cala e, seppur rimaniamo su livelli eccelsi, si riduce leggermente l’efficacia, anche per via di un minutaggio che forse in alcuni casi poteva essere ridimensionato (soprattutto nelle ultime due); fa eccezione tra queste la sola “Heading for nowhere” che non ha niente da invidiare ai pezzi migliori della carriera dei toscani. Tirando le somme, appare evidente che con questo “In the vanishing echoes of goodbye” i Labyrinth confermino di essere tornati ad avere una vena compositiva decisamente ispirata, sfornando un album decisamente valido, con brani semplicemente strepitosi, tra i migliori scritti dalla band negli ultimi 25 anni d’attività; non siamo ancora all’altezza del capolavoro precedentemente citato, ma obiettivamente non siamo così lontani...
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Si sa poco degli spagnoli Leyendärian, nessuna bio è stata allegata alla richiesta di recensione dalla label Thornado Music (spagnola anch’essa), il sito è completamente in lingua madre e la band non è nemmeno presente sull’enciclopedia on-line della nostra amata musica (metal-archives.com). Personalmente non avevo mai sentito parlare prima del gruppo di Barcellona e quindi mi sono incuriosito e cimentato volentieri con la recensione di questo "La Forja de una Leyenda", album dotato di artwork alquanto canonico (il solito dragone) e composto da 11 tracce per una cinquantina di minuti di durata totale. Come spesso accade per le bands spagnole, il cantato è in lingua madre ed, in questo caso, arriva da una voce femminile della valida Txell, accanto alla quale ogni tanto compare anche una voce maschile in growling che semplicemente non c’azzecca assolutamente niente con il sound della band, oltre a non essere nemmeno particolarmente entusiasmante per come è realizzato (sembra un orco con la raucedine!). Ma cosa suonano questi catalani? Prendete i Mago de Oz, metteteci un pizzico di Saurom ed avrete il folk metal dei Leyendärian; si tratta di qualcosa di originale o innovativo? Assolutamente no, ma non credo siano questi gli obiettivi degli spagnoli, quanto quello di suonare la musica che amano e verso la quale hanno un’evidente passione che, come sempre, merita ampio rispetto. Strumento protagonista è il flauto dell’altra donna del gruppo (Queralt), accanto al quale fanno da contorno e supporto violino e tastiere (spesso ispirato alla scuola degli anni ’70); mi delude un po’ la chitarra di Sito, troppo in sottofondo ed assolutamente priva di groove; buono il lavoro del batterista brasiliano David Van Geisel che impone spesso ritmi frizzanti (e quando non lo fa il livello qualitativo dei pezzi ne risente, come in “Caballero blanco”, il pezzo peggiore del disco), mentre il basso di Falu è un po’ sacrificato e meriterebbe maggiore protagonismo; non aiuta sicuramente una registrazione non eccelsa che esalta fin troppo il volume della voce e del flauto. Da segnalare, almeno credo, la presenza di altre voci; ad esempio, nella già citata “Caballero blanco” (canzone alquanto noiosa e ripetitiva) si sente una voce maschile che non sono riuscito a riconoscere, ma che comunque non fa impazzire, mentre qua e là, oltre al predetto fastidioso growling, fa capolino anche una seconda voce femminile; purtroppo la mancanza di informazioni non aiuta assolutamente da questo punto di vista. Ho ascoltato più e più volte questo disco, ma senza mai trovare qualcosa di particolare o quella hit che da sola valesse l’acquisto del cd; sicuramente la prima parte della tracklist è migliore della parte centrale (soprattutto “Nimue” e la tracklist), mentre la qualità risale solo con le ultime due tracce; ci troviamo comunque davanti ad un disco che difficilmente passerà alla storia del folk metal spagnolo. Dispiace dirlo ma questo “La forja de una leyenda” dei Leyendärian raggiunge a fatica la sufficienza e non riesce ad andare oltre; per il futuro servirà evitare di rovinare i pezzi col growling, registrare meglio il prossimo full-length e magari dare un po’ più di importanza alla chitarra elettrica, che merita sicuramente maggiore risalto (come accade nella penultima traccia, “Epona”), anche se dovesse significare ridimensionare il protagonismo del flauto.
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I Crimson Storm nascono nel 2009 in Sardegna per iniziativa del chitarrista italiano Lögan Heads (non è noto il nome anagrafico), il quale si è poi trasferito a Barcellona in Spagna, dove adesso la band è attiva, arrivando quest’anno all’agognato debut album “Livin’ on the bad side”, uscito per la label iberica Fighter Records. Già dall’artwork del disco (composto da sole 9 tracce per nemmeno 34 minuti di durata totale) si capisce che la band affonda le proprie radici negli anni ’80, quando poi partono le prime note dell’opener “Night of the tyrant” se ne ha la conferma; il sound, infatti, è uno speed/heavy metal, con qualche rara digressione nell’hard rock, chiaramente ispirato ai grandi nomi degli anni ’80 (a voi la scelta dei nomi). Fortunatamente la produzione, contrariamente a quanto spesso accade con gruppi del genere, non è old-style ma al passo coi tempi e permette di assaporare tutti gli strumenti degnamente. Ecco quindi che si apprezza il lavoro di Aless Oppossed al basso che supporta egregiamente il leader con il suo strumento protagonista che regala anche parti soliste al fulmicotone; in questo è anche ottimamente aiutato da Pol Esteban alla batteria che impone spesso ritmi belli sostenuti, come la ricetta dello speed metal richiede. C’è poi la voce abrasiva del singer Pau Correas, sporca e corrotta, forse non particolarmente entusiasmante in quanto ad espressività, ma comunque accettabile per lo specifico genere musicale (anche se sarebbe stato preferibile avere un cantante dall’ugola più “pulita”). Se siete alla ricerca di originalità ed innovazione, tenetevi lontani da questo disco, perché i Crimson Storm non si inventano assolutamente niente di nuovo, ma ripercorrono la strada che tanti gruppi hanno percorso prima di loro in questi ultimi 40 anni; lo fanno però con passione ed una discreta perizia, fregandosene altamente delle mode e dei predetti concetti, ma suonando solo e soltanto la musica che amano e già solo per questo motivo meritano stima e rispetto assoluti. Se, quindi, anche voi siete tra coloro che apprezzano lo speed metal ispirato agli anni ’80, sappiate che questo “Livin’ on the bad side”, debut album dei Crimson Storm, pur non essendo un disco che passerà alla storia dell’heavy metal, potrebbe indubbiamente fare al caso vostro. Sufficienza sicuramente meritata. Ad Majora!
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