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Opinione scritta da Ninni Cangiano

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    17 Mag, 2025
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Wow! Questa è stata la mia reazione ascoltando “The Pharaoh’s return”, opener del debut album dei brasiliani GaiaBeta “Gate of GaiaBeta”. Il gruppo è stato fondato nel 2017 dal cantante Marcos Diantoni nella città di Feira de Santana e, dopo aver rilasciato un paio di singoli, ha firmato per la label cipriota Pitch Black Records (sempre una garanzia di qualità!) che ha fatto uscire in questi giorni il cd, composto da 11 pezzi (di cui 3 bonus che non compaiono nella versione digitale) per la durata di circa un’ora. Come dicevo, la sensazione iniziale è stata davvero notevole e così è stato anche per la restante parte dei pezzi. Gran parte del merito va dato alle due chitarre di Lennon Kitaro e Fabio Mesquita che regalano assoli di gran gusto, spesso anche come twin guitars (Irons docet!); ma anche Valter Filho alla batteria fa un ottimo lavoro, imponendo spesso ritmi belli frizzanti, così come Junior McGyver con il suo basso si fa spesso sentire come piacevole protagonista. Per assurdo, è proprio il leader del gruppo ad essere il meno convincente; la sua voce, infatti, non mi ha fatto impazzire a livello di tonalità (non a caso la mia preferita è la strumentale “Victory is coming”), anche se bisogna riconoscere una buona espressività (soprattutto quando va su note più basse, come in “A sad story”); il fatto, inoltre, che la registrazione lo pone ad un livello superiore, inoltre, non agevola. C’è di meglio in giro? Sicuramente la risposta è affermativa, ma ci sono anche tanti cantanti ben peggiori di Marcos Diantoni! Non oso, però, immaginare che bomba sarebbe questo disco se a cantare ci fosse un Ralph Scheepers o un Fabio Lione… Il sound della band è un robusto heavy metal, con qualche leggero influsso power, e la musa ispiratrice più evidente è quella degli Iron Maiden, soprattutto per il lavoro delle due chitarre e del basso (ditemi un po’ se la parte centrale di “Second flame”, non fa venire in mente lo stile di Steve Harris!). Come detto, tutti i pezzi si lasciano ascoltare molto gradevolmente ed anche quelli che hanno minutaggio più lungo scorrono via in maniera fluida e convincente. Di fatto, ogni volta che mi mettevo all’ascolto era sempre un piacere, così come la voglia di pigiare ancora il tasto “play” era forte. Mi pare inutile andare oltre e si può quindi affermare che questo “Gate of GaiaBeta” dei brasiliani GaiaBeta è tra i migliori debut album fin qui ascoltati nel 2025, non fatevelo sfuggire!

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    17 Mag, 2025
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A tre anni di distanza dal valido “Fire in the sky”, tornano a farsi sentire gli inglesi Absolva, con il loro settimo album da studio, intitolato “Justice”, uscito ancora una volta (come per tutti gli altri dischi) con la label inglese Rocksector Records. Il disco, dotato di artwork non proprio esaltante (in stile western), è composto da 10 pezzi per circa ¾ d’ora di durata totale, con una discreta serie di ospiti internazionali che duettano con Christopher Appleton al microfono; abbiamo il mitico Blaze Bayley (10 minuti di vergogna per chi non conosce l’ex-cantante degli Iron Maiden!) sull’ottava traccia, l’olandese David Marcelis (Lord Volture e Thorium) sulle tracce 1 e 5, il cileno Ronnie Romero (ex-Rainbow, tra i tanti) sulla sesta ed il canadese Stu Block (ex-Iced Earth, tra gli altri) sulla terza. La musica degli Absolva per chi, come il sottoscritto, segue il gruppo di Manchester dagli inizi, è un piacevole heavy metal, ricco di melodie ed ispirato alla NWOBHM; bisogna dire che ultimamente la band ha rallentato alquanto, strizzando l’occhio anche a sonorità quasi hard-rockeggianti e comunque più melodiche rispetto al passato. Qualcuno potrà dire che, andando avanti con gli anni, il gruppo ha perso energia e grinta, ma forse più semplicemente ha moderato il proprio approccio. Forse manca un po’ la cattiveria dei primi dischi, soprattutto nella batteria e nelle parti soliste di chitarra dei due fratelli Appleton, ma il risultato è comunque un lotto di canzoni sicuramente orecchiabili e piacevoli da ascoltare. Probabilmente in questo disco manca quella hit che ti faccia saltare dalla sedia e da sola valga l’acquisto del cd, ma i 10 brani sono comunque di buona qualità e mettono in mostra una band ancora in grado di dire la sua, con un buon livello qualitativo generale e nessun filler di sorta. Sicuramente questo “Justice” non è il miglior album della carriera degli Absolva (obiettivamente “Side by side” è di un livello superiore), ma si lascia ascoltare più che piacevolmente e conferma la band inglese come una delle migliori nell’heavy metal più classico.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    17 Mag, 2025
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Quando ho letto il nome di Rob Lundgren, nella formazione degli statunitensi Echosoul, mi sono subito fiondato su questa recensione, apprezzando enormemente le capacità del cantante svedese e praticamente certo che avrei avuto da ascoltare qualcosa di interessante. Aggiungiamo poi che il power/prog è tra i miei generi musicali preferiti ed il quadro è completo. Gli Echosoul sono stati fondati nel 2019 nell’Indiana dal chitarrista Guy Hinton che, per questo secondo album intitolato “Time of the dragon” (dotato di piacevole artwork realizzato dal duo Mathew Hiron/Scott La Rock), oltre al già citato singer, si avvale anche della collaborazione di altri musicisti, fra cui anche il nostro connazionale Fabio Alessandrini (batterista, tra gli altri, anche degli Annihilator), oltre ad alcuni ospiti fra cui spicca il mitico Andy La Rocque (10 minuti di vergogna per chi non conosce questo chitarrista svedese, sorta di icona dell’heavy metal mondiale!). Se l’inizio (dopo l’inutilissima quanto immancabile intro intitolata giustamente “Prologue”), con la piacevole title-track è davvero incoraggiante, tanto che mi sono venuti in mente i migliori Elvenking (ma senza il violino) in alcuni passaggi più prettamente power metal, è andando avanti con la tracklist che non tutto quadra alla perfezione. Il songwriting è infatti fin troppo eterogeneo e finanche dispersivo; già la lunga “Path of the righteous” strizza l’occhio più al prog e risulta un attimino prolissa, ma è con “Invisible empire” che le cose davvero non tornano, con un pezzo esagerato, troppo aggressivo (anche per la presenza ingombrante di troppe harsh vocals del leader) e quasi fastidioso da ascoltare oltre che avulso dal contesto! Per fortuna la parte finale migliora, già con l’ottima strumentale “Split”, con la piacevole “Die demon die” e con la conclusiva “A new conspiracy” che si ricollega al power metal della title-track. Nel centro della tracklist ci sono invece pezzi discreti che non dispiacciono all’ascolto, ma che non hanno quella marcia in più che possa far saltare dalla sedia e sorprendere. Ecco, il principale problema di questo “Time of the dragon” degli Echosoul è proprio qui: manca quella hit che da sola valga l’acquisto dell’album, i vari brani (tolta la predetta “Invisible empire”) si lasciano anche ascoltare e ri-ascoltare piacevolmente, ma alla fine non convincono più di tanto, con il risultato di lasciare un po’ di amaro in bocca per qualcosa che potenzialmente poteva essere molto meglio ma che, in fin dei conti, non eccelle e non risalta particolarmente.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    11 Mag, 2025
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Avevo scoperto i tedeschi Sweeping Death all’epoca del loro EP “Tristesse” uscito nel 2021; li ritrovo a fine aprile 2025 con questo nuovo LP, intitolato “Devotion to the absurd night”, il secondo della loro carriera, dopo il debut “In lucid” del 2018. L’album è composto da 10 tracce (fra cui due brevi strumentali), per una durata totale di oltre 47 minuti, segno che il songwriting è tutt’altro che conciso. Il minutaggio elevato, infatti, rende l’ascolto non proprio scorrevole, soprattutto sui brani più lunghi (l’opener “Devotion”, “Echoes of the self” e soprattutto “The cauldron’s eyes”) che funzionerebbero meglio se accorciati di un paio di minuti ciascuno con qualche sforbiciata qua e là. Capisco la voglia di mettersi in evidenza in un genere complesso come il prog/power, ma non bisogna mai perdere di vista la funzionalità del singolo pezzo, soprattutto se, come nel caso del gruppo teutonico, si è sulla scena da oltre un decennio. Ogni tanto, inoltre, il cantante Elias Witzigmann si lascia andare a vocals alquanto estreme, quasi al limite del growling, che poco c’entrano con l’elegante prog/power suonato dalla band (rovinando brani come “Stonebound serenity” che, invece, sarebbe stato molto migliore con un approccio più pacato); diverso discorso si può fare con lo screaming che ogni tanto non ci sta male, ma anzi contribuisce a dare energia; sia chiaro, c’è di meglio in giro, ma in fin dei conti lo stile del singer non dispiace del tutto. Le due chitarre della coppia Bertl/Heilmeier sono gli strumenti principali che si mettono in ottima evidenza, ma si nota anche molto piacevolmente un certo protagonismo del nuovo bassista Martin Kauschinger, entrato in formazione nello scorso anno; la batteria del buon Tobias Kasper, infine, impone spesso ritmi frizzanti, ma si fa apprezzare anche per uno stile variegato e fantasioso che non si limita al semplice compitino di accompagnamento. Gli ingredienti per un buon disco ci sono quindi tutti ed effettivamente gli Sweeping Death dimostrano di saperli miscelare intelligentemente, tanto che i vari ascolti dati a questo disco sono comunque stati piacevoli, nonostante i particolari non convincenti precedentemente citati. Il livello qualitativo è valido e non ci sono brani di qualità inferiore o fillers di sorta, nonostante i problemi sul cantato; se proprio dovessi scegliere una canzone preferita, opterei sicuramente per “Angstridden”, sia perché si tratta di una strumentale, ma soprattutto perché è tra le più brevi (tolte le due brevissime, quarta ed ultima traccia) ed efficaci. Se avevo molto apprezzato il loro precedente EP, questa volta gli Sweeping Death, alla prova sulla lunga distanza, non mi hanno convinto del tutto, anche se questo “Devotion to the absurd night” è comunque un disco obiettivamente ben fatto.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    11 Mag, 2025
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Un inizio che non può non ricordare “Welcome home (Sanitarium)” ci introduce a “Burn” debut album degli americani Hangfire (dallo stato di Washington), gruppo nato dall’incontro del chitarrista Sean ‘Shredder’ Searls con il bassista Steven Tolbeck; dopo qualche tempo si sono uniti prima il batterista Shannon ‘The Cannon’ Laird e, per ultima, l’affascinante e capace cantante Jenea Fiore (purtroppo già uscita dalla band dopo la registrazione dell’album). Tornando all’inizio, il paragone con i Metallica sparisce dopo le prime note dell’opener “Hunger”; la band che ha apertamente ispirato gli Hangfire è infatti quella dei Judas Priest ed, in genere, il buon vecchio heavy metal degli anni ’80 della scuola britannica, fatte le dovute differenze scaturite dalla presenza di una voce femminile (caratteristica rara nella prima parte della storia dell’heavy metal); a questo si aggiunge qualche tocco hard rockeggiante, soprattutto quando il ritmo cala (“White lie” ne può essere un esempio). Ma l’approccio della Fiore è melodico solamente a tratti, mentre per la maggior parte del tempo urla tutta la sua energia senza risparmiarsi e dispiace davvero che sia uscita dal gruppo, perché è proprio un’ottima cantante, espressiva, coinvolgente e convincente. E sono convincenti anche le 12 canzoni che fanno parte dell’album, per una durata totale di poco superiore ai 48 minuti, segno che anche il songwriting è conciso ed efficace e non si perde in inutili ammennicoli che appesantirebbero solamente l’ascolto. Questi brani, invece, sono sicuramente gradevoli da ascoltare; la chitarra ha il giusto groove ed intesse assoli di gusto, il basso è protagonista come necessario, mentre la batteria non impone ritmi esagerati, ma è sempre brillante. Insomma la ricetta per un buon disco c’è tutta e canzoni come le ottime “Thunder”, “Headspin”, “The hunter” ne sono la prova lampante; certo non tutte sono allo stesso livello qualitativo e qualcosa poteva anche esser fatta meglio (soprattutto nella parte finale della tracklist), ma si tratta di un debut album (seppur di musicisti esperti) e possiamo anche soprassedere. Non so cosa ci potranno riservare in futuro gli Hangfire, visti i problemi di formazione, ma di certo questo loro debut album intitolato “Burn” (rilasciato dalla texana Rottweiler Records) è davvero ben fatto e può certamente incontrare l’approvazione dei fans del buon vecchio ma intramontabile heavy metal.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    10 Mag, 2025
Ultimo aggiornamento: 10 Mag, 2025
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Uscito a fine febbraio in digitale ed a fine marzo su cd, eccoci a parlare di “Lord of the lost souls”, il terzo album dei piemontesi Evilizers, ancora una volta sotto l’egida della Punishment 18 Records. La proposta musicale della band non è cambiata, così come sostanzialmente non è cambiata la formazione (bisogna annotare solo l’ingresso del chitarrista Emanuele De Bernardi al posto di Davide Ruffa) e la coesione all’interno del gruppo si sente eccome. Nell’heavy metal degli Evilizers sono protagoniste le due chitarre del leader Fabio Novarese e del nuovo entrato, mentre il basso e la batteria supportano a dovere. La produzione più che valida di Aldo Lonobile (10 minuti di vergogna per chi non conosce questo mostro sacro del metal italiano!) nei suoi Truck Me Hard Studios permette di assaporare ogni passo delle 9 canzoni che compongono l’album (durata totale di quasi 44 minuti). Sulla voce dell’altro membro fondatore, il singer Fabio Attacco, non mi soffermo più di tanto; personalmente non ho mai amato la sua timbrica aggressiva (in questo album anche maggiore che in passato), ma di certo c’è molto di peggio in giro così come, per amore d’onestà, anche di meglio. Trattandosi, però, principalmente di gusti personali, restiamo nel campo dell’ampiamente opinabile, quindi sicuramente ci sarà chi giudicherà diversamente dal sottoscritto, apprezzando la performance del buon Attacco. E rimanendo nel campo dei gusti, personalmente non ho molto apprezzato i pezzi meno ritmati, come “Goddess of pain” (non male, invece, la ballad “All is gone”), mentre ho trovato più gradevole l’ascolto dei brani più veloci, come “No return” e “Scanners”. Qualche volta, infine, la band tende un po’ troppo ad essere ripetitiva, come ad esempio per il coro della lunga title-track finale e di “Facing my fear” (in cui, tra l’altro, Attacco si lascia andare ad urla da growler un po’ esagerate). Tirando le somme, anche questa volta gli Evilizers hanno comunque realizzato un disco valido, questo “Lord of the lost souls” non passerà alla storia dell’heavy metal, ma sicuramente merita un giudizio positivo.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    04 Mag, 2025
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Inizio con lo scusarmi per il ritardo di questa recensione, ma purtroppo per il quarto album degli Arion, intitolato “The light that burns the sky”, uscito a fine febbraio, abbiamo avuto a disposizione il solo streaming, modalità di recensione estremamente problematica, soprattutto per chi svolge questa attività per passione e nei ritagli di tempo. Purtroppo le labels, invece che agevolare, complicano lo svolgimento di questi compiti e gli unici che alla fine ci rimettono, oltre alle stesse bands, sono i fans che non hanno pronta contezza di quanto i loro beniamini hanno realizzato. Chiusa questa doverosa parentesi, veniamo a parlare di musica. Gli Arion, per chi ascolta power metal, non sono un nome nuovo; la band finlandese, infatti, è attiva ormai da 14 anni ed ha realizzato finora tre full-lengths uno più bello dell’altro. Anche questo quarto album resta al livello dei suoi predecessori, con melodie orecchiabili, ritmi frizzanti (Topias Kupiainen fa un ottimo lavoro con la batteria, specie con la doppia-cassa!), assoli di gran gusto a profusione (Iivo Kaipainen è una garanzia, ma anche Arttu Vauhkonen alle tastiere si fa sentire!) e la voce di Lassi Vääränen che, come sempre, è espressiva, acuta e ricca di energia, come ogni cantante di power metal dovrebbe essere. Una dopo l’altra scorrono potenziali hits, dalla title-track che apre l’album (dopo l’immancabile inutilissima intro), passando per i due singoli “Like the phoenix I will rise” e “Wings of twilight” (in cui è presente come ospite, la meravigliosa Melissa Bonny), ma anche per l’altro magniloquente singolo “From an empire to a fall”, andando avanti fino alla conclusiva piccola suite “Into the hands of fate” che suggella degnamente un disco che farà la gioia di ogni fan di questo genere musicale. Ormai gli Arion sono da considerarsi tra le punte di diamante del power metal nordeuropeo, da anni realizzano musica molto più piacevole di tanti altri nomi più blasonati e questo “The light that burns the sky” ne è l’ennesima conferma. Rubando una frase ad un giornalista specializzato del settore, questo album è dei classici “Buy or die!”.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    03 Mag, 2025
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Non si sa molto degli Axeblade, gruppo italiano con membri sparsi tra Piemonte, Lombardia e Valle d’Aosta, tutti con una discreta esperienza nell’underground del Nord Italia e quindi musicisti non “di primo pelo”. A fine aprile, grazie alla tedesca Witches Brew, è uscito il debut album omonimo, composto da 8 canzoni (cui si aggiunge la solita inutilissima intro), per una durata totale di poco superiore ai 35 minuti. Il sound della band è un robusto heavy metal, che affonda le proprie radici negli anni ’80, in cui probabilmente il quartetto ha vissuto la propria gioventù e si è affacciato al mondo del metal. Non andiamo quindi a ficcarci in inutili discorsi su originalità ed innovazione, perché sono vocaboli che non interessano per niente agli Axeblade, che suonano a questa maniera per la loro evidente passione verso queste sonorità old-style. Purtroppo anche la registrazione è alquanto old-style e lo strumento che viene maggiormente penalizzato è la batteria del buon Wallace (all’anagrafe Marco Stefani); per il futuro sarà quindi necessario investire un budget maggiore in tal senso. Lo strumento protagonista è naturalmente la chitarra de Il Meggi (Luca Maggi) che intesse muri di riff ed assoli di gusto, mentre il basso di Paolo Pontiggia si fa notare positivamente, emergendo ogni tanto come ottimo protagonista, come tradizione del buon vecchio heavy metal richiede. C’è poi la voce della bionda Paola Goitre (anche negli storici Fil di Ferro), screamer potente, ma comunque anche espressiva ed alquanto versatile, anche se a volte tende ad esagerare (come in “Ready for war”, ad esempio). La ricetta per un buon disco c’è quindi tutta ed effettivamente questo “Axeblade” tutto sommato non delude, infondendo energia e passione dall’inizio alla fine, finendo per ricordare vagamente un po’ di quanto fatto dai Mesmerize in un trentennio circa (fatti i dovuti paragoni tra le voci, completamente differenti!). Se siete appassionati di queste sonorità heavy old-style con voce femminile, allora tenete d’occhio questi Axeblade, perché potranno regalare ancora altri dischi di buona qualità, così come questo loro debut album omonimo.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    03 Mag, 2025
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I Sapere Aude sono un gruppo spagnolo formatosi nel 2011 dalle parti di Valencia e proprio dei miti e delle leggende della loro terra natia parlano in questo “Sants e demonis (Vincit omnia veritas acto II)”, EP composto da 6 pezzi per la durata totale di poco inferiore ai 24 minuti. Il combo spagnolo ha rilasciato finora una manciata di singoli ed un altro EP nel 2021, oltre al debut album “Lista negra” nel 2016. Non ci troviamo davanti ad una band particolarmente prolifica, ma è indubbio che il loro folk metal in lingua madre è piacevole da ascoltare; tra Mago de Oz (principale fonte d’ispirazione) e qualche lontana reminiscenza dei nostrani Elvenking, i Sapere Aude ci deliziano con pezzi ricchi di energia, allegria ed estremamente orecchiabili. Francesc Clarí con la sua batteria impone spesso ritmi frizzanti, sostenuto ottimamente dal basso di Abraham Pájaro e dai muri di riff della coppia di chitarristi Jorge Terol e David Guerrero, con le tastiere di Héctor Carrión che si fanno sentire molto piacevolmente; c’è poi il violino di Carlos Andrés che si occupa con successo delle parti soliste, proprio assieme alle tastiere; in tal senso, le due chitarre forse dovrebbero essere maggiormente protagoniste, mentre risultano relegate un po’ troppo in sottofondo. La voce del cantante Miguel Ángel Muñoz (che si occupa anche di disegnare le copertine della band) non è male, c’è sicuramente di meglio in giro, ma in fondo non dispiace per niente, risultando anche discretamente espressivo. Dopo l’infuocata accoppiata iniziale “Demonis” e “Marta”, ottimi esempi di folk power, parte la ballad “Noche valenciana” forse un po’ troppo scontata. Convince maggiormente “El butoni”, la traccia che maggiormente ricorda gli Elvenking, bella ritmata e frizzante. Si prosegue con l’orecchiabile “Som primavera” (in cui però non convincono molto le tastiere che imitano le trombe), mentre la conclusione è affidata a “Nana”, cover degli storici spagnoli Warcry, ballad per pianoforte e voce, molto bella e romantica; ritengo però che ben due ballads su solo sei brani sono forse troppe e sarebbe stato meglio scegliere un brano più “heavy”. Tirando le somme, se siete fans del folk metal cantato in spagnolo, i Sapere Aude sono un gruppo da tenere d’occhio e questo EP “Sants e demonis (Vincit omnia veritas acto II)” merita sicuramente attenzione, perché è indubbiamente ben fatto.

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Opinione inserita da Ninni Cangiano    03 Mag, 2025
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Con il nome di Spitfire esistono o sono esistiti nel corso degli anni parecchi gruppi, oggi parleremo della band di Karlsruhe in Germania, formatasi nel 2014 (ma in precedenza attiva come Stormblade) per iniziativa del batterista Thunder Manne e del cantante Rico S.; gli Spitfire in carriera hanno realizzato un EP e tre LP, di cui questo “Trinity” è l’ultimo, edito dalla Witches Brew a fine ottobre 2024. Il genere suonato dal gruppo del Baden-Württemberg è un robusto speed/thrash, con parecchio groove sulle chitarre che ricamano anche assoli piacevoli, una batteria che impone ritmi frizzanti, un basso ottimo protagonista (anche di un assolo su “Mankind into dust”) ed una registrazione al passo coi tempi che esalta tutti gli strumenti. Non eccezionale la voce di Rico S., che urla fin troppo, finendo per risultare anche leggermente monotono; anche la sua aggressività a volte (non sempre per fortuna!) finisce per essere esagerata, mentre per un genere simile forse sarebbe stato più opportuno avere un cantante con un’ugola più acuta e magari anche isterica (chi ha detto alla John Cyriis?). L’album è dotato di artwork minimale, con il mitico caccia monoposto della seconda guerra mondiale che da sempre contraddistingue le copertine del gruppo tedesco; è inoltre composto da 10 tracce per una durata totale di circa 41 minuti, segno che il songwriting non è particolarmente eccessivo (o quanto meno non lo è quasi mai), come è giusto che sia in un genere come lo speed metal. Tralasciando discorsi su innovazione ed originalità, è indubbio che questo “Trinity” sia un buon esempio di come si debba suonare speed metal in questi anni; se solo gli Spitfire trovassero un cantante migliore ed il buon Rico si limitasse a suonare la chitarra (e lo fa anche bene!), in futuro sono pronto a scommettere che potrebbero fare anche di più di così!

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